L’enigma dei raggi cosmici
Cento anni fa il fisico austriaco Victor Hess saliva a oltre 5000 metri di quota a bordo di un pallone trasportando con sé una serie di strumenti per misurare la ionizzazione dell’aria. Hess era uno studioso di radioattività e di elettricità atmosferica, incuriosito da un fenomeno frequentemente rilevato già nel corso dell’Ottocento: gli elettroscopi, pur accuratamente isolati, continuavano a scaricarsi segnalando la presenza di cariche elettriche che ionizzavano l’aria all’interno degli schermi metallici. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento erano stati scoperti i raggi X e l’emissione spontanea di radiazioni ionizzanti di vario tipo da parte di elementi radioattivi come l’uranio. Appariva naturale pensare che una radiazione così penetrante provenisse dalla crosta terrestre, ricca di minerali di questo tipo.
Nel 1910 Theodore Wulf aveva misurato la ionizzazione in cima alla Torre Eiffel trovando un valore superiore a quanto ci si sarebbe dovuto aspettare se l’effetto fosse stato da attribuire soltanto alla radiazione emessa dal suolo. Altri scienziati montarono i loro strumenti su palloni per registrare la ionizzazione a livelli ancora superiori, ma i risultati non furono conclusivi a causa della strumentazione inadeguata. Per oltre un decennio, esperimenti condotti da fisici di vari Paesi europei portarono a risultati contraddittori. Utilizzando strumenti in grado di sopportare gli sbalzi di temperatura e pressione caratteristici delle quote elevate, il fisico austriaco Victor Hess organizzò tra il 1910 e il 1913 una decina di spedizioni in pallone trovando che inizialmente la ionizzazione diminuiva con l’altitudine, ma poi iniziava ad aumentare rapidamente. All’altezza di varie miglia, la ionizzazione risultava molto maggiore di quella presente sulla superficie terrestre. Un esperimento decisivo fu effettuato da Hess il 7 agosto del 1912. Il pallone volò per due ore e mezza, superando la quota di 5.000 metri: a quelle altitudini la ionizzazione risultò doppia rispetto ai valori misurati a terra. Hess fu quindi in grado di trarre la seguente conclusione: “I risultati delle mie osservazioni si spiegano meglio assumendo che una radiazione di alto potere ionizzante entri dall’alto nella nostra atmosfera”. Voli successivi effettuati dal tedesco Werner Kolhörster confermarono che la radiazione penetrante a 9 chilometri di altezza era 10 volte superiore a quella a terra e che la sua capacità di essere assorbita da schermi metallici risultava di gran lunga inferiore rispetto a quella dei raggi gamma di origine naturale, i più penetranti conosciuti all’epoca.
Victor Hess nel 1912, in procinto di partire con il suo pallone aerostatico
Seppure insignito soltanto nel 1936 del premio Nobel per la Fisica, Victor Hess è universalmente considerato lo scopritore della radiazione extraterrestre, che lui stesso aveva inizialmente denominato Höhenstrahlung (radiazione dall’alto) e che successivamente il fisico americano Robert Millikan aveva felicemente ribattezzato raggi cosmici. Tuttavia negli stessi anni, e perfino con qualche anticipo rispetto a Hess, l’italiano Domenico Pacini era giunto indipendentemente alle stesse conclusioni seguendo una linea di ricerca del tutto diversa.
Domenico Pacini era nato il 20 febbraio 1878 a Marino (Roma) e si era laureato in Fisica nel 1902 all’Università di Roma, dove aveva lavorato per qualche tempo come assistente di Pietro Blaserna, direttore dell’Istituto di Fisica di via Panisperna, da lui stesso progettato secondo i più moderni dettami dell’epoca e destinato ad ospitare negli anni ’30 Enrico Fermi, Franco Rasetti e il gruppo dei loro giovanissimi collaboratori. Nell’agosto del 1905 Pacini ottenne un posto di ruolo come assistente al Regio Ufficio Centrale di Meteorologia e Geodinamica, da cui si dimise nel 1928, quando ebbe un incarico all’Università di Bari, dove divenne direttore dell’Istituto di Fisica. Il contributo di Domenico Pacini alla Fisica riguardò inizialmente aspetti geofisici come lo studio della radiazione solare, del magnetismo terrestre e della meteorologia. Le sue ricerche sulla conducibilità elettrica attraverso i gas gli permisero successivamente di acquisire una profonda competenza della strumentazione necessaria a misurare i bassi livelli di ionizzazione che si riscontrano nel campo della radioattività ambientale e dell’elettricità atmosferica.
