20 anni da Chernobyl

Chernobyl è il nome di una città dell'Ucraina settentrionale, situata circa 100 km a Nord di Kiev , con una popolazione di circa 44000 abitanti. Il suo nome in ucraino significa Artemisia. Importante centro industriale e commerciale in particolare nel XIX secolo, è ormai tristemente famosa per il disastro avvenuto nella sua centrale nucleare, che ha coinvolto tutta l'Europa.

La centrale di Chernobyl consisteva di quattro reattori nucleari realizzati fra il 1970 e il 1983 e in funzione dal 1977 (il primo) e dal 1984 (il quarto e ultimo).
Nel 1986 erano in costruzione altri due reattori dello stesso tipo, che avrebbero dovuto incrementare l'attività della centrale.
Il 25 aprile 1986
- era un venerdì - il reattore dell'unità quattro doveva essere fermato per un intervento di manutenzione programmata. Si decise allora di approfittare di questa circostanza per eseguire un esperimento sulle parti non nucleari del reattore: si voleva verificare se, in caso di perdita di potenza, una delle due turbine poteva fornire sufficiente energia elettrica per far funzionare il circuito di emergenza e le pompe di circolazione dell'acqua di raffreddamento.
L'esperimento non era nuovo, anche se fino ad allora non aveva prodotto esiti significativi e, anzi, proprio per questo motivo veniva ripetuto. In quella circostanza, si verificò però una pericolosa carenza di informazioni nel personale incaricato dell'esperimento , inconsapevole delle ricadute nucleari del proprio operato in ambito elettrico, e una tragica sottovalutazione delle procedure di sicurezza.
Per quel tipo di prova, il reattore - essendo stato disattivato il sistema di raffreddamento di emergenza del nucleo del reattore - doveva essere stabilizzato a una potenza di 1000 MW ma, alle 23.00 circa del 25 aprile, la potenza era caduta a 30 MW e solo due ore dopo, intorno all' 01.00 del 26 aprile (grazie a un complicato intervento manuale degli operatori che di fatto cancellò i sistemi automatici in grado di bloccare il reattore) la potenza era stabilizzata a circa 200 MW.
La drastica diminuzione di acqua di raffreddamento accentuò l'effetto di "coefficiente positivo vuoto" che rese gravemente instabile il reattore, determinando un aumento repentino di potenza, fino a 100 volte la potenza teorica del reattore.

Così, alle ore 01.23 del 26 aprile 1986, nel reattore n° 4 di Chernobyl si verificarono due tremende esplosioni , che distrussero il nucleo e il tetto protettivo del reattore stesso, provocando la fuoriuscita di detriti della grafite caldi, altamente radioattivi, e di una nube di fumo causata dai prodotti radioattivi della fissione.
I componenti piu' pesanti della nube - innalzatasi per circa 1 km nell'aria - si sono depositati a terra nei dintorni della centrale, ma quelli piu' leggeri sono stati trasportati dal vento in direzione nord-ovest.
Intanto gli incendi provocati dalle esplosioni avevano completamente distrutto il reattore. Complessivamente si calcola che furono immessi nell'atmosfera 100 milioni di radionuclidi (xeno, iodio, cesio 134 e 137 ecc.).

Subito, intervennero oltre 100 vigili del fuoco dalla vicina (3 km) città di Pripyat e alle 05.00 del mattino del 26 aprile gli incendi erano pressochè domati, ma cresceva il rogo della grafite (causa della dispersione di radionuclidi nell'aria) tanto piu' pericoloso e grave in quanto non si conoscevano esattamente i sistemi di intervento contro questo rischio.
Solo il 9 maggio, il rogo si spense e si potè iniziare la costruzione di una struttura protettiva intorno alle rovine del reattore n°4, il cosiddetto "sarcofago" che doveva proteggere, temporaneamente, dalla possibilità di emissione di radionuclidi. Di fatto, è rimasta l'unica protezione per più di dieci anni.

