Figure del tempo. Dall’orologio alla nuvola

Narra Jules Verne che a Ginevra, su di un’isola in mezzo al fiume Rodano, in una casa sospesa su palafitte, viveva in epoca medioevale mastro Zacharius, orologiaio, convinto di aver finalmente padroneggiato il tempo. Dalla botola nel pavimento del laboratorio Zacharius vedeva scorrere il fiume; al tempo regolare dell’orologio, successione di istanti sempre uguali, ciclica ripetizione dell’identico sul modello dei moti planetari, ecco opporsi un altro tempo, il fluido scorrimento delle acque, che Eraclito aveva assunto come metafora del divenire – “nello stesso fiume non è possibile scendere due volte”, dice un suo noto frammento. Verne narra la morte di Zacharius e la fine del tempo degli orologi: il tempo cronologico (time) viene distrutto dall’altro tempo, quello atmosferico (weather). Si scatena un temporale, un fulmine innesca l’incendio della casa di Zacharius travolta poi dalle acque del Rodano in piena. Gli orologi finiscono nel fiume, il tempo reversibile affoga nell’irreversibile, il fuoco e l’acqua segnano la fine dei cicli ripetuti del cronometro.

L’anno del racconto di Verne è non casualmente il 1874. L’emergere della termodinamica, scienza del fuoco e delle macchine termiche, annuncia il declino della scienza “classica”, quella di Galileo e di Newton, che aveva trovato il suo coronamento nella meccanica razionale ai primi dell’Ottocento. Del pensiero scientifico della modernità, da Descartes e Huygens fino a Laplace, l’orologio era stato il modello eminente, l’oggetto metaforico privilegiato: il corpo degli animali, diceva Descartes, è un automa obbediente ai meccanismi della statica, i suoi organi funzionano come leve, pendoli, bilance e bilancieri (data la carica iniziale, il moto si trasmette attraverso gli ingranaggi). Il nostro cuore è una pompa idraulica, oppure un orologio il cui tic tac segna il regolare alternarsi di sistole e diastole: l’unione di anima e corpo non sarebbe che il battito simultaneo di due bilancieri. L’universo intero è un orologio, ciclo sempre rinnovato ad imitazione delle traiettorie dei corpi celesti; e Dio stesso è il perfetto orologiaio che talvolta, diceva Newton, deve intervenire a risistemare il suo sistema, o, come voleva Leibniz, lo ha perfettamente regolato fin da principio attraverso l’armonia prestabilita fra le monadi.

 Se l’orologio è l’oggetto-modello della scienza classica è perché risulta perfettamente riconducibile al “paradigma meccanicistico” che la domina: le qualità primarie dei fenomeni sono figura e movimento, sono le leggi del moto a dover spiegare l’intera realtà. Ed il moto è semplice traslazione, spostamento che lascia invariato l’oggetto che lo compie, mutamento senza vita né storia che si riconduce all’equilibrio: così funziona, dopo aver avuto origine da una nebulosa, anche l’universo di Laplace, cosmo stabile e chiuso dove i pianeti compiono, in senso astronomico, la loro rivoluzione. Ogni evento, ad esempio il passaggio di una cometa, non è che periodico, non fa che ripetere il passato, senza che nulla di nuovo vi sia sotto il sole (nihil sub sole novi, secondo il detto che incarna la saggezza del biblico Salomone). Il mondo di Laplace è davvero un orologio: il tempo è solo il parametro invariante che consente di misurare il decorso prevedibile di fenomeni che, in linea di principio, restano simmetrici in rapporto al tempo. E questo significa che – ha osservato Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica nel 1977 per i suoi studi nel campo della termodinamica di non equilibrio) –, dal punto di vista della meccanica classica, è altrettanto concepibile che un miscuglio omogeneo diventi eterogeneo quanto il contrario.