Domenico Pacini nel maggio del 1910
Furono proprio queste conoscenze che gli consentirono di portare un contributo estremamente originale nell’ambito dell’enigma della ionizzazione residua all’interno degli schermi che racchiudevano gli elettroscopi. Nel periodo dal 1907 al 1911, Pacini effettuò diverse misure sistematiche della conducibilità dell’aria. Per stabilire la variazione della velocità di scarica di un elettroscopio – e quindi dell’intensità della radiazione – Pacini effettuò una serie di misure sulla superficie terrestre e confrontò questi dati con quelli ottenuti sulla superficie del mare, nel golfo di Livorno, rilevati a bordo del cacciatorpediniere “Fulmine” (una nave della Marina Militare italiana).
Studi accurati dimostrarono che la ionizzazione sulla superficie del mare, a 300metri dalla spiaggia, era circa due terzi della ionizzazione a terra. In disaccordo rispetto al punto di vista dominante all’epoca, i risultati supportavano sostanzialmente l’idea che una parte non trascurabile della radiazione penetrante fosse indipendente dall’emissione del suolo. Pacini concluse coraggiosamente, che “dai risultati qui ottenuti appare che una parte non piccola della radiazione penetrante presente nell’aria, e in modo particolare quella parte che è soggetta ad oscillazioni anche notevoli, ha origine indipendente dall’azione diretta delle sostanze attive contenute negli strati superiori della crosta terrestre”. L’anno successivo, nel giugno 1911, Pacini mise a punto una tecnica per misurare l’intensità della radiazione in profondità racchiudendo l’apparecchio in una scatola di rame per poterlo immergere alla profondità di 3 metri dalla superficie del mare (e a 8 m di distanza dal fondo). Eseguì l’esperienza a 300 metri dalla costa livornese, nello stesso luogo dell’anno precedente. Con lo stesso dispositivo eseguì nuove osservazioni di questo tipo anche nel lago di Bracciano, a nord di Roma, trovando di nuovo che la radiazione si attenuava di circa il 20% in profondità, in linea con l’assorbimento da parte dell’acqua di una radiazione proveniente dall’esterno. Pacini fu quindi in grado di mettere in evidenza che nelle condizioni in cui erano state condotte entrambe le esperienze “l’azione della superficie e quella del fondo erano trascurabili. La spiegazione sembra essere che, a causa del potere assorbente dell’acqua e della quantità minima di sostanze radioattive in mare, l’assorbimento della radiazione proveniente dall’esterno avviene, dunque, quando l’apparecchio è immerso”.
In questo stesso periodo, Hess stava studiando l’andamento della radiazione con l’altezza scoprendo che l’elettroscopio si scaricava più velocemente con l’aumentare dell’altitudine. Questi risultati confermavano quanto Pacini stesso aveva scoperto nell’ultima serie di osservazioni riguardo l’esistenza nell’atmosfera di “una sensibile causa ionizzante, con radiazioni penetranti, indipendente dall’azione diretta delle sostanze radioattive nel terreno”. La nota di Pacini intitolata “La radiazione penetrante alla superficie ed in seno alle acque”, pubblicata sul Nuovo Cimento nel febbraio del 1912, segnava l’inizio della tecnica subacquea per gli studi dei raggi cosmici, una tecnica che continua ad essere impiegata ancora oggi.