Tre persone morirono immediatamente; altre 28 nei giorni successivi, a causa dell'incidente; 237 persone furono colpite da sindrome acuta di radiazione.
Ma ben più gravi sono state le conseguenze a lungo termine: il 23 per cento del territorio della Bielorussia è stato contaminato (come pure il 4,8 per cento dell'Ucraina e lo 0,5 per cento della Russia) e, a livello socio-sanitario, si è registrato un sensibile incremento di forme tumorali , specialmente nei bambini, e una rilevante diffusione di problemi psicologici.
Le autorità russe decisero, seppur con ritardo - nella mattinata del 27 aprile - di far evacuare la città di Pripyat che contava 49.000 abitanti, e in seguito tutti coloro che abitavano nella cosiddetta zona "30 chilometri", vale a dire le oltre 130.000 persone che vivevano nel raggio di 30 km attorno a Chernobyl.
Intanto, nessuna notizia era stata data ufficialmente dal governo russo in merito a quanto accaduto: l'allarme internazionale scattò soltanto il 28 aprile quando i sistemi di rilevazione di radiazioni della centrale di Formarsk in Svezia registrarono un improvviso aumento di radioattività proveniente dall'URSS.
Solo a questo punto, alle 19.30 di lunedì 28 aprile 1986, l'agenzia di stampa sovietica Tass annunciò pubblicamente che si era verificata una "avaria" alla centrale nucleare di Cernobyl, precisando che non c'erano vittime e che tutto era sotto controllo. In realtà non era così: il fall-out (cioè la dispersione di particelle radioattive nell'atmosfera) proseguì fino al 10 maggio e l'azione dei venti favorì la diffusione della nube radioattiva al di fuori del territorio sovietico nei giorni successivi al 26 aprile: il 27 e il 28 aprile furono colpite la Germania, la Polonia e i Paesi Scandinavi, il 30 aprile fu raggiunta l'Italia, poi la nube si spostò verso nord-ovest .

 

IL NUCLEARE OGGI

Sono passati vent'anni da quel disastro, dal 26 aprile 1986. Sono passati vent'anni e il dibattito torna, a flussi e riflussi, allo stesso nodo irrisolvibile. Può l'uomo fare a meno del nucleare?

In questo ultimo decennio, abbiamo passato varie fasi ma soprattutto abbiamo vissuto, il problema delle fonte energetiche: dalle guerre per il petrolio alle domeniche senz'auto, dai blackout al prezzo della benzina alle stelle.

I toni che si sovrappongono sull'argomento sono, come sempre su questi temi, forti e contrastanti. Poco è lo spazio lasciato al dialogo ma ci sono anche delle novità: anche storici esponenti dell'ambientalismo (e dell'antinuclearismo) si esprimono adesso a favore dell'energia nucleare. In particolare, nell'ultimo anno, James Lovelock - con un articolo pubblicato sul Reader's Digest nel marzo del 2005 - e Patrick Moore - sul Washington Post del 16 aprile 2006 - hanno espresso il loro parere favorevole all'uso dell'energia nucleare in ambito civile. Questo dibattito è stato ripreso anche dalla rivista italiana "Le Scienze", nel suo numero di aprile.

Ma chi sono costoro? James Lovelock, già celebre scienziato inglese, divenne negli anni '70 un guru dell'ambientalismo grazie alla sua teoria di Gaia, un sistema attraverso il quale la Terra si autoregolamenta in modo da continuare a fornire le condizioni migliori per le forme di vita che la abitano. Patrick Moore, invece, è stato uno dei fondatori del movimento ambientalista Greenpeace all'inizio degli anni '70 ma - come ha sottolineato un comunicato dell'associazione - "ha lasciato l'organizzazione nel '85, per divergenza di vedute".