Il tempo del mito

Vi è un che di infernale nel ciclico ripetersi degli eventi, come accade ai peccatori danteschi, ad esempio avari e prodighi che “in eterno verranno a li due cozzi”, cioè a scontrarsi di continuo (Inferno, VII). Già il mito greco fa coincidere la punizione con il continuo ripetersi di uno stesso gesto. Sisifo è condannato a far salire sulla cima di una montagna una pietra pesantissima che subito ricade a valle; ed il “lavoro” ricomincia, come se la pena fosse l’immortalità di un’esistenza che non offre mai nulla di nuovo. Analogo supplizio condanna le figlie di Danao, colpevoli della strage dei cugini – così narra Ovidio –, a riempire d’acqua un’anfora che, essendo bucata sul fondo, ben presto si svuota. Nei due casi siamo di fronte ad un cammino simmetrico (salita-discesa, riempimento-svuotamento), come avviene per una clessidra. Stessa sorte colpisce il re Tantalo, di cui già narra l’Odissea: per contraccambiare l’ospitalità degli dei, li invita ad un banchetto dove offre come cibo le carni bollite del figlio. Relegato nel Tartaro, è tormentato dalla fame e dalla sete, immerso nell’acqua di una palude non riesce a berla perché appena si avvicina l’acqua si ritrae e, ogni volta che cerca di raccogliere un frutto dai rami dell’albero a cui è legato, i rami si allontanano. Ma se Sisifo, Tantalo e le Danaidi vivessero sulla terra e fossero mortali, il loro lavoro (nel senso della fisica, cioè il trasporto di un peso lungo un percorso in virtù di una forza) richiederebbe spreco di energia, il che contribuirebbe ad invecchiarli.


Rilievo risalente al I sec. d.C., Roma, Basilica sotterranea di Porta Maggiore, navata destra

La comparsa della termodinamica rompe la simmetria temporale. L’entropia introdotta dal secondo principio prevede che un sistema isolato, privo cioè di scambi di energia e materia con l’ambiente, debba necessariamente procedere verso uno stato di omogeneità crescente, di diminuzione progressiva delle differenze – per usare l’immagine del filosofo Henri Bergson, lo zucchero si scioglierà nell’acqua. L’entropia massima coincide con uno stato di equilibrio terminale, con la “morte termica”: è questa la direzione indicata dalla “freccia del tempo”, come se il tempo fosse diventato grandezza vettoriale e non più scalare. Viene così sancita la fine di ogni illusione di riconquista del tempo perduto, di eterno ritorno dell’uguale, ancora vagheggiata dal Nietzsche che si ispira alla temporalità ciclica degli antichi greci. A differenza della gravitazione della meccanica, il calore è una forza che trasforma – “ignis mutat res” –, cambia lo stato interno della materia; l’universo entra anch’esso nella dimensione della storia, se ne può ipotizzare l’origine e prevedere la morte, fine obbligata se il sistema è isolato. Dal cosmo-orologio al cosmo-fornace: l’ordine tranquillo delle rivoluzioni circolari è sostituito da ammassi di materia in ebollizione e trasformazione, dove giocano a dadi il caso e la necessità.

 Di questo universo, ormai diventato caosmo, il modello migliore non ci è più dato da modelli astronomici, ma dall’incerto e solo in parte prevedibile andamento dei fenomeni meteorologici. Il massimo epistemologo del Novecento, Karl R. Popper, ha fatto ricorso proprio al contrasto tra nuvole e orologi: “Con le nuvole intendo rappresentare sistemi fisici che, al pari dei gas, sono altamente irregolari, disordinati e più o meno imprevedibili […]. All’altro estremo possiamo porre un pendolo molto esatto, un orologio di precisione, col quale intendiamo rappresentare sistemi fisici regolari, ordinati e altamente prevedibili nel loro comportamento”. Si tratta di un contrasto che possiamo significativamente ritrovare in Norbert Wiener, nel primo capitolo della sua Cibernetica (1961), dal significativo titolo “Tempo newtoniano e tempo bergsoniano”: se facessimo una ripresa cinematografica dei moti planetari e la proiettassimo al contrario, essa ci darebbe un’immagine conforme alla meccanica newtoniana. Ma tale reversibilità sarebbe infranta nel caso della ripresa del passare delle nubi nel corso di un temporale; nelle meteore si agitano particelle molteplici di cui non possiamo determinare con precisione le traiettorie ma solo le distribuzioni di situazioni possibili. Le nuvole sono indefinite, fluide e variabili: il dettaglio si ripercuote sull’intero, per cui una causa minima produce conseguenze impreviste e di ampia portata, in virtù di quell’“effetto farfalla”, reso famoso dal meteorologo Edward Lorenz negli anni Sessanta e che già formulava lo scrittore milanese (oltre che ingegnere e filosofo) Carlo Emilio Gadda: « Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me …». Il nesso causale agisce in modo non lineare, il decorso degli eventi manifesta una forte sensibilità alle condizioni iniziali, come dicono oggi i teorici delle dinamiche del caos. Prevediamo il momento esatto di un’eclissi, ma non siamo sicuri di poterla osservare: le meteore – che stanno nell’aria, in mezzo fra cielo e terra, suggerisce l’etimo – potrebbero frapporsi alla vista.

