Archimede tra leggenda e realtà
Non vi è probabilmente scienziato che più di Archimede sia presente nell’immaginario collettivo. Il personaggio Archimede che è familiare è però tratto dalle opere di autori come Vitruvio e Plutarco, vissuti secoli dopo la sua morte, che trasmettono un’immagine dello scienziato deformata dalla leggenda che in parte ai loro tempi aveva già avvolto il suo ricordo e che in parte essi stessi hanno contribuito a formare. Può quindi essere utile fare il punto su cosa sappiamo realmente della vita di Archimede e della sua personalità.
Archimede nel dipinto di Domenico Fetti (1620), Alte Meiser Museum di Dresda
Pochi sono i dati biografici assolutamente certi. Non vi è dubbio che Archimede fosse siracusano e che sia morto durante il saccheggio romano di Siracusa del 212 a.C. La data di nascita è molto meno certa. Si pensa che sia nato nel 287 a.C. – quest’anno ne celebriamo infatti il ventitreesimo centenario della nascita – ma l’unico autore che riporta questo dato è il bizantino Giovanni Tzetzes, del XII secolo, secondo il quale sarebbe morto all’età di 75 anni [1]. È possibile che Tzetzes disponesse di fonti attendibili che noi ignoriamo ma può anche darsi che egli stesso, o la sua fonte, avesse solo cercato di quantificare il dato, riportato da più autori, che lo scienziato fosse morto vecchio. Vedremo che abbiamo seri motivi per non fidarci troppo della sua testimonianza. La notizia che fosse figlio dell’astronomo Fidia, riportata in molti testi come certa, deriva da un passo di Archimede stesso, incomprensibile nei manoscritti [2], che il filologo Friedrich Blass nel 1883 ha emendato congetturando che contenesse le parole Φειδια δε τον αμον πατρος (mio padre Fidia). Poiché il contesto riguarda una stima del rapporto tra le dimensioni del Sole e della Luna, se l’emendamento è corretto, l’ipotizzato padre Fidia in almeno un’occasione doveva essersi occupato di Astronomia ma nessun’altra fonte nomina un astronomo con questo nome. Non credo vi sia motivo di dubitare dell’affermazione di Plutarco che Archimede, oltre che amico, fosse anche parente (συγγενης) del tiranno di Siracusa Gerone [3], anche se a qualcuno l’informazione è sembrata in contraddizione con un passo di Cicerone [4].
È anche certo un soggiorno di Archimede ad Alessandria. Diodoro Siculo riferisce infatti che Archimede aveva inventato la coclea quando era in Egitto [5] e d’altra parte i termini usati da Archimede nel rimpiangere la morte di Conone di Samo [6], attivo ad Alessandria, fanno supporre che l’avesse conosciuto personalmente. I dati biografici sui quali le fonti si diffondono di più riguardano il contributo di Archimede alla difesa di Siracusa durante l’assedio romano del 212 a.C. e la sua morte durante il saccheggio della città. La migliore fonte sull’assedio, sia per la vicinanza agli avvenimenti sia per la sua generale attendibilità, è Polibio [7]. Nel suo resoconto lo storico descrive congegni bellici ideati da Archimede e in particolare vari tipi di armi da getto e la manus ferrea (χεiρα σιδηραν), manovrata dall’interno delle mura, con la quale venivano rovesciate le navi romane che si avvicinavano. Polibio sottolinea l’importanza del contributo di Archimede alla difesa della città, scrivendo tra l’altro: “L’intelligenza di un solo uomo, convenientemente rivolta a determinati fini, mostra così di essere qualcosa di grande e meraviglioso. I Romani, che disponevano di tante forze per terra e permare, pensavano di potersi impadronire subito della città se qualcuno avesse tolto dimezzo un solo vecchio siracusano; presente lui, non osavano attaccarla con sistemi dai quali Archimede potesse difenderla [8]”.
