Il "Diogene" del Parmigianino. Alchimia e geometria

 

Il Diogene del Parmigianino.
Alchimia e geometria

Il Diogene inciso nel 1527 su invenzione del Parmigianino (1503-1540)1 è stato oggetto di letture che hanno trascurato proprio ciò di cui il filosofo mostra di occuparsi e che merita attenzione perché centrale nell’elaborazione intellettuale dell’artista.

 

Gian Giacomo Caraglio (?) su invenzione del Parmigianino, Diogene

 

L’identità di Diogene è riconoscibile dagli attributi alle spalle del personaggio: la lanterna che si associa al detto " cerco l’Uomo ", la botte dell’incontro con Alessandro Magno e il pollo spennato che Diogene avrebbe mandato per beffa a Platone che aveva definito l’uomo " animale bipede, senza piume ". Diogene, ignudo, siede frontalmente su un masso squadrato, la pelliccia trattenuta sul petto all’altezza del cuore gli copre in parte il torace. È assorto nella lettura di un libro appoggiato per terra cui funge da leggio un altro volume, e accompagna con la torsione del busto il gesto del braccio destro che indica con una bastoncino l’illustrazione di un dodecaedro sulla pagina di un terzo libro ai suoi piedi. Una folata d’aria gonfia il manto alle spalle e gli scompone i capelli, non però (incongruenza curiosa) le pagine dei libri. A evidenza la lettura all’origine della sua grande tensione interiore ha come oggetto il dodecaedro.

 

Particolare del libro con dodecaedro

 

I due Diogene

Prima di occuparcene a nostra volta, occorre tener presente che nel Rinascimento sull’identità di Diogene detto il Cinico si faceva non poca confusione, se del filosofo originario di Sinope vissuto nel IV secolo a. C. si poteva far tutt’uno con Diogene di Apollonia, un fisico della scuola ionica vissuto un secolo prima. La con-fusione del Diogene presocratico con Diogene il Cinico era confortata dal commento al De civitate Dei (VIII 2) di sant’Agostino, opera delle più lette in ambiente umanistico, dove egli accenna al pensiero filosofico della scuola ionica. " Anche Diogene – scrive sant’Agostino –, l’altro uditore [insieme ad Anassagora] di Anassimene, disse certo che l’aria è la materia delle cose, da cui tutte le cose derivano, ma la dotò di ragione divina perché senza questa niente poteva derivarne "2. " Questo Diogene – annota la glossa – è detto il cinico cioè canino "3.

Alla confusione c’è da aggiungere un altro dato importante, l’esistenza di un leggendario Diogene alchimista. Nella ricostruzione della leggenda4, si è rilevata nel trattato sull’alchimia del medico Pietro Bono da Ferrara Margarita Pretiosa Novella (1330), volgarizzato nel Quattrocento, la presenza fra le autorità dell’alchimia, insieme a Ermete Trismegisto " padre e profeta de filosofi ", Democrito, Pitagora, Platone, Aristotele e a molti altri alchimisti greci, latini e arabi, di un Diogene del quale non si indica la patria5. Pietro Bono seguiva una tradizione che si fa risalire al De arte sacra di Olimpiodoro di Alessandria l’alchimista (IV secolo), in cui l’autore menziona il fisico presocratico Diogene di Apollonia che, come s’è visto, riteneva principio di tutte le cose l’"aria". Dunque non si trattava di Diogene di Sinope né di un alchimista, tuttavia il testo dell’alchimista Olimpiodoro sarebbe diventato una delle fonti che consentì il nascere della leggenda di un Diogene il Cinico alchimista. Per la vita appartata e solitaria, il distacco dai beni mondani, la riduzione dei bisogni all’essenziale, Diogene il Cinico rispondeva all’ideale dell’alchimista che opera non per avidità di ricchezze, rifiuta le ricompense e i privilegi dei principi e antepone a tutto la ricerca in solitudine della conoscenza e della Sapienza6. Nella con-fusione, pertanto, Diogene il Cinico avrebbe potuto occuparsi di fisica, non di matematica e geometria euclidea, un dato da tener presente per il dodecaedro dell’invenzione del Diogene.