John Constable, Studio di nuvole, 1822, Yale Center for British Art, New Haven

Il tempo ciclico dell’orologio non è comunque estraneo all’uomo: è il tempo del nostro cuore, quando siamo in buona salute, è il tempo delle nostre pratiche di lavoro, scandite dal calendario. Il secondo principio della termodinamica ci ricorda però che il nostro organismo, come tutte le altre cose del mondo, procede in modo irreversibile in obbedienza alla deriva entropica. Ma insieme a questi due, un terzo tempo abita in noi e nella scatola nera delle cose, il tempo dell’evoluzione darwiniana: scorre a ritroso rispetto alla freccia entropica, fa emergere differenze dall’indifferenziato, procede dall’omogeneo all’eterogeneo, come diceva Herbert Spencer. Per mutazione casuale, compaiono nuove strutture e funzioni, si assiste alla comparsa di nuove specie e si disegna una progressiva ramificazione a partire da un tronco comune. Ed è forse questo, immagina il mito positivista del progresso, il tempo della storia, che conduce da forme elementari di civiltà ad altre più complesse e variegate.

Hanno scritto Ilya Prigogine e Isabelle Stengers: “Per lungo tempo alcuni fisici cedettero che si potesse definire l’ordine inerte dei cristalli come il solo ordine fisico prevedibile e riproducibile, e l’evoluzione verso il disordine e l’inerzia come la sola evoluzione deducibile dalle leggi fondamentali della fisica. Ogni tentativo di estrapolazione dalle descrizioni termodinamiche portava a definire come rara e imprevedibile – improbabile – l’evoluzione descritta dalle scienze biologiche o sociali. Questa evoluzione fa sempre crescere la complessità e fa aumentare il numero delle innovazioni. Come si può correlare, per esempio, l’evoluzione darwiniana, selezione statistica di eventi rari, con la scomparsa statistica di ogni particolarità, di ogni configurazione rara, descritta da Boltzmann? Possono aver ragione allo stesso tempo Carnot e Darwin?”.


Ilya Prigogine (1917-2003)

Il tempo dell’evoluzione del vivente è inventivo, fa apparire qualcosa di nuovo ed in modo imprevisto. È in questa prospettiva che possiamo oggi riconsiderare la riflessione di Henri Bergson, che contrappone al tempo della fisica, uniforme, spazializzato, continuo e suddiviso in istanti solidi e identici (tempo dell’orologio, simile ad una collana di perle), il tempo della coscienza, la durata. Quest’ultima è fluire continuo, divenire che muta senza sosta, variazione qualitativa (ben diversamente viviamo i momenti di gioia rispetto a quelli di noia o di dolore): vi è durata là dove la memoria prolunga il passato nel presente e ne conserva traccia, anticipando il futuro. Ora, il tempo della coscienza diviene progressivamente in Bergson il tempo stesso della vita (e della realtà profonda, non quella di superficie a cui la scienza si ferma), opposto al tempo morto della materia inerte; la durata è anche il tempo dell’evoluzione dei viventi, invenzione “creatrice” di novità impreviste che lo sguardo analitico della scienza sarebbe incapace di cogliere. Nel vivente, come nella coscienza, batte un tempo che produce ed innova, un tempo operativo, non un semplice parametro per la misurazione dei fenomeni. La realtà, in cui la durata si esprime attraverso uno zampillare continuo di novità, è animata da uno slancio vitale di cui la materia inerte costituisce solo il punto d’arresto; lo slancio è una ventata che di addentra in un crocicchio per poi dividersi in correnti divergenti. Il proiettile della vita non descrive una traiettoria lineare, esplode invece in frammenti che a loro volta esploderanno ramificandosi di continuo, distribuendosi a fascio.