In Polibio, che scrive nel II secolo a.C., non vi è traccia degli episodi relativi all’assedio che più hanno alimentato la leggenda di Archimede: la costruzione degli specchi ustori e le circostanze della morte. All’epoca doveva sembrare del tutto naturale che Archimede non fosse sopravvissuto alla presa della città. L’idea che il comandante dei Romani, Marcello, si fosse rammaricato per la morte del vecchio scienziato appare solo nel secolo successivo e per la prima volta in uno scritto di Cicerone [9] che è anche il primo a raccontare che, quando i Romani conquistarono Siracusa, Archimede era così assorto nello studio di figure geometriche da non accorgersene [10]. È ben noto che Cicerone si vantò anche di aver ritrovato la tomba di Archimede, quando fu questore di Siracusa: l’avrebbe riconosciuta dal disegno di una sfera iscritta in un cilindro che vi era inciso. Gli stessi Siracusani l’avevano avvertito che quel disegno identificava la tomba di Archimede che d’altra parte si trovava proprio dove chiunque avrebbe pensato, cioè nel cimitero della città; eppure molti hanno creduto allo strano vanto di Cicerone.
Via via che ci si allontana dai fatti, i particolari sulla morte di Archimede si arricchiscono e le responsabilità dei Romani si stemperano. In Plinio appare per la prima volta l’informazione che Archimede sarebbe stato ucciso in violazione dell’esplicito ordine di Marcello di risparmiarlo [11]. Valerio Massimo riporta anche le ultime parole di Archimede, che avrebbe chiesto al suo uccisore di non rovinargli la figura geometrica che aveva tracciato [12]. Intorno al 100 d.C. Plutarco non solo si diffonde sulla morte dello scienziato, riportando varie versioni alternative delle sue circostanze [13], ma sembra conoscere anche altri particolari del comportamento di Marcello che appare ancora più encomiabile. Il comandante romano, incontrando l’uccisore di Archimede, avrebbe distolto lo sguardo in senso di disprezzo e avrebbe voluto onorare i parenti dello scienziato [14].
Archimede nel ritratto a olio del siciliano Giuseppe Patania (1780-1852), Biblioteca comunale di Palermo
Negli autori bizantini Zonara e Tzetzes i particolari si precisano ulteriormente; essi conoscono addirittura le ultime due frasi pronunciate da Archimede prima di morire [15] (anche se le due versioni non corrispondono neppure parzialmente tra loro). Nell’opera di Tzetzes, in particolare, appaiono vari elementi nuovi. Non solo si sostiene che Archimede avrebbe tentato di difendersi chiedendo un’arma, ma si avanza anche la congettura che Marcello abbia fatto giustiziare l’uccisore [16]: particolari certamente fantasiosi che rendono molto dubbia anche l’attendibilità dell’informazione riportata da Tzetzes sull’età di Archimede.
L’invenzione di particolari sulla morte di Archimede è continuata fino ad epoche recenti. Secondo molti libri [17] (e innumerevoli siti Internet) Archimede avrebbe detto al soldato romano che stava per ucciderlo “Noli turbare circulos meos”. A volte la frase è riportata anche in greco, nella forma “Μημου τους κυκλους ταραττε”. Sembra chiaro, tuttavia, che l’espressione greca è stata tradotta dalla latina e non viceversa. In ogni caso nessun autore greco, latino o bizantino la riporta, né in greco né in latino. Resta da scoprire chi abbia introdotto l’uso di citarla e se, tra le sue intenzioni, vi fosse l’allusione vagamente oscena con cui è spesso riportata. Anche le testimonianze sull’episodio degli specchi ustori si accrescono e si precisano con il passare del tempo. Polibio, Tito Livio (che riporta un resoconto più succinto dell’assedio di Siracusa [18]) e Plutarco (che descrive l’assedio nella Vita Marcelli già citata) non ne parlano affatto. I primi accenni a navi romane incendiate da lontano grazie a congegni ideati da Archimede appaiono nel II secolo d.C.. Si tratta di un passo di Luciano [19] e di uno di Galeno [20]: in nessuno dei due si parla però di specchi e l’interpretazione più plausibile è che intendessero riferirsi al lancio di sostanze incendiarie. Il primo chiaro riferimento agli specchi ustori risale al VI secolo ed è dovuto ad Antemio di Tralle che cita l’episodio come unanimemente accettato dagli storici [21] e poi, nella stessa opera, propone una sua ricostruzione congetturale della forma e costruzione degli specchi [22]. Nel XII secolo i già citati autori bizantini Zonara e Tzetzes descrivono in dettaglio gli specchi di Archimede [23]: la loro fonte – in particolare per Tzetzes – sembra Antemio,ma particolari che in Antemio erano esplicitamente parte della ricostruzione congetturale (ad esempio la forma esagonale dello specchio centrale) vengono ormai presentati come dati di fatto.