 

Il dodecaedro

Come è noto, il giovane Parmigianino s’interessava all’alchimia e negli ultimi anni della sua breve vita era diventato un alchimista di laboratorio: " stillando cercava l’archimia dell’oro et non si accorgeva lo stolto, ch’aveva l’archimia nel far le figure " – scriveva il Vasari non senza irritazione e rammarico nella prima edizione delle Vite (1550)7. Questo può spiegare l’incontro con la tradizione del Diogene alchimista in scritti di alchimia in cui non se ne indicava la patria, mentre come abbiamo visto il fisico di Apollonia e il Cinico di Sinope erano diventati una sola persona. Di qui nell’invenzione del Diogene l’importanza del motivo della folata d’aria, messa in evidenza dal gonfiarsi impetuoso del mantello, nella misura in cui potrebbe evocare quell’"aria" che per il fisico Diogene era il principio materiale di tutte le cose, dotato di ragione divina. In tal caso il motivo, oltre che espediente formale di movimento e di spazio, sarebbe da considerare un attributo del filosofo.

Quanto alla presenza del dodecaedro nel Diogene, la scarsa attenzione prestatagli non può non sorprendere. Nessuno studioso sembra aver rilevato sino ad oggi la sua derivazione dalle tavole, tratte da disegni di Leonardo, del Compendio de la divina proportione di Luca Pacioli, pubblicato a Venezia nel 1509, dalla figura del dodecaedro " piano solido " con ombre a chiaroscuro e, come questa, illustrazione della pagina di un libro che nell’incisione appare scorciata dalla disposizione in prospettiva del volume. La stessa cosa vale per l’altra pagina: quantunque dato il taglio della composizione ne sia resa solo una parte, su di essa appare tracciato nella tipica, ben riconoscibile, schematizzazione leonardiana un poliedro " vacuo " che l’incompletezza della raffigurazione non consente di identificare. Ora, identificata la fonte figurativa del dodecaedro, si può comprendere di più e meglio l’invenzione del Parmigianino.

Fra Luca Pacioli (1445/1450 circa - 1517) originario di Borgo San Sepolcro8, teologo francescano, conterraneo del pittore e matematico Piero della Francesca, è il famoso autore della Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalita, stampata a Venezia nel 1494, enciclopedia del sapere matematico del tempo, dall’aritmetica all’algebra, alle operazioni commerciali, alla geometria. Il suo ritratto ci è pervenuto in una magnifica tavola del 1495 oggi a Capodimonte.

 

"IACO.BAR." , Fra Luca Pacioli e un discepolo, 1495,
Napoli, Gallerie di Capodimonte

 

È noto il sodalizio intellettuale di Pacioli con Leonardo. Nel 1496 il matematico è chiamato all’insegnamento pubblico a Milano dal duca Ludovico Sforza al quale nel 1498 dedica il trattato De la divina proportione, con sessanta figure a piena pagina dei cinque corpi regolari – tetraedro, ottaedro, esaedro, icosaedro, dodecaedro – e dei loro dipendenti, disegnati in prospettiva da Leonardo. A stampa l’opera doveva uscire undici anni dopo.

 

Leonardo (?), Dodecaedro piano solido e dodecaedro piano vacuo,
in L. Pacioli, Divina Proportione, Milano, Biblioteca Ambrosiana

 

Nel portare argomenti a dimostrazione della " divinità " della proporzione, intesa come virtù informativa dell’universo creato secondo " numero peso e misura ", Pacioli rifacendosi alla cosmologia del Timeo (53a-56a) osserva: " Sì commo Idio l’essere conferesci a la Virtù Celeste per altro nome detta quinta essenza, e mediante quella a li altri quatro corpi semplici, cioè li quatro elementi, Terra, Aqua, Aire e Fuoco, e per questi l’essere a cadauna altra cosa in natura, così questa nostra sancta proporzione l’esser formale dà (secondo l’antico Platone in suo Timeo) a esso cielo, atribuendoli la figura del corpo detto Duodecedron, altramente corpo de 12 pentagoni, el quale commo de sotto se monstrarà senza la nostra proporzione non è possibile poterse formare "9. E ancora: " La forma del 12 basi pentagone [ Platone ] atribuì al cielo sì commo a quello che è receptaculo de tutte le cose. Questo duoedecedron el simile fia receptaculo e albergo de tutti gli altri 4 corpi regulari commo apare in le loro inscriptioni uno in l’altro "10.