Queste ricerche furono però praticamente dimenticate. Pacini morì a Roma il 23 maggio 1934, due anni prima del conferimento del Nobel a Hess, premio che avrebbe dovuto condividere a giusto titolo con lo scienziato austriaco. Nel volume L’enigma dei raggi cosmici. Le più grandi energie dell’universo (Springer, Milano, 2011) scritto dall’astrofisico Alessandro De Angelis, la vicenda di Pacini, sostanzialmente sconosciuta, viene ricollocata con dovizia di particolari e in tutta la sua importanza storica nel contesto delle vicende che portarono i fisici europei a riconoscere l’esistenza di una radiazione extraterrestre estremamente penetrante, che bombarda incessantemente la superficie del nostro pianeta. Con un linguaggio chiaro e rigoroso, che non si sottrae al difficile compito di comunicare i dettagli tecnici necessari a comprendere una delle più straordinarie e affascinanti avventure scientifiche del Novecento, De Angelis ripercorre in una forma narrativa molto coinvolgente tutta la vicenda legata alle ricerche sui raggi cosmici attraverso una mirabile cavalcata storica che arriva fino ai giorni nostri dando ampio spazio alla iniziale fase pionieristica.
Una volta riconosciutane l’origine extraterrestre, gli scienziati che lavoravano sui raggi cosmici si occuparono principalmente degli aspetti geofisici del fenomeno. Venivano investigate caratteristiche diverse come l’intensità, la distribuzione, l’assorbimento e la diffusione di questa radiazione mentre la questione riguardante la sua natura non suscitava un reale interesse. In virtù della loro straordinaria capacità di penetrazione, era opinione diffusa che i raggi cosmici fossero in realtà raggi gamma analoghi a quelli emessi da sorgenti radioattive ma di energia ancora più elevata.
Un esperimento cruciale, eseguito tra il 1928 e il 1929 dai fisici tedeschi Walter Bothe e Werner Kolhörster, suggeriva invece che i raggi cosmici a livello del mare dovessero avere natura corpuscolare mettendo in serio dubbio la teoria sostenuta in particolare dal fisico americano Robert Millikan che li considerava radiazione “ultra-gamma” prodotta dalla fusione di elementi leggeri nelle profondità dello spazio interstellare. Le ricerche di Bothe e Kolhörster si basavano sull’uso di un nuovo strumento, il contatore Geiger- Müller, che permetteva di rilevare le radiazioni di debole intensità che caratterizzavano i raggi cosmici e che fu da loro utilizzato per rilevare impulsi che segnalavano la produzione di due eventi simultanei prodotti in due dispositivi di questo tipo.
Si pensava che, interagendo con la materia, la radiazione ultra-gamma avrebbe provocato l’espulsione di elettroni attraverso il cosiddetto effetto Compton, a quel tempo l’unico processo conosciuto di interazione dei raggi gamma con la materia. Per studiare la radiazione secondaria prodotta dalla radiazione ultra-gamma, i fisici tedeschi Walther Bothe e Werner Kolhörster collocarono due contatori Geiger-Müller uno sopra l’altro, interponendo tra loro spessori crescenti di lastre di piombo e registrarono il numero di conteggi simultanei segnalati dai due strumenti. Data la bassa capacità di penetrazione degli elettroni Compton, questi avrebbero dovuto essere completamenti catturati da un materiale assorbente, anche molto sottile, posto tra i due strumenti di rivelazione. Al contrario, i due fisici osservarono con enorme stupore che i presunti elettroni secondari erano in grado di attraversare una lastra spessa 4 cm di un metallo assai denso come l’oro generando un segnale in coincidenza nei due contatori Geiger-Müller, segnale che poteva essere attribuito esclusivamente al passaggio di un singolo corpuscolo.