L’andamento delle testimonianze che abbiamo descritto rende molto inverosimile l’uso bellico degli specchi ma non bisogna dedurne che questi siano solo una leggenda. La descrizione degli specchi parabolici a opera di Diocle, che abbiamo in traduzione araba [24], in cui si dimostra la proprietà focale della parabola, prova che nell’antichità questi congegni erano stati effettivamente progettati e non si vede perché non dovrebbero essere stati anche costruiti. Archimede, che era un esperto di parabole e paraboloidi (che usa anche nel trattato Sui galleggianti), aveva scritto un voluminoso trattato di Catottrica (cioè sugli specchi) nel quale, secondo la testimonianza di Apuleio, si descrivevano anche specchi che, posti di fronte al sole, erano capaci di accendere oggetti infiammabili [25]. Se questo trattato fosse stato la fonte non riconosciuta di Diocle, la leggenda delle navi bruciate con gli specchi ustori potrebbe essere nata dal confluire del ricordo del progetto di Archimede di tali specchi (pensati magari come utile succedaneo della legna) con quello dei suoi ordigni con cui i Siracusani lanciavano sostanze incendiarie.
Anche negli altri episodi che hanno alimentato la leggenda di Archimede è possibile in genere individuare un nocciolo di verità deformato dalla tradizione. Uno dei più famosi è la frase “Datemi una leva e un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo!”, riportata, con poche varianti, da diversi autori: il primo è Plutarco [26], seguito nel IV secolo da Pappo [27], nel VI da Simplicio [28] e Olimpiodoro [29] e nel XII da Tzetzes [30]. In Plutarco troviamo solo una parafrasi del concetto espresso, mentre la citazione diviene apparentemente letterale in Pappo; si aggiunge un tocco di realismo in epoca bizantina riportando la frase in dialetto siracusano, come se fosse stata appena udita. Tutti gli autori citati collegano le parole di Archimede all’invenzione di una macchina per il sollevamento di pesi. Sul tipo di macchina i pareri però divergono: si trattava di un polyspaston secondo Plutarco, di un barulco per Pappo e Olimpiodoro, di un charistion per Simplicio. Tzetzes non ne cita alcuna in diretta relazione alla affermazione, ma poco prima aveva nominato un trispaston. Tutti gli autori tranne il più recente, Tzetzes, chiariscono il nesso logico tra la frase e la teoria meccanica archimedea, che permette di progettare macchine con vantaggio meccanico (cioè rapporto tra peso sollevato e forza agente) comunque elevato. La relazione logica è particolarmente chiara nei passi di Pappo e di Simplicio. Pappo ad esempio scrive: “Con la stessa teoria si può muovere un [qualsiasi] peso dato con una forza assegnata; questa è una scoperta meccanica di Archimede, che a questo proposito si dice abbia affermato: “datemi dove appoggiarmi e sposterò la Terra”. Erone alessandrino ha esposto molto chiaramente la sua costruzione nel libro detto “Barulco””.
Plutarco è l’unico a porre in relazione la famosa frase con l’altrettanto famoso esperimento dimostrativo nel quale Archimede avrebbe spinto in mare una nave da solo, grazie a una macchina da lui progettata. L’episodio della nave è però raccontato anche da Proclo [31] che lo riferisce al varo della nave Siracusana. Ateneo, nostra fonte essenziale su questa nave, parla del varo omettendo particolari fantasiosi come quello della macchina azionata da un solo uomo, ma sottolinea il contributo essenziale di Archimede [32]. L’autore più recente, Tzetzes, racconta l’episodio della nave senza porlo in relazione con la Siracusana, ma aggiungendovi di suo che Archimede l’avrebbe spinta in mare con la sola mano sinistra [33].
L’episodio di Archimede che intuisce come smascherare la frode relativa alla corona di Gerone mentre fa il bagno è talmente famoso che non occorre ricordarlo nei particolari. L’immagine di Archimede che, entusiasmato dalla propria scoperta, balza fuori dalla vasca e corre nudo per la città gridando “Eureka! Eureka!” è forse la più popolare tra quelle associate al grande siracusano. L’episodio è ricordato succintamente anche da Plutarco [34] e Proclo [35] ma la versione radicata nell’immaginario collettivo è quella, più estesa, trasmessa da Vitruvio [36]. Vanno sottolineati due punti: innanzitutto l’abisso che separa il resoconto di Vitruvio dalla profondità dell’Idrostatica archimedea quale appare dal suo trattato Sui galleggianti. In secondo luogo va osservato che neppure sull’episodio, certamente marginale, della corona il resoconto di Vitruvio è il più attendibile. Una descrizione molto più seria del procedimento usato da Archimede per smascherare l’orafo, se non altro perché usa realmente l’Idrostatica archimedea, è contenuta in un’opera anonima molto meno nota risalente a circa il 400 d.C. [37]. Come accade sempre, anche in questo caso il resoconto più noto non è quello più attendibile, ma quello così superficiale da non richiedere alcun impegno nella lettura.