Nell'articolo di Lovelock, lo scienziato scorre velocemente sui pro e i contro delle varie fonti energetiche per arrivare diretto al nucleare di cui dice: "emissione di gas e di acidi: nulla. Polveri e fumi tossici: nulli. (...) Il beneficio di usare il nucleare al posto dei carburanti fossili è incredibile. Sappiamo che l'energia nucleare è sicura, pulita e efficace...".

Dopo queste affermazioni, lo scienziato riporta i dati dell'utilizzo oggi dell'energia proveniente da centrali nucleari, principalmente in Europa e negli Stati Uniti, sottolineando come anche i Paesi che non la producono ne facciano uso comprandola oltre le loro frontiere. Sempre secondo Lovelock, l'idea degli ambientalisti (non come lui) che le energie rinnovabili possano coprire il buco energetico prodotto dall'esclusione delle centrali atomiche è solo un romantico nonsense. "Le centrali eoliche sono mostruosamente inefficienti e richiedono ancora una base di energia da combustibili fossili tre giorni su quattro" - continua Lovelock - quando il vento non soffia. L'energia solare è un sogno ridicolo. L'energia su larga scala dalle onde e dalle correnti non è per ora pensabile."

Moore dal canto suo dice: "all'inizio degli anni '70, quando ho contribuito a fondare Greenpeace, credevo che l'energia nucleare fosse sinonimo di olocausto nucleare. E così la pensavano i miei compagni. Ora, a distanza di trent'anni, il mio punto di vista è cambiato e ritengo che tutti i militanti del movimento ambientalista dovrebbero aggiornare il loro. Perché il nucleare potrebbe essere la sola fonte energetica in grado di salvare il nostro pianeta dal disastro: cioè un catastrofico cambiamento climatico". Le motivazioni che porta sono simili a quelle di Lovelock. Aleatorietà delle energie rinnovabili, sicurezza degli impianti nucleari, bassa problematicità causata dalle nuove tecniche di stoccaggio delle scorie. Insomma, il nucleare è la soluzione di tutti i mali.

Ma, se i due scienziati si fermassero qui, tutto rimarrebbe nelle interessanti e utili speculazioni scientifiche (ed economiche) che il nucleare civile si porta dietro da sempre. Invece, vogliono dimostrare anche che il nucleare non è pericoloso. E lo fanno tirando in ballo Chernobyl, ovviamente.
Entrambi citano un documento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità - agenzia delle Nazioni Unite - che avrebbe registrato "solo" 56 (addirittura 42 per Lovelock) morti fra chi è stato colpito direttamente dall'esplosione e dalle radiazioni.
Peccato che lo stesso documento sostenga che in totale, nel futuro, 4000 decessi tra le brigate d'intervento durante il disastro e gli abitanti delle zone più prossime sarebbero imputabili all'esplosione di Chernobyl. Inoltre, lo stesso studio ipotizza altri 4000 decessi tra le stesse persone in tempi più lunghi ma per cause ricollegabili (anche se, a quel punto, difficilmente dimostrabili statisticamente).

Ovviamente ci sono altre stime. Proprio Greenpeace ha risposto a Moore con la stima prodotta dall'Accademia Nazionale delle Scienze della Bielorussia (che, ricordiamo, confina con l'Ucraina proprio nei pressi di Chernobyl) secondo la quale oltre 93 mila persone rischiano di morire di tumore come conseguenza di Chernobyl.

Tra Moore e la sua ex-organizzazione è muro contro muro. Un'informazione su Moore è utile, non con l'idea di screditarlo ma per poter leggere più criticamente le sue posizioni. Dopo aver lasciato Greenpeace, Patrick Moore guida oggi la Clean and Safe Energy Coalition (un'associazione ambientalista sponsorizzata dall'industria nucleare) e presiede Greenspirit Strategies, società di ricerca e consulenza che ha come clienti il Nuclear Energy Institute di Washington e la Canadian Nuclear Association di Ottawa.

