Francesco Mauro: un inesplorato mistero napoletano

La mattina del 5 aprile 1893, in uno dei laboratori di chimica della Scuola d’Applicazione per gl’Ingegneri dell’Università di Napoli, sembra sia stato rinvenuto il corpo senza vita del Direttore, il chimico di origine lucana Francesco Mauro. La morte insolita di un esperto professore di 42 anni tra le provette del proprio laboratorio, contiene indubbiamente tutti i singolari connotati di un cold case, destinato ad affascinare il grande scrittore Ermanno Rea, che dei misteri napoletani ha fatto metafora, memoria e materia di avvincenti ricostruzioni. Del resto, la singolare scomparsa di Mauro rappresenta un inesplorato mistero napoletano della Chimica, al pari delle note vicende di Renato Caccioppoli nella Matematica, Federico Caffè nell’Economia e, con altri risvolti, Ettore Majorana nella Fisica. Storie che, a ben guardare, presentano inattese consonanze. Invero, gli unici documenti sulla morte di Francesco Mauro sono un resoconto dell’Annuario dell’Accademia dei Lincei, un accurato ma reticente necrologio su Il Mattino, il giornale diretto da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, ed una pagina di commemorazione in un giornale scientifico tedesco, che lo annoverava tra i componenti del suo comitato scientifico.

Ciò che colpisce è che, incredibilmente, nessuno a Napoli avvertì il bisogno di commemorare la prematura e drammatica scomparsa di un prestigioso professore, Accademico dei Lincei, allievo di Stanislao Cannizzaro, direttore in carica di quella che presto diventerà la prestigiosa Facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli. Senza figli e con una moglie francese troppo giovane, la memoria di Mauro sarebbe potuta essere preservata solo dai suoi illustri colleghi come Agostino Oglialoro-Todaro, e sua moglie Marussia Bakunin o dai promettenti allievi come Orazio Rebuffat, destinato a succedergli, ed Eugenio Scacchi, il figlio del suo mentore, l’illustre mineralogista pugliese Arcangelo Scacchi. Nel tempo, di Francesco Mauro non restarono che sempre più labili tracce.

Il primo serio tentativo di indagine biografica delle vicende umane e professionali di Francesco Mauro è rappresentato dal recente volume intitolato "Francesco Mauro, un chimico lucano" a cura di Maurizio D’Auria, Carmine Colella e Nicola Masini (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2014).

La copertina del volume “Francesco Mauro, un chimico lucano” a cura di Maurizio D’Auria, Carmine Colella e Nicola Masini (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2014)

 

I numerosi contributi di cui è composta questa antologia si prefiggono l’obiettivo comune di assegnare il posto che merita nella Storia della Chimica italiana ad uno dei primi allievi di Cannizzaro, agli albori del Regno d’Italia. Si tratta di un volume esemplare nella redazione, a cura di accademici esperti ed appassionati che non omettono di ricostruire le origini a Calvello, un paese arroccato alle pendici del monte Volturino non lontano da Potenza, nel cuore della Basilicata, dove Francesco Mauro era nato, il 4 novembre 1850 in una famiglia benestante di affermati avvocati e medici.

Calvello, nel cuore della Basilicata

 

Mauro si laureò a Napoli nel 1878, mentre, come assistente, già collaborava con Stanislao Cannizzaro, il venerato Maestro di un paio di generazioni di chimici italiani. L’incarico presso la Scuola di Applicazione per gl’Ingegneri di Roma gli era stato conferito grazie alla disponibilità del Direttore, il matematico Luigi Cremona, che ebbe un ruolo significativo nella riforma universitaria dopo l’Unità d’Italia.

Mauro ebbe presto modo di disimpegnarsi, contribuendo ad eleggere Cremona nel Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, al posto di Francesco Brioschi, altro illustre matematico del XIX secolo, a cui oggi è intitolato il Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano.

Francesco Mauro (1850-1893)

 

Il metodo di Cannizzaro di coinvolgere da subito i propri allievi nell’attività sperimentale, permise a gran parte di loro di conseguire presto i titoli per concorrere e spesso vincere le cattedre in diverse università, tanto che si parlò di colonizzazione da parte di Cannizzaro e della sua scuola della Chimica italiana.