Nell’autunno del 1929, Bothe e Kolhörster pubblicarono un articolo in cui presentavano le loro ricerche e i sorprendenti risultati che ne erano derivati. Per il giovanissimo Bruno Rossi, arrivato di recente all’Istituto di Fisica di Arcetri come assistente del direttore Antonio Garbasso, l’articolo fu “come un fascio di luce che rivela l’esistenza di un mondo insospettato, pieno di misteri e ancora inesplorato”. Bruno Rossi era nato nel 1905 a Venezia dove aveva trascorso la sua infanzia sperimentando precocemente un senso di meraviglia verso il mondo che lo circondava. Nella prefazione alla sua autobiografia, Momenti nella vita di uno scienziato, Rossi accennò ai suoi sentimenti personali riguardo la scelta della Fisica: “Questo fascino per i segreti della Natura è la ragione per cui sono stato un fisico sperimentale. È la ragione per cui, per me, i momenti più eccitanti sono stati quelli in cui un esperimento ha fornito un risultato contrario a tutte le previsioni, dimostrando così che le ricchezze della Natura superano di gran lunga l’immaginazione umana”.
L’apparato sperimentale usato nel 1929 da Walther Bothe e Werner Kolhörster per verificare la natura dei raggi cosmici. Le coincidenze tra i due contatori Z1 e Z2 sono prodotte da raggi cosmici che attraversano entrambi i contatori. Le osservazioni furono fatte con e senza l’assorbitore di oro. Le coincidenze osservate dimostravano l’esistenza di particelle capaci di attraversare 4,1 cm di un metallo ad alta densità
Anche ad Arcetri stava per aprirsi una linea di ricerca che, accanto al filone nucleare che di lì a poco sarebbe divenuto il cavallo di battaglia del gruppo Fermi a Roma, si sarebbe trasformata in una grande tradizione della Fisica italiana. I risultati e le straordinarie conclusioni degli esperimenti di Bothe e Kolhörster, che mettevano in serio dubbio la teoria dei raggi cosmici come radiazione “ultra-gamma”, suscitarono comprensibilmente l’entusiasmo di Rossi. Concentrandosi sui nuovi problemi sollevati da questo lavoro, il giovanissimo fisico sentì che un progetto di ricerca per il quale non erano necessari fondi consistenti poteva essere decisamente alla sua portata: “Che cosa erano dunque questi corpuscoli della radiazione cosmica? Erano particelle della stessa natura delle particelle già note, solo dotate di maggiore energia? O erano particelle di natura completamente diversa? E quali erano le loro proprietà?”. Problemi di questo genere erano quelli che aveva sognato di affrontare all’inizio della sua carriera di ricercatore. Ora il suo sogno prometteva di avverarsi. Con questa scelta, Rossi era destinato a collocarsi all’avanguardia della ricerca scientifica dell’epoca e a diventare uno dei padri della Fisica del Novecento.
Mettendo a punto quello che diventerà universalmente noto come circuito di coincidenze alla Rossi, in grado di rivelare il passaggio simultaneo di eventuali particelle cariche attraverso un numero arbitrario di contatori collegati a valvole elettroniche che regolavano il regime di coincidenza, Rossi compì il primo passo del suo programma di ricerca, volto a confermare l’ipotesi della natura corpuscolare dei raggi cosmici e a comprendere il comportamento di questa misteriosa radiazione. Come Galileo, che utilizzò le lenti per costruire occhi più potenti per guardare oltre il nostro pianeta, Rossi trasformò il contatore Geiger-Müller in un “telescopio” per raggi cosmici, un rivelatore per le particelle provenienti dallo spazio profondo. La possibilità di collocare contatori secondo geometrie variabili, interponendo tra essi degli assorbitori metallici, stava aprendo una via del tutto inedita nello studio dell’interazione tra raggi cosmici e materia, un passo significativo verso la comprensione del mondo delle particelle subnucleari e delle forze fondamentali che le governano. Le investigazioni di Rossi, condotte nel periodo compreso tra il 1930 e la fine del 1932, ebbero anche un ruolo fondamentale nell’individuare l’esistenza di due componenti di natura assai diversa presenti nei raggi cosmici rivelati al livello del mare. Una prima componente dura risultò in grado di attraversare uno schermo costituito da un metro di piombo (corrispondente ad uno spessore superiore a quello dell’atmosfera terrestre) dopo essere stata filtrata da uno schermo metallico spesso dieci centimetri. Un’altra serie di esperimenti mise in luce l’esistenza di una componente molle, generata nell’atmosfera dai raggi cosmici primari e capace successivamente di produrre cascate di particelle in uno schermo di metallo prima di essere assorbita. La componente assai penetrante sarà identificata molti anni dopo con il muone, una particella analoga all’elettrone, ma avente una massa più elevata.
