A colloquio con Imre Toth
Ho incontrato Imre Toth a Cosenza, nel luglio di del 1992, al III Minicorso di Storia delle Matematiche. Sapevo della sua presenza e confesso di essere partito da Napoli con la speranza di fargli un'intervista per la Lettera PRISTEM. Il "Minicorso" si è concluso con un dibattito su "Archimede tra mito e scienza" durante il quale Imre Toth ha preso appunti e chiesto precisazioni senza però intervenire nella discussione. E quest'ultima circostanza, in un certo senso, mi ha fatto piacere: temevo, infatti, che nel suo intervento potesse anticipare i temi che avrei voluto trattare nella mia intervista.
Avevo preparato una serie di domande tendenti a conoscere il suo punto di vista circa lo stato e le prospettive degli studi di Storia delle Matematiche in Europa. Non immaginavo affatto che il mio canovaccio sarebbe quasi del tutto saltato. Alla mia prima domanda Toth, infatti, ha aperto il libro delle sue memorie e noi che ascoltavamo (erano presenti con me Antonio Garibaldi, Luigi Maierù, Rosario Moscheo e Pietro Nastasi) siamo stati così presi dal suo racconto che l'intervista per lunghi tratti è divenuta un monologo.
Professor Toth -ho cominciato- vorrei che Lei tracciasse un suo profilo biografico, per farci conoscere gli avvenimenti che più hanno inciso sulla sua formazione.
Mi dispiace -ha risposto Toth- ma io ho vissuto molto, troppo forse. Ho l'impressione di aver vissuto molte vite. Mentre poco fa si discuteva di Archimede ho pensato ad un evento della mia vita: all'ultima lettera di mio padre, una lettera indirizzata al Vincitore. (Imre Toth rievoca qui i tempi drammatici e dolorosi dell'occupazione tedesca dell'Ungheria).
Io sono ebreo. Mio padre era molto religioso. Io mi sono nascosto, ho partecipato al movimento della Resistenza e nel. momento della deportazione non ero a casa. Quando fu ordinato a tutti gli Ebrei di lasciare le loro case senza portar via niente, mio padre ha preso tutti i miei libri: La critica della ragion pura, l'Etíca di Spinoza, alcune opere di Diderot, di Erasmo, di Nietzsche, quei libri che possono appartenere ad un giovane di vent'anni ed ha scritto al vincitore una lettera: "La prego, io sono vecchio, ho 56 anni (mia madre, Serena nak Epstein, aveva 44 anni).
Ciò che io ho messo insieme nella mia vita, questi libri, appartengono a mio figlio. Prego di non toccarli. Quando i Romani hanno occupato Siracusa hanno trovato il vecchio Archimede che disegnava circoli sulla sabbia. E questi ha detto al soldato che stava per ucciderlo di non toccare i suoi cerchi...". Quando sono ritornato dopo la guerra ho trovato la casa svuotata di tutti i mobili e le suppellettili, ma quei libri erano lì insieme alla lettera di mio padre. Non li hanno toccati. D'altra parte chi volete che fra quella gente si interessasse alla Critica della ragion pura o all'Etica di Spinoza? Erano interessati all'oro, ai diamanti, per trovare i quali avevano invano divelto tutto il povero pavimento di legno della casa. Quando poco fa tutti hanno parlato di Archimede, della possibilità di inquadrare Archimede in un più vasto ambito culturale, ho pensato che le ultime parole di mio padre erano un tema archimedeo.
Sono nato a Szatumare (Szatmar in Ungherese), una piccola città della Transilvania, la terra divenuta celebre per il mito di Dracula.1 miei parenti vi hanno dimorato soltanto per un anno. Erano di passaggio, rifugiati che sfuggivano i "pogrom" del 1920. Vi erano andati con l'intenzione di trasferirsi poi in America, per scampare al pericolo di tali persecuzioni. Ma il provvisorio è eterno. Ricordo che, per l'occasione, ho avuto le mie prime lezioni di inglese: mio padre parlava con noi in inglese perché dovevamo partire per l'America. Poi è venuta la grande crisi e siamo rimasti in Europa.