 

A TU PER TU CON IL RISCHIO

Ringraziamo la casa editrice Sironi per averci permesso di pubblicare la Prefazione al libro di Giancarlo Sturloni "Le mele di Chernobyl sono buone - Mezzo secolo di rischio tecnologico" (pp. 270, euro 16,00; Milano, 2006). La prefazione è a cura di Pietro Greco.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta del secolo appena concluso, con migliaia di bombe atomiche schierate lungo due fronti contrapposti e migliaia di missili capaci di trasportarle in pochi minuti in qualsiasi punto del pianeta per farle esplodere, la specie umana ha acquisito la capacità di distruggere se stessa.

Nel corso del medesimo secolo, ma soprattutto dopo la fine della se­conda guerra mondiale, lo sviluppo dell'economia industriale fondato sul consumo dei combustibili fossili è stato tale da accelerare in maniera significativa la dinamica del clima globale, determinando un aumento misurabile della temperatura media del pianeta.

Sempre nel corso del Novecento l'impronta umana sull'ambiente - distruzione delle foreste, incremento del pescato, monocolture agricole, controllo di almeno il 25% della produzione netta primaria di energia (l'energia solare trasformata dagli organismi fotosintetici e messa a di­sposizione della biosfera) - è diventata così penetrante da accelerare l'erosione della biodiversità determinando, secondo alcuni, un'estin­zione di massa delle specie viventi: la sesta grande estinzione di massa nella storia della vita sulla Terra.

Il combinato disposto di queste tre capacità -capacità di distruggere se stessa, capacità di influire sulla dinamica del clima globale, capacità di accelerare l'erosione della biodiversità - rende l'uomo un attore eco­logico globale e costituisce una novità assoluta.

In realtà non è solo dal Novecento che l'uomo ha cominciato a incidere in maniera significativa sui grandi cicli biogeochimici della Terra. Già alcune migliaia di anni fa, dopo aver scoperto e iniziato a praticare l'agricoltura e l'allevamento, Homo sapiens ha modificato in breve tempo il paesaggio del pianeta. Dunque la novità - la novità assoluta - del Novecento non consiste tanto nell'impronta enorme che l'uomo marca nella biosfera, quanto nella coscienza enorme che ha di questa sua formidabile capacità.

È a partire dal Novecento che l'uomo sa di essere un attore ecologico globale. Perché ne ha piena e documentata cognizione.

Questa coscienza ecologica enorme ha spinto la società umana e la costellazione dei gruppi e delle aggregazioni che la compongono a porre maggiore attenzione al rapporto con la tecnica. E, talvolta, a modificarne la percezione. Forse non è un caso che il XX secolo si sia aperto a teatro con il Gran Ballo Excelsior, un inno alle magnifiche sorti e progressive legate allo sviluppo dell'innovazione tecnologica, e si sia chiuso con un uomo di teatro, Dario Fo, che, la faccia ilare e gli arti da maiale, ammoniva da grandi manifesti sui pericoli connessi allo sviluppo dell'innovazione biotecnologica.

L'ambiguità del rapporto tra l'uomo e la tecnica è nota da sempre chi non conosce il mito di Dedalo? - ma il Novecento ha segnato certamente una svolta in questa relazione simbiotica.

