I due emisferi di Magdeburgo nell'analisi di Jean-Marc Lévy-Leblond
Nel 1654, Otto von Guericke realizzo una spettacolare esperienza che suscitò viva impressione sui suoi contemporanei – la “Grande Esperienza di Magdeburgo”. Von Guericke unì due semisfere di ottone, rifinite con molta cura, in modo da formare una sfera di circa 80 cm di diametro; all'interno di essa fu fatto il vuoto con una macchina pneumatica inventata dallo steso Guericke. Le due semisfere si trovarono allora saldate l'una contro l'altra con una tale forza che un doppio tiro di sedici cavalli non riuscì a separarle.
La sfera umana oggi è di tal fatta. Le sue due facce, quella del potere e quella della conoscenza, si sono unite e il vuoto tra esse si è fatto così perfetto che nulla può separarle. Tra la socio-politica e la tecno-scienza, ormai, nessuna distanza; il finanziamento, la gestione, l'orientazione delle istituzioni scientifiche dipendono direttamente dalla politica; le applicazioni e le implicazioni della ricerca sono immediatamente di natura sociale, politica, economica, militare. L'accoppiamento diretto del sapere e del potere ha eliminato le mediazioni complesse, le causalità reciproche, i relais multipli che permettevano d'agire sulle loro relazioni: spariti gli spazi, e anche le fratture dove potevano introdursi forze capaci di modificare questo dispositivo globale. Decisioni collettive deliberate o influenze sociali contingenti, niente sembra in grado di scuotere l'autonomia apparente d'un complesso politico-industriale-tecnico-scientifico che è in procinto di assestare la propria egemonia sul pianeta. L'impresa della razionalità produttivista s'estende adesso al secondo e terzo mondo. Non vi si sottraggono neanche i contro-movimenti utopisti: il verde dell'alternativa ecologica si confonde con quello del dollaro per divenire il colore simbolico e pubblicitario del nuovo spiegamento industriale (Make cash out of trash, dicono da tempo oltre-Atlantico).
L'universalità del sistema e la sua flessibilità garantiscono la sua solidità, fondata sulla coesistenza rassegnata e confortevole delle libertà individuali e dell'incompetenza collettiva. Il dispotismo dichiarato fu un modello d'organizzazione notevole per efficacia e stabilità. Il suo simmetrico, la democrazia spenta, non è da meno. Presa tra un potere ed un sapere saldati l'un l'altro, in una sfera vuota e opaca, il nostro respiro si fa corto e la nostra visione s'accorcia. Passato il tempo delle illusioni sulla conquista del potere e la padronanza del sapere, possiamo noi almeno disserrare il loro abbraccio? Dare del gioco alle semisfere di Magdeburgo non è il modo di farvi entrare dell'aria, di ristabilire la pressione e di permettere il movimento? Questo gioco, quest'aria, questo movimento chiamiamole “le culture”. E, sotto questa parola, intendiamo il tempo della storia, affinché il presente apparentemente ineluttabile dello sviluppo tecno- scientifico riveli la sua contingenza tra passato e futuro; la diversità dei modi d'agire e di pensare, affinché l'egemonia della tradizione occidentale non impoverisca irrimediabilmente il patrimonio plurale delle civiltà; il confronto delle opere umane, nel rispetto della loro alterità, tanto è vero che sono le loro differenze, e non le loro illusorie convergenze, che danno valore alle arti e alle scienze.
Comprendiamo il mondo, sempre meglio, grazia alla scienza, e lo trasformiamo, sempre di più, grazie alla tecnica. Non è certo che comprendiamo e trasformiamo abbastanza la scienza e la tecnica. Manchiamo, al riguardo, del giusto punto di vista, non convenzionale, della salutare ironia attraverso la quale il reale cessi di sembrare naturale. Gli scienziati, i tecnici hanno un bisogno vitale, per cui non bisognerebbe attendere che diventi disperato, dello sguardo e della parola degli altri – e in primo luogo di creatori di parole, d'immagini, d'idee. Scrittori, pittori, musicisti, filosofi sicuramente, per poco che essi se ne preoccupino o vi s'interessino, hanno a dire e a mostrare il senso, il valore, i limiti delle scienze e della tecnica – e non solamente prendere loro a prestito forme e utensili.
Oseremo pensare ad una poetica della scienza? All'orizzonte, un gaio sapere.
Jean-Marc Lévy-Leblond (traduzione di Enrico Pontorno)