Archimede è stato spesso presentato come uno scienziato disinteressato al mondo concreto e così assorto in considerazioni astratte e teoriche da perdere completamente il contatto con la realtà. Questa immagine, che ha fornito un archetipo adattato anche a scienziati successivi, è stata trasmessa soprattutto da Plutarco, che racconta più volte che i servi dovevano trascinare Archimede con la forza a lavarsi, mentre lui continuava a tracciare figure geometriche dove poteva, in mancanza d’altro sulla propria pancia [38]. Plutarco insiste anche sul disinteresse di Archimede verso le sue stesse applicazioni, che avrebbe considerato solo un sottoprodotto volgare della scienza pura, che sola lo interessava veramente [39]. È stupefacente che a lungo l’atteggiamento di Archimede verso le applicazioni della scienza sia stato dedotto dall’accettazione acritica del parere di Plutarco: un poligrafo vissuto secoli dopo, in un clima culturale completamente diverso, non poteva certo conoscere i pensieri intimi dello scienziato. D’altra parte, è ben documentato l’impegno con cui Archimede aveva sviluppato applicazioni di ogni tipo: di Catottrica [40]) di Idrostatica (dalla progettazione di orologi [41] all’Ingegneria navale – sappiamo che la più grande nave dell’antichità, la Siracusana, era stata costruita sotto la sua supervisione [42], o ancora di Meccanica (dalle macchine per sollevare pesi a quelle per il sollevamento delle acque e ad ordigni bellici).
La morte di Archimede nel disegno di Eduard Vimont
In definitiva, le testimonianze su Archimede vanno usate con grande cautela e sono certamente più utili per estrarne informazioni fattuali che per ricavarne dati psicologici. Il poco che conosciamo realmente della personalità di Archimede possiamo dedurlo dalle sue opere e dai fatti documentati. Ne emerge anzitutto una personalità straordinaria per il controllo totale di tutti gli aspetti di una scienza unitaria, che non aveva ancora creato divisioni tra Matematica, Fisica e tecnologia: dalla scelta dei postulati alle applicazioni tecnologiche. Possiamo però anche intravedere alcuni aspetti umani dello scienziato: dalla profonda onestà intellettuale mostrata nel Trattato sul metodo nel quale decide di spiegare non solo i propri risultati ma anche i procedimenti con cui era giunto a scoprirli, a un sottile umorismo e probabilmente un atteggiamento ironico nei confronti degli scienziati di Alessandria, che emerge in più occasioni. Il “problema dei buoi”, che conosciamo in forma di epigramma, è in pratica irresolubile (la soluzione minima è data da numeri con 206545 cifre) ma viene proposto come prova per giudicare il livello di preparazione matematica: l’ironia è suggerita soprattutto dalla figura del corrispondente che Archimede vuole sottoporre alla prova: il grande Eratostene, guida degli scienziati alessandrini [43]. In un altro caso, Archimede è responsabile di una vera e propria beffa. Stanco di sentirsi dire che i risultati da lui annunciati erano stati ottenuti indipendentemente anche da altri scienziati, Archimede comunica ai suoi corrispondenti alessandrini di avere risolto una serie di problemi: solo dopo qualche tempo (quando, presumibilmente, i suoi concorrenti avevano rivendicato gli stessi risultati come scoperti indipendentemente anche da loro) rivela che le “soluzioni” da lui annunciate erano completamente sbagliate [44]. Sarebbe molto interessante sapere chi rimase vittima della beffa e quali furono le sue reazioni.
Note
[1] Giovanni Tzetzes, Chiliades, II, 108.
[2] Archimede, Arenario, II, 136-137 (ed. Mugler).
[3] Plutarco, Vita Marcelli, 14, 7.