Einstein e Bergson

Nella sua storia, la fisica si è preoccupata sempre più di separare il tempo dal divenire, la continuità degli istanti con cui misuriamo i fenomeni, da quanto scorre al suo interno, cioè appunto dai cambiamenti, spesso irreversibili, che avvengono in esso. La fisica riconosce soltanto questo tempo indipendente, non si occupa della freccia del tempo che segna la nascita, la crescita e il degrado inevitabile delle cose. È anche per questo che il filosofo Henri Bergson polemizza, nell’opera Durata e simultaneità del 1922, con il tempo-illusione della relatività; Einstein, pur abolendo la credenza nel tempo assoluto, rimane in fondo un newtoniano, continua a pensare nell’orizzonte dell’unico tempo che la scienza conosce, quello “fittizio” dell’orologio, semplice successione di istanti, misurati dal moto delle lancette nello spazio. La realtà del tempo come flusso e transizione viene annullata dalla scienza in istantanee, istanti in cui il tempo è solidificato e inaridito; ma la molteplicità indivisibile del tempo vissuto non si può congelare in segmenti spaziali, come una passeggiata lungo le strade di Parigi non equivale alla una serie di fotografie che la illustrano. Il tempo reale è durata, sostiene Bergson, memoria interna al cambiamento, paragonabile all’ascolto di una melodia: la nostra coscienza prolunga il prima nel poi, stabilisce il collegamento tra il suono passato ed il suono che stiamo ascoltando ora, nel quale già avvertiamo l’annuncio dei suoni a venire. Einstein giudicò le obiezioni di Bergson semplicemente come le critiche di un incompetente in campo matematico, e non senza ragione. Ma l’esigenza che il tempo non sia pura illusione, come vuole lo sguardo parmenideo di Einstein, quasi che la realtà dell’universo sia già data da sempre, significa anche affermare che “il futuro è realmente aperto, imprevedibile, indeterminato”: e questo è anche il senso della ripresa della “metafisica” di Bergson nelle riflessioni di uno scienziato come Ilya Prigogine.

Tre tempi abitano dunque il nostro universo ed il nostro organismo è immerso nella compresenza di essi, è uno scambiatore di tempi: procede verso la dissoluzione, obbedendo al secondo principio della termodinamica; il suo cuore batte il tempo reversibile, come un sistema dinamico in equilibro; sopravvive alla degradazione grazie ai suoi scambi di materia e di energia con l’esterno, come un sistema aperto (una struttura dissipativa, nei termini di Prigogine); ed infine contribuisce, con la riproduzione, al lento percorso di differenziazione della specie. Ogni vivente è la confluenza, la sincronia di questi tempi, vive nel complesso mescolarsi di questi flussi. “La vita, ha scritto Michel Serres, integra […] la durata bergsoniana o l’evoluzione alla Darwin, il precipitare verso il disordine alla Boltzmann, lo scarto alla Prigogine, ed il ritmo del reversibile, il tempo più anticamente noto. La vita è multitemporale, policrona, è una sirresi. È immersa nel fiume di più tempi”.

Non dovremmo più dire allora “tempo” al singolare, ma declinarlo al plurale: tempi molteplici e complessi, cioè letteralmente che si tessono assieme. Pensare il tempo come molteplicità significa pensarlo come flusso in cui si agitano turbolenze, sul modello dell’incerto passare delle meteore: pensare il tempo che passa sul modello del tempo che fa. La turbolenza è uno stato di nascita, segna il passaggio da turba a turbo, per servirsi dei termini del De rerum natura di Lucrezio: in greco turbé era la folle danza in onore di Dioniso, in latino turba indica la moltitudine e il tumulto, mentre turbo è la forma rotonda in movimento, trottola, cono o spirale che gira vorticosamente. Nel caos dove gioca un grande numero di elementi, in virtù del clinamen (di una deviazione infinitesima dalla linea retta), si scatena un moto vorticoso. La turbolenza esprime al meglio la fragile figura in cui si intrecciano i tre tempi: come accade con un mulinello che si forma nell’acqua di un fiume, il flusso si inclina, si produce localmente un nodo, una sacca di neghentropia che si conserva per un po’ prima di disfarsi e lasciarsi sommergere dal flusso, isola di omeostasi nella resi universale delle cose. Il tempo scorre come le acque di quei fiumi immensi che scivolano su letti molteplici, nei quali si aprono casualmente nuovi bracci. Talvolta lo scorrere delle acque si arresta in un punto, segue l’andamento irregolare del terreno e delle rive, talaltra accelera il suo corso e si fa cascata; il tempo non procede in analogia al ritmico cadere di una goccia sulla pietra, procede lungo i molteplici cammini che l’acqua segue quando è versata dentro un bicchiere riempito di sassolini. Ed anche “il cammino della storia non è quello di una palla di biliardo che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade …” (Robert Musil).