Mio padre, Abraham Roth (io mi chiamo Toth perché ho fatto un falso in atto pubblico quando mi sono dato alla clandestinità: ho corretto R in T sui miei documenti, scritti a mano in modo primitivo. E mi è rimasto Toth), fu ufficiale del XII Reggimento Regio Imperiale di artiglieria a cavallo e fu ferito sul fronte italiano durante la guerra del '15?'18. Conservo una cartolina postale da lui scritta 1'1 Novembre 1917 alla giovane donna che sarebbe divenuta mia madre, che allora aveva 16 anni e prestava opera volontaria di crocerossina in un ospedale militare. La cartolina era una foto di mio padre ripreso davanti alla sua tenda con la carta strategica in mano e con la seguente frase: "Cerco la via che conduce alla pace". Era giovane mio padre ed ha avuto in odio la guerra. Mi ha parlato molto di quella guerra e mi ha raccontato un piccolo episodio che rappresentò un momento importante della sua storia. Il suo comandante, un pittore ungherese, cristiano, religioso, suo buon amico, entrato in una chiesa vide un quadro che gli piaceva e ne staccò la tela. Mio padre gli fece osservare chela cosa non stava bene. All'uscita della chiesa una contadina italiana scorse quest'ufficiale austriaco con la tela avvolta e lo maledì. Poco dopo lui è morto di una forte infezione intestinale ... . Mi sono ricordato di tutte queste cose parlando di Archimede e del suo ruolo. Mi sono ricordato che mio padre ha citato Archimede...
"sono vecchio, ho 56 anni...". lo decisi subito di non collaborare con la "bestia trionfante". Ho deciso di guardarla negli occhi e di non lasciarmi sopraffare, di non offrirmi come vittima senza lottare. Per aver scritto su un muro "abbasso il fascismo, abbasso la guerra, morte ai fascisti", nel 1940, fui arrestato e due anni dopo, nel 1942, fui condannato dal regime legalista ungherese. L'Ungheria è stato il primo stato ad abbracciare il fascismo, ma il regime instaurato fu "legale". Dopo un mese di interrogatori e di torture da parte della polizia (la camera di tortura non è cosa divertente, ma non voglio entrare in questi dettagli), fui condannato a 6 anni.
La fotografia, del 1946, riproduce la sala 112 del Tribunale di Kolzsvar dove 4 anni prima il consiglio dei Cinque aveva pronunciato la sentenza di condanna a morte contro Imre Toth. In questa sala Thot tenne un corso sul materialismo dialettico nel quadro del progetto di rieducazione dei giudici del vecchio regime. Imre Toth, che è anche arguto ed abile disegnatore, di sua mano ha rievocato il fantasma del pubblico accusatore, seduto sul suo vecchio seggio, mentre fa la richiesta della pena capitale.
Avevo 21 anni. Al processo mi trovai davanti ad una corte costituita da ben cinque giudici. Naturalmente la pubblica accusa richiese la pena di morte, ma non ne rimasi intimorito, sapevo che tale richiesta non poteva considerarsi cosa seria. Ciò che mi colpiva maggiormente era la straordinaria importanza attribuita al mio gesto. Ero un ragazzo che non aveva, e mai avrebbe avuto nella sua vita, un'arma. Per me fu un'esperienza straordinaria constatare che quei grandi "celebri" uomini, giudici del consiglio del Tribunale superiore nazionale, il "Consiglio dei cinque", avevano paura di me. Incredibile! Ho partecipato al movimento comunista della Resistenza, costituito in tutto da una decina di ragazzi e ragazze di cui, forse, io ero il più anziano. Questa fu la "Grande Resistenza", la grande fonte di paura per quegli altissimi funzionari statali, tutti nomi conosciuti, urlanti e tremanti davanti ad un ragazzo...
Per chi è interessato alla mia storia questa non è scienza, non è niente, è soltanto una vita...
Dopo l'occupazione, i Tedeschi, che furono sempre davvero bene informati, scoprirono che alla deportazione del 5 maggio 1944 erano scampati alcuni ebrei "molto astuti", rimasti nascosti in una prigione tra i condannati comuni del regime legalista...Apparve un ufficiale tedesco davanti alla cella piena ed io provai una sensazione "fatidica". Era molto elegante, molto distinto, indossava guanti e portava un mo nocolo. Ci trattava senza odio. Ma ricordo di aver provato in quel momento quella sensazione di cui parla anche Primo Levi, cioè di essere divenuto un oggetto. Questa fu la mia impressione. E ciò fu il segno del male, il segno che la cosa era diventata seria. Non ho sentito odio; non ho detto assolutamente niente; nessuna imprecazione, "tu porco, tu verme", niente.