La vicenda di Francesco Mauro ne rappresenta un caso esemplare. Dedicandosi, per conto di Cannizzaro, all’analisi chimica delle acque potabili, Mauro acquisì una rinomata competenza professionale che gli permise, dopo un artificioso concorso a cattedra a Torino, alla fine del 1883 di insediarsi come professore di Chimica docimastica (antesignana dell’attuale insegnamento di Scienza e tecnologia dei materiali) e direttore del relativo laboratorio, alla Regia Scuola di Applicazione per gl’Ingegneri dell’Università di Napoli. Qui si convertì allo studio innovativo dei prodotti di sintesi dei composti del molibdeno, in un ambiente accademico ricco di colleghi famosi come Agostino Oglialoro-Todaro, proveniente dalla scuola di chimica di Palermo, che a Napoli aveva trovato la compagna di vita e di lavoro Marussia Bakunin: la provvidenziale zia che tolse dai guai giudiziari il matematico ribelle Renato Caccioppoli.

Nel 1888, su segnalazione di Cannizzaro, entrò a far parte dell’Accademia dei Lincei, e nel contempo, ad ottobre, si sposò con la giovane Marguerite-Eugénie Didelot, originaria di un villaggio sulla Mosa, in Lorena, nei pressi di Verdun. La coppia andò a vivere nella casa di lui, a due passi dalla centralissima via Toledo.

Nel 1890, Francesco Mauro fu nominato Direttore, rimanendo in carica sino al 5 aprile 1893 quando, secondo la ricostruzione di un suo lontano parente, sembra sia stato rinvenuto morto in uno dei laboratori di chimica dell’Università, probabilmente, vittima - nonostante la grande esperienza - dei vapori tossici.

Nonostante questa romanzesca ricostruzione biografica, è innegabile che la prematura scomparsa sia stata indotta dall’uso di sostanze pericolose come l’acido fluoridrico, che costituì l’argomento prediletto dei suoi studi sperimentali, senza escludere la possibilità di una violenta infiammazione al fegato causata da avvelenamento da tallio, di cui fece uso per la sua ultima pubblicazione. E’ sepolto nel “recinto degli uomini illustri”, il settore del cimitero monumentale di Poggioreale a Napoli, riservato alle personalità eminenti.

Di Francesco Mauro si era persa nel tempo gran parte della memoria. Eppure, il suo ruolo significativo nella chimica italiana della fine dell’ottocento è testimoniata dall’alta considerazione dei suoi colleghi più illustri.

Un cenno all’attività di Mauro è stato ritrovato nelle bozze di un memoriale (mai pubblicato) di Emanuele Paternò, il chimico che sostituì Cannizzaro. Di solito poco tenero nei giudizi su i colleghi, Paternò lo giudicava «Sperimentatore abilissimo, entusiasta degli argomenti che trattava, buono, espansivo e talvolta irriflessivo; leale, sempre non tiepido amico del vero, la sua fine immatura fu dolorosa per gli amici e perdita non trascurabile per la chimica italiana».

Da questa accurata indagine biografica scopriamo che qualche traccia di Mauro emerge nella corrispondenza di Cannizzaro con Oglialoro. Nel maggio del 1889, il Maestro chiedeva notizie sui lavori di Mauro relativi ai composti metallici, sollecitando la presentazione di qualche nota per l’Accademia dei Lincei: «è dovere degli uomini di scienza non solo di lavorare ma anche di far conoscere ed apprezzare i propri lavori».

Questo monito era indirizzato in realtà proprio ad Oglialoro che, al contrario di Mauro, nel periodo napoletano, si dedicò quasi esclusivamente all’insegnamento e agli impegni istituzionali, tralasciando quasi del tutto la ricerca.

Dalle pubblicazioni scientifiche catalogate nel volume, risulta che Mauro ha prodotto significativi risultati scientifici, mettendo a frutto la sua eccellente abilità sperimentale. La sua attività si era concentrata inizialmente su tematiche proprie della chimica analitica applicata allo studio delle acque, che gli valse la stima professionale dei colleghi, che gli si rivolgevano per ottenere delle analisi, eseguite senza contropartite per quella generosità che caratterizza i migliori professori universitari. Nonostante alcune congetture, non è chiara la sua successiva conversione allo studio rischioso della sintesi dei composti del molibdeno. Questa tecnologia - ancora oggi promettente campo di ricerca - dovette affascinarlo per le innovative competenze sperimentali richieste.

