Contribuire alla ricerca europea

Abbiamo approvato il 7° Programma Quadro europeo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico il 30 novembre dello scorso anno, due mesi fa, in una corsa contro il tempo che ci ha visti insieme, Parlamento e Commissione, confermando un atteggiamento di collaborazione che ha caratterizzato i due anni e mezzo di lavoro, perché tanto è durata la costruzione di questo Programma quadro.

Era di metà giugno del 2004 la prima comunicazione della Commissione, in coincidenza con l'avvio del mandato parlamentare attuale; a settembre '04 sono stata indicata come relatrice sulle linee guida per il Programma; il Rapporto Locatelli è stato approvato in sessione plenaria il 10 marzo 2005, con una sorta di coincidenza (che preferisco definire coerenza ) temporale, perché proprio il giorno precedente era stato approvato dal Parlamento anche il rilancio della strategia di Lisbona che, dopo 5 anni dal suo avvio, aveva mostrato di aver bisogno appunto di nuovo impegno e di nuovo vigore. Come se, constatando questo bisogno, il Parlamento avesse tempestivamente risposto con un pronto, duplice sì.

Le linee guida che il Parlamento Europeo ha indicato alla Commissione e che, come mostra il contenuto stesso del 7° Programma Quadro, la Commissione ha recepito in grandissima parte, danno alcune indicazioni precise.

Il rapporto sulle linee guida inizia con un'affermazione chiara e decisa: Europe deserves better (l'Europa merita di meglio) per la ricerca, e non solo per la ricerca (questo è quanto pensiamo noi, gli europeisti convinti). E dall'inizio ha anticipato il contenuto del Trattato Costituzionale (lo shock dei due referendum olandese e francese non si era ancora verificato) che al comma 1 dell'art.III-248 recita: "L'azione dell'Unione mira a rafforzare le sue basi scientifiche e tecnologiche con la realizzazione di uno spazio europeo della ricerca nel quale i ricercatori, le conoscenze scientifiche e tecnologiche circolino liberamente (...)". E chiede di agire in coerenza con questo futuro contesto giuridico.

In particolare chiede che gli Stati membri e le istituzioni europee si adoperino per la creazione dello Spazio Europeo della Ricerca con la stessa determinazione manifestata per la realizzazione del mercato unico e per la moneta unica.

Il Parlamento poi ha dato indicazioni precise per quanto riguarda le risorse finanziarie e per la sincronizzazione con la durata delle prospettive finanziarie (non si fanno piani al buio rispetto ai mezzi a disposizione).

Continuità: Il Parlamento ha insistito che vi fosse continuità tra il 6° ed il 7° Programma Quadro, ed allo stesso tempo che si tenesse conto dei miglioramenti contenuti nella relazione Marimon, in particolare quelli relativi alla necessità di procedure amministrative più semplici e chiare (ad esempio prevedendo il ricorso ad una procedura di valutazione in due fasi, per migliorare l'efficienza e ridurre i costi per i partecipanti o la definizione di un sistema semplificato per la determinazione dei costi).

Queste richieste sono state recepite per la gran parte dalla Commissione, con l'eccezione di quella riguardo il raddoppio dei fondi, ambito nel quale determinante è stato il ruolo del Consiglio. Il Parlamento Europeo ha dato poi indicazioni nel merito del Programma: ricerca fondamentale, risorse umane, trasferimento tecnologico, ed alcune indicazioni per i filoni in cui si deve sviluppare la ricerca europea (contenute nel programma specifico Cooperation ).

Il 7° Programma è lo strumento principale della UE per il finanziamento della ricerca in Europa e non solo costituisce un motore per sviluppare la cooperazione, ma ha il compito di fornire una strategia comune per rafforzare il dinamismo scientifico e tecnologico. Uno strumento importante, e però dobbiamo partire dalla constatazione che le risorse impegnate (anche a prescindere dalla richiesta di raddoppio) sono una quota modesta sia del bilancio europeo, sia della somma degli investimenti in ricerca dei singoli Paesi membri.

 

Ricerca fondamentale

Con il nuovo Programma Quadro abbiamo cercato di dare corpo e realtà alla visione che Ruberti perseguì, come Ministro della Repubblica e come Commissario Europeo, di uno Spazio Europeo della Ricerca, dando vita allo strumento operativo importante, il Consiglio Europeo della Ricerca (contro il quale purtroppo proprio in Italia si erano sollevate incomprensibili resistenze, poi fortunatamente rientrate).