[4] Cicerone (Tusculanae disputationes, V, 23) dice di voler confrontare la vita di Dionigi I di Siracusa con quella di un uomo umile e comune (humilem homunculum) proveniente dalla stessa città: Archimede. Non mi sembra che il passo debba essere necessariamente interpretato come un riferimento all’umile origine di Archimede: Cicerone potrebbe solo voler sottolineare la distanza tra un sovrano e un privato cittadino.
[5] Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, V, 37, 3.
[6] Archimede, De sphaera et cylindro, I, 9; De lineis spiralibus, II, 8.
[7] Polibio, Historiae, VIII, capitoli 3-7.
[8] Polibio, Historiae, VIII, 7.
[9] Cicerone, In Verrem, II, 4, 131.
[10] Cicerone, De finibus, V, 50.
[11] Plinio, Naturalis Historia, VII, 125.
[12] Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, 8.7, ext 7.
[13] Plutarco, Vita Marcelli, 19, 4-5.
[14] Plutarco, Vita Marcelli, 19, 6.
[15] Zonara, Epitome historiarum, vol. 2, 264, 24 – 265, 2 (ed. Dindorf).
[16] Giovanni Tzetzes, Chiliades, II, 134-155.
[17] La frase è riportata anche in Eduard J. Dijksterhuis, Archimede (Ponte alle Grazie, 1989), p. 26.
[18] Tito Livio, Ab urbe condita libri CXLII, XXIV, 34.
[19] Luciano, Ippia, 2.
[20] Galeno, De temperamentis, III, 2. Il passo di Galeno è stato a lungo interpretato come la prima testimonianza sull’uso degli specchi per incendiare le navi romane. Tale interpretazione era però basata sull’attribuzione del significato di specchio ustore al termine greco πυρείον, che potrebbe anche riferirsi a sostanze incendiarie.
[21] Antemio di Tralle, Περὶ παραδόξων μηχανημάτων, II, 47-48.
[22] Antemio di Tralle, Περὶ παραδόξων μηχανημάτων, III, 49-50.
[23] Zonara, Epitome historiarum, vol. 2, 263, 2-8 (ed. Dindorf); Giovanni Tzetzes, Chiliades, II, 121-131.
[24] La migliore edizione e traduzione è in Les Catoptriciens Grecs. Tome I. Les Miroirs ardents. Texte établi, traduit et commenté par Roshdi Rashed, Paris, Les Belles Lettres, 2002.
[25] Apuleio, Apologia, 16.
[26] Plutarco, Vita Marcelli, 14, 7-9.
[27] Pappo, Collectio, VIII, 1060, 1-12 (ed. Hultsch).
[28] Simplicio, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, 1110, 2-5 (ed. H. Diels).
[29] Olimpiodoro, In Platonis Alcibiadem, 191, 14-18.
[30] Giovanni Tzetzes, Chiliades, II, 132-133.
[31] Proclo, In primum Euclidis Elementorum librum commentarii, 63 (ed. Friedlin).
[32] Ateneo, Deipnosophistae, V, 207b.
[33] Giovanni Tzetzes, Chiliades, II, 110-111.
[34] Plutarco, Non posse suaviter vivi secundum Epicurum, 1094 BC.
[35] Proclo, In primum Euclidis Elementorum librum commentarii, 63 (ed. Friedlin).
[36] Vitruvio, De Architectura, IX, Proemio, 9-12.
[37] Carmen de ponderibus et mensuris, 125-155.
[38] Plutarco, Vita Marcelli, 17, 11-12; Non posse suaviter vivi secundum Epicurum, 1094 B; An seni respublica gerenda sit, 786C.
[39] Plutarco, Vita Marcelli, 14, 3-4; 17, 3-4.
[40] Lo testimonia Apuleio nel brano già citato (Apologia, 16).
[41] Un Trattato sulla costruzione di orologi ad acqua, conservato da tre manoscritti arabi, è stato pubblicato in traduzione inglese da D.R. Hill (On the construction of water-clocks: Kitab Arshimidas fi’amal al-binkamat, Turner & Devereux, 1976).
[42] Ateneo, Deipnosophistae, V, 206d.
[43] Alcuni studiosi, restii a riconoscere aspetti umoristici nelle antiche opere, hanno cercato di attribuire l’irresolubilità del problema a errori dei copisti.
[44] Archimede, De lineis spiralibus, 8-10 (ed. Mugler). Anche in questo caso molti studiosi sono restii a riconoscere la beffa, che personalmente mi sembra sufficientemente chiara.