Egli fece immediatamente la selezione degli ebrei. A destra, a sinistra, ha fatto soltanto un segno, ha sorriso anche un po', ma con eleganza, con distacco. Il 6 giugno un piccolo gruppo di quaranta persone, l'ultimo gruppo di ebrei scoperto "nascosto" nelle prigioni, di prima mattina fu trasportato in catene alla stazione. Alle quattro di mattina, attraverso la città deserta, si è sentito il rumore dello sferragliare delle catene. Una ragazza si è svegliata ed ha aperto la finestra; è diventata pallida: "Oh! -ha esclamato- Oh, mio Dio!". Ancora oggi la sua faccia spaurita è presente davanti ai miei occhi: niente è più presente del passato.
Noi fummo caricati su un vagone usualmente adibito al trasporto di animali, ed il treno lento lento partì. Ma dopo una mezz'ora si fermò, fece marcia indietro e ritornò alla stazione. I gendarmi ungheresi erano furiosi: "Tutti fuori!" urlarono. Non riuscii al momento a trovare altra spiegazione di quanto avveniva se non che le SS avevano deciso di lasciarci camminare avanti e indietro perché scaricassimo la tensione. Si erano fatte quasi le otto, vi era già la luce del giorno, quando si sparse in un momento tra di noi la notizia che gli Alleati erano sbarcati in Normandia. Ho poi appreso che un ufficiale ungherese, Hugo Homonnay, che era antinazista, aveva ascoltato tutta la notte Radio Londra ed aveva saputo dello sbarco degli Alleati. Aveva telefonato al direttore dalla prigione che era un maggiore degli Ussari intimandogli di far riportare subito indietro gli ebrei, pena la denuncia come criminale di guerra. E questi aveva inviato immediatamente un soldato motociclista con l'ordine di riportarci indietro. Questa fu la mia "deportazione" ad Auschwitz!...
Esattamente un mese dopo, mentre insieme agli altri ebrei ero stato impiegato a sgomberare le macerie causate da alcuni bombardamenti degli Inglesi, uno dei sorveglianti, al quale probabilmente mi ero reso inviso, mi ordinò di raccogliere non ricordo cosa da terra. Mi chinai e questi fece cadere alle mie spalle un grosso blocco di pietra che mi travolse completamente. Rimasi gravemente ferito. Ricordo che quello fu un momento vissuto da me con grande lucidità. Mi sono detto: "ho 22 anni, è finito tutto".
Era il 6 luglio del '44; l'Italia era già uscita dalla guerra, i Russi erano a pochi chilometri. "Mi dispiace, ma è finita".
Ma l'Ungheria era un paese legalista ed io fui trasportato nel carcere dell'ospedale militare. Ne uscii sulle grucce, con la convinzione che sarei rimasto invalido per tutta la vita. Era il settembre del '44, i Russi erano a due passi, i tedeschi erano in rotta e vigeva un clima di assoluta anarchia. Il pensiero della mia invalidità, però, non mi turbava più di tanto.
Durante il periodo di prigionia ho avuto molto tempo per studiare. Ero come un roditore, avido di imparare. Fu allora che studiai la quadratura delle parabole di Archimede. Avevo un amico che mi rimproverava continuamente: "tu sarai un infelice ? mi diceva ? perché se tu domani non avrai più i tuoi libri per studiare ne soffrirai; io invece non ho nulla da perdere e vivo soltanto con il mio pensiero". E lui è morto proprio per questo far niente, per questa idea di vivere soltanto "dentro" senza esplicare alcuna attività esteriore. Fu mangiato dai pidocchi...