È in questo secolo, infatti, che la tecnica si è imposta come forza ecumenica del villaggio globale, capace di attraversare le frontiere etiche, religiose, politiche, ambientali e imporsi come cultura omologa (qualcuno sostiene come cultura omologante) del pianeta. È nel Novecento che la tecnica è diventata forza riflessiva: fino al secolo precedente essa consisteva quasi esclusivamente in un processo in cui un soggetto (l'uomo) manipolava un oggetto (l'ambiente); con l'avvento delle moderne biotecnologie e la possibilità di intervenire sul codice genetico, nel XX secolo la tecnica è diventata (anche) un processo in cui un soggetto (l'uomo) manipola se stesso fin nella sua identità genetica. E nel Novecento, infine, che la tecnica è diventata, per ampi tratti, forza autonoma: il suo sviluppo sembra procedere in maniera autopropulsiva, cioè largamente indipendente dalla dimensione politica e persino economica. Qualcuno ritiene che lo sviluppo tecnologico proceda ormai fuori da ogni possibilità di controllo. L'uomo sarebbe, così, in balia della tecnica: non dobbiamo più chiederci cosa può fare l'uomo della tecnica, ma dobbiamo chiederci cosa può fare la tecnica dell'uomo, sostiene per esempio il filosofo Umberto Galimberti. Ma questo ci sembra una pericolosa sottovalutazione del potere della volontà umana e, quindi, della politica.

L'innovazione della tecnica - forza ecumenica, riflessiva e autonoma - procede grazie all'utilizzo sistematico delle nuove conoscenze prodotte dalla scienza. Cosicché la coscienza ecologica enorme ha spinto a torre particolare attenzione, talvolta modificandone la nostra percezione, al ruolo della scienza, che qualcuno ha definito "da madre di sua madre", la tecnica. Il rapporto tra scienza e tecnica nel Novecento è diventato così stretto da spingere alcuni, magari con eccessiva fretta, a parlare ormai di un'unica realtà: la tecnoscienza. Ma, per quanto fortemente interpenetrate, scienza e tecnica sono dimensioni ancora autonome. Ed è un bene per entrambe che questa autonomia resti e, anzi, si consolidi, seppure nell'ambito di un dialogo stretto.

E', infine, la coscienza ecologica enorme emersa nel Novecento che ha spinto la società umana a porsi in maniera sistematica il tema dell'origine della percezione e del governo del rischio fisico, biologico ed etico, tecnologico e naturale. Individuale, collettivo e persino (novità pressoché assoluta) intergenerazionale. Quasi all'improvviso, nel XX secolo, il concetto di rischio è entrato prepotentemente nella nostra vita individuale e nella vita collettiva, a ogni livello: locale, regionale e globale. Il tema è divenuto così presente e così rilevante da spingere Ulrich Beck a definire la nostra la "società del rischio".

La coscienza enorme del rischio (di alcuni rischi) è certo associata a quella della tecnica e della scienza, oltre che alla nostra consapevolezza di essere diventati attori ecologici globali, in grado di influire sull'ambiente in cui viviamo e, quindi, su noi stessi. Cosicché ogni considerazione sul rischio e sulla sua percezione non può prescindere dalle considerazioni sul nuovo ruolo che tecnica, scienza e ambiente hanno assunto nella nostra società e nel nostro immaginario. Ma è anche vero il contrario: l'intera gamma dei nuovi rapporti tra tecnica e società, scienza e società, ambiente e società trovano sintesi ed espressione cogente nella questione del rischio.

Non ci porremmo gli attuali problemi su tecnica, scienza e ambiente e non li riterremmo decisivi per la nostra società e per la nostra vita individuale se essi non fossero associati a dei rischi, veri o presunti. Perciò un fatto è certo: nella nostra società, nella "società del rischio", l'individuazione, la comprensione e il controllo del rischio costituiscono uno degli snodi più importanti della dialettica democratica. Chi definisce il rischio, e come? Chi individua le fonti di rischio, e come? Chi governa il rischio, e come? Sono tutte domande che si ripropongono quotidianamente, dal negoziato sui cambiamenti climatici alle Nazioni Unite alla collocazione del termovalorizzatore ad Acerra, dalla lotta al terrorismo internazionale alla fecondazione medicalmente assistita, dalla realizzazione del sito definitivo per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi allo Yucca Mountain o a Scanzano al pericolo terremoto, dal libero scambio delle merci al libero movimento degli uomini; sono tutte domande oggetto di dialettica e, talvolta, di conflitto democratico a ogni livello.