Tuttavia non dobbiamo pensare che Mauro fosse un grande sperimentatore, destinato a svolgere esclusivamente attività di laboratorio. In un tempo in cui erano appena stati riposti in cantina gli ingombranti volumi, dal titolo evocativo di "Catechismo di Fisica, di Chimica e di Botanica" di Francesco Saverio Scarpati, e "Teoria dei Miracoli", ovvero la dimostrazione matematica dell’esistenza di Dio, di Vincenzo Flauti, l’attività didattica di Mauro era indirizzata a gestire la transizione dalla cosiddetta "chimica degli assaggi" a quella che sarebbe diventata la Scienza e tecnologia dei materiali. La qualità del suo insegnamento emerge non solo dai programmi riportati negli annuari universitari, ma anche da un documento piuttosto insolito scovato da uno degli autori della ricerca biografica: un quaderno di appunti del corso svolto da Francesco Mauro nell’anno accademico 1884-85, conservato nel fondo manoscritti presso la Biblioteca civica di Varese.

In tempi più recenti, il fatto che Mauro non fosse stato dimenticato del tutto emerge dal discorso, che Raffaello Nasini pronunciò celebrando Cannizzaro a Palermo nel 1926. In un paragrafo del discorso intitolato "Il Maestro", nel citare quelli che a suo parere erano stati i discepoli più importanti di Cannizzaro, non omise di menzionarlo.

Francesco Mauro, dunque, rappresenta un significativo rappresentante di quel progetto che mirava a rinnovare le università italiane, per renderle il motore dello sviluppo del Paese. E questa biografia non solo gli rende merito, ma risulta anche un buon libro, o meglio un libro buono, per essere riuscito a recuperare dal dimenticatoio la figura di una personalità eminente dell’Italia appena unificata.

Inoltre, il volume si rivela anche un libro necessario, poiché offre una bandiera al movimento ecologista impegnato in Basilicata a pretendere che lo sviluppo si concili con il rispetto della salute. Un’antologia di contributi scientifici e nel contempo un testo di letteratura civile, necessario in una regione meridionale da tempo in predicato di ospitare la discarica di tutte le scorie nucleari italiane, dopo le devastazioni ambientali realizzate in Val d’Agri dall’estrazione del petrolio.

Un manuale a cui attingere per approfondire le condizioni iniziali dell’evoluzione della Chimica italiana, soprattutto per i dettagli sulla genealogia ed il processo di colonizzazione nelle diverse Università dell’Italia in via di ristrutturazione, da parte della scuola dei migliori allievi di Cannizzaro.

Un volume biografico che ci induce a meditare sui rischi della ricerca, che rappresenta un dato costante nella storia della scienza, come nel caso delle pratiche alchemiche di Isaac Newton, "l’ultimo dei maghi", come lo definì l’economista John Maynard Keynes. Le biografie più recenti ci hanno rivelato una singolare ossessione per i temi alchemici da parte di chi - icona del razionalismo - fu capace di svelare «sotto l'etereo padiglion rotarsi / piú mondi, e il Sole irradîarli immoto, / onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento», recuperando la definizione di Ugo Foscolo ne "I Sepolcri".

Newton ritratto senza parrucca da James Thornhill nel 1710

 

In queste biografie, Newton viene presentato con una personalità patologicamente misantropa, ossessionata, sino alla paranoia, dal furto delle idee da parte dei colleghi. Atteggiamenti che si è suggerito ascrivibili ad una patologia psichiatrica. Anche se, nel 1979, alcuni esami tossicologici di alcuni campioni di capelli verosimilmente appartenuti a Newton, ci hanno rivelato una ragione diversa: l’intossicazione da mercurio, arsenico ed antimonio. I risultati delle analisi chimiche sono apparsi controversi e, probabilmente, un risultato risolutivo potrebbe essere raggiunto impiegando metodi di analisi radiometriche, analoghe a quelle utilizzate per verificare l’avvelenamento di Napoleone Bonaparte.

La regola di combinazione alchemica, per la creazione del regale oro per mezzo dei sette metalli fondamentali estratti dal caos, illustrata nel “Della Tramutatione Metallica” (1564) di Giovanni Battista Nazari, una delle prime applicazioni inconsapevoli della teoria dei grafi

 