Sono uscito dalla guerra con il titolo ufficiale di "più giovane eroe della classe operaia nella Resistenza" e questo mi ha dato la convinzione di poter esprimere tutte le mie critiche nei confronti del regime che già dava chiari segni di forte deviazione da quelle norme morali che io associavo all'idea del socialismo. All'inizio mi fu rinfacciato di abusare del mio passato e di fare un'opera di collaborazione gol "nemico di classe". Dopo alcuni anni, dichiarato esplicitamente nemico idealista, agente dell'imperialismo e accusato di altre cose che potete immaginare, fui espulso dal partito e ciò rese la mia vita "molto confortevole" ....
Forse in questa prima parte della mia vita la pena più grave non fu la tortura fisica ?questa non è una cosa molto distruttiva ?ma fu "la giornata della stella gialla", ovvero il giorno in cui dovemmo mettere il segno distintivo della razza ebraica.
Avevo un sorella, bella, poco più grande di me. Il giorno prima ci facemmo scattare una fotografia insieme, l'ultima volta senza la stella. Ci siamo vestiti entrambi dei nostri abiti più eleganti. Ho questa fotografia nella quale si vede che siamo tutti e due pallidi e un po' tristi e melanconici.La gravità di tale marchio consisteva nel fatto di perdere la dignità umana, e ciò fu più grave di tutte le torture, dell'odio patito ecc.
Apparire sulla strada con questo marchio per cui tutti avevano il diritto morale e non solo legale di sputarti in faccia e di ridere di te.
Devo dire che rimasi sorpreso dal fatto che solo pochi lo facessero. Ma questa è la mia teologia: se Dio esiste, ed è onnipotente, è infinitamente cattivo; ma neanche l'opera del Dio cattivo è perfetta! Gente totalmente sconosciuta mi ha manifestato la sua solidarietà in tutti i modi possibili, alcuni offrendomi cose, altri dicendomi una parola, altri abbracciandomi. Incredibile! Io credevo che tutti mi avrebbero sputato in faccia... Questa è una delle mie vite. La seconda non è interessante.
Professore, la sua formazione di studente come è avvenuta?
Io ho incominciato a studiare dopo la guerra. L'Ungheria già negli anni'20 adottò leggi di discriminazione razziale, tra le quali il cosiddetto "numerus clausus", che limitava fortemente l'accesso per gli ebrei alle professioni. Alcune facoltà furono loro totalmente interdette; in altre furono ammessi in percentuale minima. Allora molti giovani che poi divennero noti scienziati come John Von Neumann, Leo Szilard, Eugen Wiegner, Theodor Von Karman, Georg Polya, Georg Szego ed altri ancora, andarono a lavorare in Germania.
Come spiega, professore, -interviene Pietro Nastasi- il fatto che vi sia tra gli Ebrei del Centro-Europa una tale fioritura di ingegni in campo intellettuale?
Un mio collega, Kurt Vogel, specialista nella Matematica antica cinese, egiziana e babilonese, morto a 95 anni -un vecchio nazista- ha pubblicato nel 1942, in un giornale scientifico, un articolo nel quale sosteneva che gli Ebrei per razza non hanno assolutamente alcuna speciale tendenza verso la Matematica. L'articolo, che sta a dimostrare che tutta la cultura ebraica, la cosiddetta morale ebraica, non ha alcuna particolare relazione con la Matematica, è corretto. I Cinesi, i Greci, gli Indiani furono grandi matematici; i Romani, gli Ebrei, no. E questo è vero. Fino al 1830, quando apparve Jacobi, i matematici ebrei furono di seconda, terza mano; poco o nulla. Fino ad allora non si può parlare assolutamente di matematici ebrei. Il primo matematico ebreo francese è Jacques Hadamard;assai tardi. In Germania, ci sono, con Jacobi, Eisenstein, Kronecker, Cantor, Minkowski, Pasch, Steinitz ed altri.
La mia interpretazione è che, nella civiltà occidentale dominata dal Cristianesimo, gli Ebrei costituirono un gruppo di opposizione tollerata, perché la loro società, come quella cristiana, è dominata dall'idea di un unico Dio, un'unica chiesa, un unico pastore. Esistevano evidentemente divergenze su alcuni punti della dottrina. Gli Ebrei, per esempio, non ammettono l'esistenza di una autorità terrestre, né civile né religiosa (nessuna persona può ergersi a rappresentante di Dio, quale detentore della grazia divina), non credono nell'immortalità dell'anima e sono assertori della libertà di interpretazione delle scritture.