 

La quintessenza cosmica

Dunque, secondo il pensiero neoplatonico del Pacioli, la quinta essenza è la virtù celeste di origine divina che dà vita all’universo. Il cielo/quinta essenza/quinto elemento ha la forma del dodecaedro che è strutturato dalla " sancta " proporzione; esso è il " ricettacolo " vitale dei quattro elementi empedoclei – fuoco, terra, aria, acqua –, corpi semplici che partecipano della quinta essenza e sono informati dalla proporzione del dodecaedro, ricettacolo appunto dei quattro corpi regolari euclidei, secondo le corrispondenze tetraedro-fuoco, esaedro terra, ottaedro-aria, icosaedro-acqua. Dagli elementi semplici si genera in natura ogni altra cosa del mondo animale, vegetale, minerale soggetto al ciclo della generazione e corruzione, mentre la struttura delle cose è generata dai corpi regolari e da quelli da loro dipendenti con infinite combinazioni sempre regolate dalla proporzione. Con una metafora attinta dalla pratica distillatoria non senza implicazioni di filosofia naturale il Pacioli dice in proposito: " da quelli 5 [corpi] regulari la virtù [della proporzione] sempre negli altri dependenti se distilla a similitudine de li 5 [corpi ] semplici che alla formatione de ogni creato composto concorrano "11.

 

L. Pacioli, Divina Proportione, Venezia 1509, tavv. XXVII - XXVIII,
Dodedcaedro piano solido e dodecaedro piano vacuo

 

Dopo quanto abbiamo visto, nel Diogene non è un matematico euclideo a occuparsi del dodecaedro bensì un filosofo della natura, un fisico, di conseguenza la figura sulla quale egli punta il bastoncino, indicando l’oggetto della propria riflessione filosofica e sollecitando l’attenzione dell’osservatore, è la figura dell’incorruttibile cielo/quinta essenza di origine divina – come nella cosmologia platonica del Pacioli dal quale Parmigianino dipende. Ora, dato l’orizzonte culturale e operativo di Parmigianino, non possiamo ignorare che nella dottrina alchemica, facendo forza alla fisica aristotelica che non ammette alcunché d’incorruttibile nel mondo sublunare soggetto a corruzione e generazione, la quinta essenza, è il legame "spirituale" e vitale da cui dipende l’unità degli elementi portati alla semplicità originaria nella pietra filosofale, "pietra" che è la sostanza di trasmutazione dei metalli nel composto perfetto dell’oro e medicina dei corpi. Concettualmente l’immagine del dodecaedro si collega al motivo iconografico dell’"aria", che come si è visto poc’anzi per il presocratico Diogene era il principio divino di tutte le cose. Ebbene, se col motivo dell’"aria" Parmigianino fa allusione al soffio del principio vitale, col dodecaedro indicato da Diogene ne mostra appunto la " figura ", mentre con la sua mano portata al cuore ne suggerisce la valenza ignea pneumatica.

Il Diogene non solo attesta la ricezione nell’iconografia (caso unico forse) della con-fusione del fisico di Apollonia e del Cinico di Sinope nella figura di un Diogene alchimista, un dato che appartiene alla storia della cultura filosofica e dell’alchimia, ma quel che più conta è che con la sua invenzione il Parmigianino introduce nella tradizione iconografica dell’immaginario alchemico l’immagine simbolica del dodecaedro/quintessenza, destinata a non restare un caso isolato. Infatti, in campo teorico, la saldatura della cosmologia dei poliedri platonici all’alchimia doveva operarsi nel trattato illustrato Philosophia pyrotechnica di William Davidson (Parigi 1635)12. Si può concludere sottolineando la rilevante importanza dell’immagine del dodecaedro del Diogene, frutto dell’appropriazione di un contenuto simbolico mutuato dalla cosmologia platonica e associato alla scienza degli elementi dell’alchimia, in una sintesi concettuale nella quale si riconosce il ruolo primario avuto dalla Divina proportione di fra Luca Pacioli.