Nel caso di Newton, la congettura di un’intossicazione è confermata da una sua lettera a John Locke del 15 ottobre 1693, in cui Newton rivela di aver inalato tutto l’inverno precedente i fumi che uscivano dalle fornaci in cui scaldava i preparati metallici, che non disdegnava di assaggiare, incurante dei rischi. Una sottovalutazione del pericolo tipica degli esperti, aggravata dal fatto che Newton condivide il peccato per cui fu condannato Galileo: l’empia hybris positivista sul potere della conoscenza scientifica. Un peccato antico, come ci conferma la sconfinata presunzione di don Ferrante, il prototipo dell’eclettico erudito de "I Promessi sposi", che nega il contagio e non prende alcuna precauzione per evitare la peste, nella fiducia perversa che il privilegio di orientarsi in un mondo di carta sia sufficiente a scongiurare ogni danno, convinto che «La peste dipende dall’ignoranza. Noi siamo immuni, abbiamo una grande biblioteca. Qui abita la Scienza!» In ogni caso, i rimedi pratici del tempo non erano consigliabili. Alessandro Manzoni ci rivela che nel Seicento, a Milano, contro la peste «portavano alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po’ d’argento vivo [ossia mercurio], persuasi che avesse la virtù d’assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni».

La morte bianca di Francesco Mauro risulta tragicamente emblematica per chi di mestiere è impegnato a studiare con cautela le innovazioni "bleeding edge", in pratica tante tecnologie di punta, dal fuoco agli alchemici metalli più pesanti del ferro, sino alla radioattività nucleare, indispensabili per il progresso, ma non prive di rischi.

Occorre far tesoro della sapienza degli antichi. L’archetipo della nemesi dell’aquila che tortura incessantemente il fegato dell’empio Prometeo, rappresenta una forma antica del presente ragionare, che ci assicura che la nocività di molti metalli pesanti - impiegati con successo in diversi dispositivi elettronici d’avanguardia - si concentra essenzialmente nel fegato. Al giorno d’oggi, tra le tante sostanze inquinanti, i metalli pesanti sono i più nocivi, in quanto si legano con le strutture cellulari in cui si depositano, ostacolando lo svolgimento delle funzioni vitali. A volte anche il poco è troppo, anche se un danno biologico è stato accertato per concentrazioni che superano la soglia di pochi decimi di milligrammo per metro cubo.

Il caso di Francesco Mauro rappresenta una lezione ancor più utile per chi ha il dovere di tutelare nelle università la salute degli studenti e dei ricercatori, impedendo che si ripeta la vicenda di un dottorando di ricerca di Catania, morto di tumore al polmone a ventinove anni nel 2003, a causa del sospetto, in un suo diario, di aver respirato quotidianamente per anni esalazioni tossiche, in laboratori senza adeguata areazione per le cappe aspiratrici malfunzionanti. Una dolorosa vicenda alla base di un processo per contaminazione ambientale e che ha ispirato il documentario "Con il fiato sospeso" diretto da Costanza Quatriglio, presentato fuori concorso alla LXX Mostra internazionale d'arte cinematografica della Biennale di Venezia nel 2013, ottenendo il Premio intitolato a Gillo Pontecorvo.

La cosa più sconvolgente è che notizie analoghe continuano a diffondersi ancora oggi, inducendoci a riconsiderare la reale portata del fenomeno dei volenterosi studiosi, in perenne ricatto accademico, costretti a svolgere le loro ricerche in ambienti insalubri, dove si consuma il più alto dei tradimenti perché riguarda giovani che non vogliono rinunciare al loro sogno, in un Paese incapace di salvaguardare il proprio futuro.

Singolarmente, apprendiamo da questa biografia di Mauro che, proprio in Sicilia, a Palermo, nel 1883, erano state progettate delle cappe di aspirazione innovative, concepite per evitare che vapori nocivi si disperdessero nei laboratori. Come Maurizio D’Auria, Carmine Colella e Nicola Masini ricordano nel volume "Francesco Mauro, un chimico lucano": «Confrontate con le nicchie di evaporazione presenti nei nuovi laboratori tedeschi, più piccole e completamente incassate a muro, queste cappe erano interamente in vetro, sorrette da un telaio di legno, e grandi abbastanza da contenere, tra l’altro, un apparecchio per la distillazione; queste strutture, segno di una certa evoluzione funzionale, consentivano, non solo una piena illuminazione e una buona visuale, ma anche l’accesso dell’operatore, attraverso le finestre laterali, senza dover rimuovere la lastra frontale di protezione».

Prototipi che furono presto esportati nelle altre università italiane ed anche all’estero, progressivamente perfezionate con attenzione prima da Cannizzaro, poi dai suoi allievi, come Francesco Mauro, che si distinse nell’allestimento del suo laboratorio, anche se il suo impegno non fu sufficiente.

Una lezione che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.