Il Consiglio Europeo della Ricerca è la prima funding agency pan-europea della ricerca di base, che finanzierà la ricerca di base, singoli ricercatori ed équipes, messi in concorrenza a livello europeo: l'eccellenza sarà il solo criterio che guiderà la selezione. Un'iniziativa in grande sintonia con quanto ci ha insegnato Ruberti sulla centralità della ricerca di base, che quindi deve ricevere la massima cura dal sistema pubblico.

Risorse Umane: Più ricerca significa in primis più ricercatori e non casualmente il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona e di Barcellona, sull'impiego del 3% del PIL per la ricerca, comporta una presenza di otto ricercatori ogni mille presenze nel mercato del lavoro, cioè circa 700.000 nuovi ricercatori entro il 2010. Per arrivarci occorre stabilire un legame più stretto tra sistemi di istruzione e carriere scientifiche, creando percorsi formativi che conducano naturalmente verso la carriera del ricercatore. Rendere questa carriera attraente significa offrire opportunità migliori ed in primo luogo togliere gli ostacoli alla mobilità. La consuetudine alla mobilità è patrimonio solo di alcuni Paesi ed è verso questi Paesi che si dirigono i flussi, approfondendo ulteriormente le disomogeneità che caratterizzano l'Europa. Armonizzare le carriere, le condizioni di lavoro, definire standard comuni per l'accesso alla carriera: così si costruisce un vero Spazio Europeo della Ricerca, rendendo indifferente per i ricercatori il lavoro in Italia piuttosto che in Finlandia o in Grecia.

All'interno di questo tema, considero come primo punto il nodo donne e scienza. Le donne sono minoritarie numericamente e sottorappresentate nei livelli alti delle carriere. E' evidente che le donne rappresentano il più ampio bacino per raggiungere l'obiettivo dei nuovi 700.000 ricercatori. Alcune azioni sono state avviate ma, per cambiare significativamente la situazione, sono necessari sforzi congiunti di tutti (attori pubblici e privati) e politiche che riguardano non solo il campo scientifico ma anche quello sociale ed economico. Vogliamo più donne e più giovani nella ricerca. E qui basti un solo dato: dei 18.500 professori ordinari in Italia, solo nove hanno meno di 35 anni.

Dunque, giovani, donne, mobilità, ricerca di base, risorse umane, ed infine risorse finanziarie. Parliamo di quelle europee e poi alcune riflessioni sul nostro Paese.

Gli ultimi dati relativi alle spese per la ricerca mostrano che l'Unione nel suo insieme stanzia solo l'1,96% del Pil, gli USA il 2,59%, il Giappone il 3,12%, la Corea il 2,9%. La distanza tra stanziamenti europei e statunitensi, pari a 130 miliardi di euro all'anno, è dovuta soprattutto alla differenza degli investimenti privati nel settore della ricerca.

Se confrontiamo le spese attuali in ricerca con il dato del 1998, pari all'1,82%, vediamo che anche la crescita globale degli investimenti europei è motivo di preoccupazione per la sua lentezza, anche se non è impresa impossibile perché in alcuni Paesi è stata significativa. Svezia e Finlandia investono rispettivamente il 3,51% ed il 4,2%, essendo i due Stati che più investono in ricerca ed anche gli unici che già soddisfano l'obiettivo del 3% stabilito nel marzo 2002 dal Consiglio europeo di Barcellona per il 2010.

Come ho detto prima, il Parlamento aveva chiesto (nel rapporto preliminare al 7° Programma Quadro) il raddoppio dei fondi rispetto al precedente programma, che prevedeva 4,5 miliardi annui da moltiplicare per i quattro anni della sua durata.

La Commissione aveva aderito a questa richiesta e ha negoziato con il Consiglio (sostenuta dal Parlamento) per conseguire l'obiettivo. Dopo il difficile accordo sulle prospettive finanziarie, nel bilancio pluriennale della UE -la cui durata (2007-2013) coincide perfettamente con quella del 7° PQ- i fondi a disposizione sono poco più di 53 miliardi di euro. Vi è stato un aumento in termini reali del 40% che, se esaminato più dettagliatamente, rivela un aumento del 30% per le azioni di continuità, quelle cioè già presenti nel 6° Programma Quadro. I rimanenti miliardi sono destinati alle nuove azioni, come il Consiglio Europeo della Ricerca, in un rapporto del 75 a 25% tra azioni di continuità e nuove azioni. E tra le azioni di continuità quella che ha avuto l'aumento più sostanzioso è stato il programma People .