Ci sono, in buona sostanza, due modi di rispondere alle domande poste dalla coscienza enorme del rischio. Uno è restringere gli spazi di democrazia delegando le risposte a un gruppo sociale ristretto: quello degli esperti. L'altro èampliare gli spazi di democrazia affidando il compito di trovare le risposte all'intera società, attraverso le sue articolazioni democratiche.

Con questo libro Giancarlo Sturloni dimostra che la prima opzione - la delega delle risposte connesse all'individuazione, alla comprensione e al governo del rischio a un gruppo sociale ristretto e non ben definito (quello degli esperti) - non solo è una soluzione ingiusta: è una soluzione che storicamente si è dimostrata inefficiente. Sia perché finisce per aumentare gli effetti indesiderati conseguenti a sviluppo della tecnica, applicazione della scienza e uso dell'ambiente, sia perché esaspera i conflitti sociali.

L'unica soluzione praticabile resta, dunque, quella faticosa, non lineare, spesso irta di ostacoli e contraddizioni della "democratizzazione" di tecnica, scienza e ambiente: la ricerca di soluzioni ai problemi di governo del rischio, ma anche di comprensione e individuazione del rischio, assunta dall'intera società. Non si tratta di fare a meno dei competenti, ma - al contrario - di valorizzare la conoscenza scientifica e i saperi esperti. Di abbattere la barriera tra gli shareholders, coloro che effettuano le scelte, e gli stakeholders, coloro che hanno una posta in gioco.

Nei Paesi democratici questo tipo di soluzione non ha alternative. E' l'unica che può essere praticata e che viene praticata, perché nell'era della coscienza enorme del rischio nessun gruppo sociale che abbia interessi in gioco è disponibile a delegare ad altri individuazione, comprensione e controllo del rischio, bensì rivendica il proprio inalienabile diritto a compartecipare alle scelte.

Nella società democratica del rischio si pone dunque il problema della qualità del governo. Il governo del rischio è di bassa qualità se vi sono "attori prepotenti" che vogliono imporre le loro soluzioni senza negoziarle con gli altri attori; se le istituzioni democratiche non favoriscono la dialettica e la negoziazione tra i vari attori; se il sistema di comunicazione del rischio è, a sua volta, di scarsa qualità.

Viceversa, il governo del rischio è di buona qualità quando gli attori si riconoscono reciprocamente come portatori di interessi legittimi ancorché diversi; quando le istituzioni democratiche favoriscono la dialettica e la negoziazione tra i vari attori; quando il sistema di comunicazione nelle sue diverse anime (alcune esplicite, altre carsiche) è, a sua volta, di buona qualità. Naturalmente buon governo del rischio non significa né mancanza di conflitto, né assenza di una sua soluzione: significa manifestazione trasparente del conflitto e adozione della migliore soluzione possibile.

Nella società democratica del rischio ben governata, infine, la scienza e, più in generale, i saperi esperti non hanno ragione di temere: la società democratica del rischio, se ben governata, non produce irrazionalismo, ma valorizzazione del sapere scientifico ed esperto.

Perché, in genere, una dialettica di alta qualità pretende solide argomentazioni e si sviluppa come dialettica tra visioni scientifiche - o comunque esperte - diverse. La società democratica del rischio, l'unica possibile, non pretende che esperti e uomini di scienza rinuncino ai loro saperi: pretende che rinuncino alla loro superbia. Che escano dalla torre d'avorio e dialoghino con gli altri attori sociali, senza arrogarsi il diritto di fare scelte politiche in virtù del proprio sapere specialistico, bensì mettendo il proprio sapere specialistico a disposizione del tavolo negoziale sulla decisione politica.

Perché questo ci hanno insegnato cinquant'anni di convivenza con la coscienza enorme del rischio così come li ha sapientemente ricostruiti Giancarlo Sturloni: non ci sono alternative alla via del confronto. Nessuno deve o può sottrarsi al dialogo.