Gli Ebrei in effetti aborrivano il sangue e di conseguenza la violenza. La politica di non violenza fu la loro politica di sopravvivenza nella civiltà occidentale.
All'Università di Regensburg è venuta una volta una persona molto interessante che ha partecipato alla rivolta di Maidanek, un lager di sterminio e non di lavoro. Ha raccontato che alcuni giovani hanno avuta l'idea di entrare nell'armeria e di prendere delle granate. Ma nessuno di essi ha saputo poi far esplodere quegli ordigni, perché non sapevano alcunché del funzionamento delle armi. Ricordo ancora che tutti i miei compagni di scuola cattolici (io ho frequentato un collegio episcopale cattolico) spesso trascorrevano il fine settimana andando a caccia e quindi conoscevano il funzionamento delle armi, il che io biasimavo.
Dico tutto questo cose perché in realtà gli Ebrei sono violenti, ma attenzione! Io non parlo di violenza fisica. Mi riferisco al fatto che, sul piano intellettuale, gli Ebrei sono violenti, fino all'insolenza. La mia opinione è che la speculazione permanente in campo teologico delle prime comunità e le discussioni interminabili sull'essenza divina, sugli attributi di Dio, diretta conseguenza della libertà di interpretazione delle Scritture, hanno costituito un esercizio intellettuale di grande concentrazione su cose astratte che non hanno alcun interesse.
Non crede Lei -continua ancora Pietro Nastasi- che esistano altri fattori che possono spiegare questo fenomeno, per esempio l'abitudine precoce allo studio, molto più precoce di quanto non sia nelle famiglie cattoliche? Un altro aspetto non potrebbe essere la maggior apertura di carattere internazionale degli Ebrei dovuta alla loro consuetudine, proprio perché emarginati, a collegarsi tra di loro?
Sì, sono d'accordo. Praticamente non esiste analfabetismo tra gli Ebrei, perché ciò è considerato un peccato mortale. Quando i ragazzi cominciano a frequentare la scuola, sono generalmente già alfabetizzati, perché all'interno della famiglia le madri hanno già provveduto ad insegnare loro a leggere e a scrivere.
Io ero molto fiero del fatto che mio nonno, un povero bracciante agricolo, era analfabeta. Per la mia famiglia questo fatto era un tabù, una cosa di cui non bisognava parlare. Io ne fui fiero perché, pur avendo radici contadine, ero riuscito a diventare un intellettuale. Fin da piccolo ho dovuto imparare l'inglese, il francese, il tedesco. Ho avuto un'amica irlandese, la cui madre credeva che io fossi un grande aristocratico, perché sapevo parlare in francese. Ma questa cosa mi ha fatto ridere, e le ho detto: "nel paese dal quale provengo, imparare a parlare le lingue straniere è un obbligo per la gente ì povera, perché essa è costretta a partire".
Furono i grandi aristocratici ad essere monolingua, mentre i poveri, specialmente gli ebrei, furono poliglotti, perché sapevano che per trovare lavoro sarebbero dovuti emigrare in Africa, Australia, nei paesi dell'Europa occidentale. Bisognava perciò imparare subito almeno due lingue.
La mia opinione circa questi fenomeni scui Lei si interroga (e non è l'unico a farlo) è che sono fenomeni derivanti da una aggressività spirituale ed intellettuale tesa a dimostrare che anche noi siamo esseri umani. E per due generazioni dopo l'emancipazione si è sentita entro la comunità ebraica una volontà interiore di far vedere che anche noi eravamo essere umani capaci di fare buone cose. Sono però del parere che in due generazioni questo fenomeno si possa estinguere. Non sono affatto sicuro che la prossima generazione manifesti le stesse capacità in campo intellettuale ed artistico di quelle precedenti.
Professore, mi scusi, io vorrei ritornare alla mia precedente domanda per puntualizzare alcuni fatti relativi ai suoi studi. Lei ha detto di aver studiato in un liceo cattolico.
Sì, ho fatto il liceo, un liceo episcopale.
Poi, se ho ben capito, durante il periodo trascorso presso la prigione dell'ospedale militare Lei ha studiato Matematica.