Letteratura e meteore

“Si segnalava una depressione sull’Atlantico; essa si spostava da ovest verso est in direzione di un anticiclone situato sopra la Russia […]. Il sorgere e il tramontare del sole della luna, di Venere e dell’anello di Saturno, come molti altri fenomeni importanti, erano conformi alle previsioni degli annuari astronomici”. Con queste parole esordisce uno dei principali romanzi del Novecento, L’Uomo senza qualità (1931) di Robert Musil, ingegnere e filosofo. Il caos degli eventi atmosferici, “da cui, cosa notevole, nulla segue”, come recita il titolo di quel primo capitolo, predispone lo sguardo all’altro caos, quello del traffico della città di Vienna, “liquido in ebollizione”, dove un passante viene travolto da un’auto: la morte sopraggiunge per caso, evento imprevisto ma contemplato nelle statistiche dei grandi numeri.

Un’eco di quell’esordio si ritrova nel romanzo di Michel Tournier, Le meteore (1973): “Il 2 settembre 1937, una corrente di perturbazioni in atto fra Terranova e il Baltico spingeva nel canale della Manica masse d’aria oceanica tiepida e umida …”. Il romanzo ruota attorno alla storia di due gemelli, Paul e Jean, custode il primo dell’integrità della cellula gemellare, spinto il secondo da una forza centrifuga che lo porta a vagabondare per il mondo. Se Paul aderisce al partito astronomico, all’olimpo sereno e inalterabile del mondo siderale, Jean predilige gli imprevisti meteorologici ed esprime la sua filosofia del viaggio attraverso il personaggio di Passepartout, il servo di Phileas Fogg ne Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Fogg è un sedentario, “vivente orologio” che misura il tempo in termini di denaro. Ne Le meteore, compare la figura di Franz, il bambino-calendario, affetto da autismo, dotato della straordinaria capacità di calcolare con estrema rapidità che giorno della settimana fosse in una data qualsiasi, dal 1000 a.C. fino al 4000 d.C. La possibilità di determinare con estrema precisione il ciclico andamento dell’ordine del calendario lo rassicura di fronte all’instabile e imprevedibile incertezza degli eventi atmosferici: sarà proprio lo scatenarsi improvviso di un temporale a causare la morte di Franz.

Se la realtà è un sistema complesso che trova il suo adeguato modello nel fortuito combinarsi di eventi atmosferici, dove variabili molteplici si intrecciano in modo aleatorio, dovremo allora abbandonare le spiegazioni semplificatrice della causalità meccanica. La “teoretica idea” che si agita nella testa del commissario Ingravallo, protagonista di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Carlo Emilio Gadda, consiste nel voler riformare la categoria di causa, rendendola plurale e aggrovigliata come appunto accade negli eventi meteorologici. «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti [...] La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata “ragione del mondo”. Come si storce il collo a un pollo».

Carlo Emilio Gadda (1893-1973)

Bibliografia:

Jules Verne, Mastro Zacharius, ed. Passigli.
Michel Tournier, Le meteore, Garzanti.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi.
Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti
Michel Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio.
Michel Serres, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche.
Norbert Wiener, Cibernetica, Il saggiatore.
Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, La nuova alleanza, Einaudi.
François Jullien, Il tempo, Luca Sossella editore.
Karl R. Popper, Conoscenza oggettiva, Armando editore.