 

Note

1 Cfr. Roma e lo stile classico di Raffaello 1515-1527, a cura di K. Oberhuber, catalogo della mostra a cura di A. Gnann, Milano 1999, cat. 302. Diogene, incisione su rame, 286x216mm, monogramma in basso a sinistra su una pietra (Vienna, Graphische Sammlung Albertina, Alb. It. I. 25, p. 51, inv.61), p. 397, con attribuzione (da riconsiderare) a Gian Giacomo Caraglio. Altra versione dell’invenzione del Parmigianino è la grande xilografia del Diogene di Ugo da Carpi, il suo più bell’esempio di "chiaroscuro", cfr. cat. 301. Sul pittore: P. Rossi, L’opera completa del Parmigianino, Milano 1980.

2 De civitate Dei, commento di Th. Valois e N. Triveth, ed. cons. Venezia 1489, VIII, 2, f. n8v: " Diogenes quoque Anaximenis alter auditor aerem quidem dixit rerum esse materiam: de qua omnia fierent: sed eum esse compotem divine rationis: sine qua nihil ex eo fieri posset."

3 Ibidem: " Iste Diogenes dictus est cynicus id est caninus quia publice utendum esse uxoribus docuit ut patet infra lib. 14 ca. 20. […] Constat autem ipse fuisse tempore Alexandri magni ut patet per Hieronymum li. 2 contra Iovinianum […]. Et etiam fuit tempore Platonis ut patet per Tertullianum in apologetico."

4 Cfr. S. Matton, "Diogène alchimiste", in Chrysopœia, Tome V, 1992-1996, pp. 675-686, in particolare pp. 678-680.

5 Pietro Bono da Ferrara, Preziosa Margarita Novella, Edizione del volgarizzamento, introduzione e note a cura di C. Crisciani, Firenze 1976, cap. XV, p. 183. Su Bono e la sua opera, portata a termine nel 1330 a Pola dove esercitava la professione medica come salariato del Comune, nonché sulla fortuna della stessa nel Rinascimento, si veda l’introduzione, pp. IX-LVI. Per un aggiornato profilo storico dell’alchimia: M. Pereira, Arcana sapienza. L’alchimia dalle origini a Jung, Roma 2001, con bibliografia.

6 Cfr. Matton, "Diogène" cit., p. 685.

7 Nelle Vite del 1568 Vasari scrive che Parmigianino " avendo incominciato a studiare le cose dell’alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto arricchire, congelando mercurio. Perché stillandosi il cervello, non con pensare belle invenzioni né con i pennelli o mestiche, perdeva tutto il giorno in tramenare carboni, legne, bocce di vetro. " Cfr. le due edizioni della Vita di Francesco Maria Mazzola in M. Fagiolo dell’Arco, Il Parmigianino. Un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento, Roma 1970, pp. 223-236; lo studioso dà un’interpretazione del Diogene come alchimista (p. 69) senza alcun cenno alla tradizione nella letteratura alchemica e all’illustrazione del dodecaedro.

8 Su Pacioli si veda: Luca Pacioli e la matematica del Rinascimento, catalogo della mostra a cura di E. Giusti e C. Maccagni, Firenze 1994; inoltre, Luca Pacioli e la matematica del Rinascimento. Atti del convegno internazionale di studi (Sansepolcro 1994), a cura di E. Giusti, Città di Castello 1998.

9 Divina proportione, Venezia 1509, cap. V, "Del condecente titulo del presente tractato", f.4r.

10 Ibidem, cap. LV, f. 17r.

11 Ibidem, f. 16r. Quindi Pacioli prosegue: " Per la qual cosa (commo de sopra fo acenato) Platone fo constretto le prelibate 5 forme regulari ali 5 corpi semplici atribuire cioè ala terra aiere aqua fuoco e cielo commo difusamente apare nel suo Thimeo dove de la natura de l’universo trattò."

12 Su di esso si veda J.-P. Brach, "Deux exemples de symbolisme géométrique dans des textes alchimiques du XVIIe siècle", in Alchimie: art, histoire et mythes, Actes du 1er colloque international de la Société d’Étude de l’Histoire de l’Alchimie (Paris 1991), a cura di D. Khan et S. Matton, Textes et Travaux de Chrysopœia, 1, Paris-Milano 1995, pp. 717-735, qui pp. 718-728.