Ho cominciato a studiare Matematica a scuola, ma il mio professore era assai scadente. Era interessato a come si risolve un problema, ma le sue spiegazioni erano molto superficiali. Io ad esempio volevo sapere perché -1 moltiplicato per -1 dà +1; come si spiegava ciò? Mi trattava con aria di sufficienza, senza darmi una spiegazione. Dopo di lui ho avuto un buon insegnante che mi ha spiegato queste cose, ma che davanti ad alcune mie osservazioni su alcune sue cosiddette dimostrazioni, mi ha detto che ero un insolente, che si trattava di "questioni stupide" e che potevo diventare un buon matematico, ma che dovevo pensare a fare gli esercizi assegnati piuttosto che perdere tempo con quelle domande. Ed io allora ho cercato da solo la risposta a tutte quelle questioni oscure. In biblioteca ho trovato Leibnitz, Carnot, i matematici italiani ed ho scoperto un altro mondo. Ho visto che anche alcuni di quei Matematici si erano interessati a "questioni stupide", quando si erano posti le mie stesse domande.
In seguito mio padre prese la decisione di mandarmi a studiare presso il seminario teologico rabbinico di Francoforte. "Ma papà -gli ho detto- tu sai che io sono comunista; e non hai pensato ai nazisti?". "Non fa niente -mi ha risposto- che tu non creda in Dio non fa niente; nessuno si aspetta che un rabbino creda veramente in Dio. Tu va' a scoprire la filosofia e la teologia. Quello è il tuo luogo. Tutto il Medio Evo fu pieno di interdizioni nei confronti degli Ebrei, e ciò nonostante i seminari ebraici hanno ugualmente continuato a funzionare. Hitler viene e va, non deve essere preso sul serio".
Sarà stato l'anno 1938, non ricordo bene, avrò avuto 17 anni (sono nato il 26 Dicembre 1921) ed anche mia madre, che pure era una socialista rivoluzionaria, era convinta che con l'incontro di Monaco la pace era stata salvata. Io invece piansi di rabbia. Avevo capito che non esisteva alcuna possibilità di sedere allo stesso tavolo con i nazisti, mentre mio padre non vedeva alcun impedimento a che io andassi a studiare la Filosofia nel seminario giudaico di Francoforte.
Fu la filosofia che mi condusse alla matematica. Questo è certo. Ho cominciato a studiare matematica all'Università di Kolozsvar, inTransiivania, nel 1945. Ho avuto un ottimo professore di Matematica applicata la cui tesi di dottorato era consistita?nella risoluzione di un'equazione differenziale che, mi sembra, costituisce il punto di partenza teorico nella costruzione degli aerei militari Stukas. Aveva lavorato con il generale Von Bock, nei laboratori militari tedeschi, e fu un fermo e convinto antinazista. Quando i nazisti presero il potere gli chiesero di restare, offrendogli un posto di professore al Politecnico di Berlino, a condizione che prendesse la cittadinanza tedesca. Lui rifiutò e ritornò in Ungheria ad occupare un posto di semplice assistente presso l'Università di Kolozsvàr. Quando i Tedeschi occuparono l'Ungheria, il 19 Marzo, egli fu la prima persona ad essere arrestata e ad essere trasferita a Berlino.
Quali sono stati i suoi principali interessi in campo matematico?
Ho parlato di questo mio professore, Samuel Van Borbely (non era ebreo come il nome Samuel potrebbe far credere), proprio perché nonostante egli lavorasse nel campo delle applicazioni della Matematica, mi ha incitato ed aiutato a coltivare i miei interessi perla storia e perla filosofia della matematica, o meglio per la storia dal punto di vista filosofico, la storia come parte integrante dello sviluppo dello spirito umano.
Professore, ci parli un poco della sua "seconda vita".
La mia seconda vita è quella di un maniaco forse, perché si deve essere maniaci per fare tutte queste cose in prigione, in un campo di concentramento. Fui interessato ai problemi fondazionali e ho avuto a disgusto tutto ciò che è misurare, fare calcolo, esperienza fisica.