Soddisfatta dell'aumento? No ! Ed ancor meno per quanto riguarda l'Italia.

Viviamo in un Paese dove ogni giorno si ascoltano voci preoccupate su quanto sia difficile mantenere adeguati tassi di crescita e sviluppo, e di come siano ardue le sfide che ci pone la globalizzazione. Sappiamo che l'Italia ha potuto far crescere la propria economia, dopo la seconda guerra mondiale, fino ad entrare nel novero dei primi 7 Paesi sviluppati del mondo, perché ha potuto contare su un mix di strumenti e di risorse: tra i primi, il basso costo della manodopera rispetto ai principali partner europei, svalutazioni competitive della moneta, emigrazione e turismo; dall'altro, livelli di istruzione comunque in linea di massima adeguati ad una società sviluppata, e le enormi risorse umane e culturali della tradizione italiana, dal patrimonio artistico alla coesione familiare, dal clima alla forza che ci dà essere il Paese delle mille città, ognuna con proprie classi dirigenti e una propria attiva soggettività. Per lungo tempo, insomma, abbiamo potuto costruire un Paese ricco, sfruttando anche la nostra natura di Paese in via di sviluppo che poteva proporre le sue merci a un pezzo inferiore, e magari supplire con l'artigianato, la creatività individuale, la piccola impresa alle debolezze strutturali e alla sottocapitalizzazione del suo sistema produttivo.

Sappiamo anche molto bene che oggi l'Italia deve compiere la scelta definitiva: che non può che essere quella della piena integrazione nelle economie più sviluppate, non essendo più possibile, con l'incalzare, appunto, della globalizzazione, e in particolare con lo sviluppo dei Paesi asiatici ed est-europei, giocare un ruolo complementare rispetto al centro-nord Europa, come abbiamo fatto tra gli anni '50 e gli anni '80. La necessità e la difficoltà di questa scelta, che è stata acutamente sentita nel momento dell'adesione all'euro, ha provocato anche reazioni di rigetto (vivo in Lombardia!). Sarebbe disastrosa una scelta anti-europea, di chiusura autarchica all'immigrazione, ai vincoli finanziari impostici dall'Europa, alla Costituzione europea.

L'Italia deve attrezzarsi al XXI° secolo; questo significa attrezzarsi all'immigrazione straniera quale fenomeno permanente, all'apertura ai mercati riformando profondamente la sua politica agricola e industriale e, per venire al tema di oggi, riassumendo per punti…:

- accrescere le risorse per la ricerca;

- promuovere il capitale umano: più giovani nella ricerca e più donne;

- aprirsi al mondo attraendo capitali e cervelli, piuttosto che continuare il piagnisteo sulla fuga dei cervelli nazionali;

- favorire le iniziative di ricerca applicata stimolando la collaborazione pubblico/privato;

- contribuire al “mercato unico” della ricerca europea;

- maggiori risorse per l'università, in proporzione alla qualità dei diversi atenei;

- maggiore controllo e responsabilizzazione dei docenti e dei ricercatori: carriere e stipendi sottoposti a indici di qualità nell'insegnamento e nella ricerca;

- riduzione del numero degli studenti che abbandonano gli studi e incentivi alla mobilità degli studenti e dei ricercatori presso gli atenei italiani ed europei.

Politiche che richiedono tempi lunghi? Forse, ma dobbiamo partire.

Soprattutto lasciando la posizione di fanalino di coda quanto a stanziamenti per la ricerca: siamo ad un misero 1,15%. IL Commissario Potocnik in un seminario a Bruxelles del 1° dicembre, aveva detto a noi: “Bisogna rimboccarsi le maniche”.

Per concludere, cito ancora Antonio Ruberti. Quando diventò ministro, l'Italia aveva nel corso degli anni '80 aumentato sensibilmente i propri investimenti in ricerca, riguadagnando posizioni in Europa, eppure egli denunciava come, con l'1,49% di rapporto tra spese per ricerca e Pil, fossimo ancora indietro rispetto ai grandi partners europei. Oggi siamo all'1,15%, siamo tornati indietro, mentre non è possibile non vedere come l'investimento sul futuro della conoscenza sia più importante di tutto per lo sviluppo e la crescita di un Paese.

Buon lavoro, allora, al ministro dell'Università e della Ricerca.