Ho scoperto la geometria non euclidea studiando la teoria della relatività e mi sono interessato molto ad essa. Ho cominciato con il chiedermi com'era possibile l'impossibile: un mondo non euclideo? Come era stato possibile che lo spirito umano avesse non solo concepito, ma soprattutto accettato una cosa così stravagante senza alcuna applicazione (le applicazioni sono venute dopo, molto tardi), senza una motivazione reale neppure all'interno della Matematica? Come si era affermata una tale idea? Come aveva fatto ad imporsi contro una grande resistenza? In che cosa consisteva la sua forza?
In questo campo non ho fatto alcuna scoperta, ma ho pubblicato il mio primo lavoro sui problemi filosofici della geometria non euclidea; un lavoro nel quale, ad un certo punto, ho scritto: "come è ben noto, già in Aristotele si trovano alcuni frammenti non euclidei", e ne ho citati alcuni. Naturalmente io ero assolutamente certo che ciò fosse "ben noto" vista il gran numero di commenti e di studi esistenti su Aristotele. Ho scritto poi un nuovo lavoro e ho avuto lo scrupolo di andare a verificare presso i numerosi commentatori di Aristotele se vi fosse menzione di quanto in precedenza avevo ritenuto essere "ben noto". Sono rimasto stupefatto nel constatare che quelle cose non erano affatto conosciute. E' stato allora che ho deciso di fare ricorso alle edizioni latine e greche di Aristotele: quei frammenti necessitavano di una più incisiva e significativa traduzione.
Nel 199 ho pubblicato un libro su questi frammenti: Das Parallelen problem in corpus Aristotelicum (II problema delle parallele nel corpus aristotelico). E questo è stato l'inizio del mio amore per la geometria non-euclidea.
L'interesse per questa materia mi aveva portato a scoprire che anche Aristotele aveva preso in considerazioné alcune riflessioni "curiose" fatte nell'Accademia di Platone. Nel capitolo sulla libertà dell'Etica Endemia, dove Aristotele definisce l'uomo come l'unico essere libero di scegliere tra il bene e il male, l'unico esempio che egli porta non è un esempio etico?politico: fare la guerra o fare la pace, contrarre matrimonio o no, pagare o non pagare.
"Per illustrare più intuitivamente -egli dice testualmente- è bene far ricorso ad un parallelo preso dal campo geometrico". E il suo esempio è l'opposizione: somma degli angoli interni di un triangolo uguale a due retti contro somma degli stessi angoli non uguale a due retti, supponendo un atto iniziale, come arché, una scelta preferenziale, una decisione tra due alternative, come se fosse un campo della praxis. Se l'arché è "la somma degli angoli interni del triangolo è uguale a due retti" vi sono alcune conseguenze, ma se 1'arché è "la somma degli angoli interni del triangolo non è uguale a due retti" ve ne sono altre.
Mi pare di capire cbe gli aspetti filologici del suo lavoro sono stati conseguenza di alcune domande che Lei si è posto sui principi della Matematica, sui fondamenti di talune importanti questioni. Ma tutto ciò che rapporto ha avuto con la sua formazione? Immagino che Lei abbia studiato il greco al liceo.
No, lo studio del greco è stato una necessità avvertita quando mi sono accorto che senza un lavoro di decifrazione personale del testo io finivo con l'essere la vittima, lo schiavo degli traduttori, sulla cui grandezza non si può obiettare nulla se non che non possono essere contemporaneamente specialisti di Matematica, Biologia, Astronomia, Morale ecc. Fu molto difficile, devo confessarlo, ma per me è stato un passo obbligato.
Lei conosce molto bene varie realtà nazionali, quella tedesca, quella francese oltre che quella italiana: che idea si è fatto circa il modo di lavorare nel campo della Storia della Matematica in queste differenti realtà?
Questa è una questione che ho già affrontato altre volte. La Germania dispone della più ricca e ben organizzata infrastruttura: cattedre e istituti di ricerca specializzati. Ve ne sono a Stuttgart, Hannover, Amburgo, Francoforte, Monaco e in altre città ancora. Sui risultati il meno che si possa dire è che sono inadeguati alla ricchezza dell'infrastruttura. lo interpreto questo sostegno offerto dallo Stato come eredità della grande tradizione in questo campo espressa dalla Germania weimariana che era stata interrotta dal nazismo. I Tedeschi avevano dato grandi risultati di idee ed uomini formidabili negli anni 20-30 ed anche prima; basta pensare a Felix Klein, Otto Neugebauer, Oscar Beck ed altri. La Germania post-bellica ha profuso molte risorse per far rivivere quel periodo, ma i risultati non sono confrontabili con quelli del periodo precedente. Mi citi il titolo di un libro prodotto recentemente in Germania, di un'enciclopedia, di un'edizione. Ha notizia di qualcuno che abbia esposto delle idee, delle ipotesi? Non esiste.
Knobloch?
Knobloch è molto bravo, ma parlando di lui si deve dire che non è rappresentativo della situazione generale della Germania. Egli è una persona isolata, ben conosciuta in Francia, in Italia ed in altri paesi, ma io temo che non lo sia altrettanto in Germania.
Per dare un'idea più chiara della situazione, voglio segnalare il caso di Herbert Mehrtens, appartenente alla stessa generazione di Knobloch, uno studioso del rapporto complesso tra i matematici tedeschi .ed il nazismo. In questo campo Mehrtens è una vera e propria autorità internazionale; egli può, infatti, esibire un'opera personale ricca, precisa ed originale. Ma nonostante la sua ben meritata rinomanza, per quanto io ricordi non ricopre alcun preciso incarico nel mondo universitario.
C'è poi Hans Blumenberg, il più brillante autore di libri sulla storia del pensiero scientifico (Copernico, Galilei, ecc.). I suoi libri sono stati tradotti in vari paesi del mondo, ma in Germania non se ne ha praticamente eco, né una recensione.
E in Francia e in Italia?
Le situazioni francese e italiana sono molto simili tra loro e assai differenti da quella tedesca. I miei colleghi francesi, così come quelli italiani, si lamentano molto della scarsezza di mezzi e di strutture e fanno continuamente il confronto con la realtà della Germania.
La mia sensazione è che in Francia la ricerca sia bene organizzata, esistono gruppi di lavoro costituiti da numerosi ricercatori che, pur non avendo a disposizione le strutture tedesche, producono tutti e spesso cose interessanti.
In Italia si fa più che in Francia. La produzione italiana non è immensa, ma molto varia e ricca. Ciò che mi ha colpito di più in Italia è che esiste un grande interesse; si sente veramente una grande tensione intellettuale, che è quanto esattamente manca in Germania, e si pubblica molto.
Da parte di amici francesi ed italiani mi è stato obiettato talvolta che questo interesse è superficiale, che si fanno tanti libri non buoni e che spesso quelli buoni non vengono letti. Ho avuto una volta una discussione col mio maestro e amico tedesco, Willy Hartner, una persona che ho amato molto, uno storico dell'astronomia araba e cinese che fu anche corrispondente dell'Accademia dei Lincei. Si chiedeva perché si pubblicassero tanti libri inutili e si sprecasse tanta carta; ed io gli ho risposto che l'esistenza di questi libri è motivata, perché se non si pubblicano i libri cattivi non appare il solo libro buono. Esiste un'ecologia intellettuale ed io ho fatto questa esperienza con i miei studi sulla teoria delle parallele. Ho letto moltissimi lavori su questo argomento, ma alla fine ho scoperto che ve ne sono due o tre davvero interessanti e che gli altri sono spesso inutili, cattivi, si ripetono. Ciò nonostante devo dire che se tutti questi libri scomparissero, scomparirebbe anche il veicolo di un'idea. Veda il caso della geometria non euclidea, in cui numerose pubblicazioni "inutili" hanno avuto il ruolo di mantenere nel tempo l'interesse per la questione. Ritengo che se solo il dieci per cento della produzione attuale è buono, ciò costituisce un risultato straordinario. E questo in Italia e in Francia avviene. Ripeto, esiste in questi paesi la presenza di un vivo interesse, e ciò è decisivo.
L'Italia, per esempio è l'unico paese che dispone di un Istituto di grande originalità e ricchezza di strutture e concezione, come l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli: esso da una parte è l'espressione dell'esistenza di tale interesse e dall'altra costituisce un punto di focalizzazione della tensione intellettuale e delle idee nuove che non trova riscontro in altri paesi del mondo.
a cura di Romano Gatto