Per verificare la natura corpuscolare dei raggi cosmici, Rossi aveva anche cercato di comprendere cosa accade quando un flusso di particelle cariche, inizialmente proveniente da tutte le direzioni, entra nel campo magnetico della Terra subendone l’influenza. Nel 1930 Rossi aveva quindi congetturato l’esistenza dell’effetto est-ovest, un ulteriore fenomeno geomagnetico che si sarebbe aggiunto all’effetto di latitudine (riguardante una dipendenza della intensità dei raggi cosmici dalla latitudine geomagnetica), già predetto ma non ancora pienamente verificato a quel tempo. Secondo Rossi, l’effetto est-ovest si sarebbe manifestato con un’asimmetria nell’intensità dei raggi cosmici rispetto al piano del meridiano geomagnetico, con una prevalenza di corpuscoli provenienti da Est se di carica negativa o da Ovest, se di carica positiva. L’effetto sarebbe stato più facilmente osservabile alle basse latitudini e ad alta quota. Nell’autunno del 1933, coadiuvato da Sergio De Benedetti, Rossi riuscì ad organizzare la spedizione in Eritrea programmata già da tempo. Problemi logistici, dovuti anche alla lentezza con cui furono erogati i fondi, fecero sì che quando le osservazioni di Rossi e del suo collaboratore Sergio De Benedetti dimostrarono l’esistenza dell’effetto est-ovest nell’autunno del 1933, due articoli che riportavano analoghe osservazioni erano già comparsi ad opera degli statunitensi Arthur Compton (con il suo collaboratore Luis Alvarez) e Thomas H. Johnson. Questi risultati non soltanto costituivano una conferma della natura corpuscolare dei raggi cosmici ma indicavano che le particelle avevano carica positiva, contrariamente alle aspettative dei sostenitori dell’ipotesi corpuscolare secondo cui doveva trattarsi con tutta probabilità di elettroni dotati di energie molto elevate. Rossi e De Benedetti osservarono anche un fenomeno del tutto nuovo: di quando in quando, rivelatori posti anche a grande distanza venivano colpiti da gruppi di particelle; si trattava della prima osservazione dei grandi sciami atmosferici generati dall’impatto dei raggi cosmici primari con l’atmosfera terrestre. “Riscoperti” qualche anno più tardi da Pierre Auger, ancora oggi costituiscono una fondamentale sorgente di informazione sull’energia dei raggi cosmici primari. Nel frattempo il fisico statunitense Arthur Compton, stimolato dalla relazione di Rossi tenuta al Convegno di Fisica nucleare organizzato a Roma da Fermi nel 1931, aveva progettato una vasta campagna per la verifica dell’effetto di latitudine. Alla fine del 1933, la natura corpuscolare dei raggi cosmici trovava una concreta definitiva conferma in una serie di esperimenti condotti in diverse parti della Terra attraverso la collaborazione di una vasta rete di ricercatori.
Bruno Rossi e Enrico Fermi (da sinistra a destra) durante il Convegno internazionale di Fisica nucleare organizzato a Roma nel 1931
Queste scoperte, nel concludere un periodo eroico dedicato alla comprensione della natura corpuscolare dei raggi cosmici, aprono un nuovo capitolo a cui è dedicata la parte centrale del libro di De Angelis, dove si narrano gli albori e i primi sviluppi della Fisica delle particelle elementari. I raggi cosmici, nel fornire una fonte naturale di particelle di altissima energia, furono infatti per lungo tempo lo strumento principe per lo studio dei costituenti fondamentali della materia. Grazie ai raggi cosmici furono fatte una serie di scoperte fondamentali nella storia della Fisica delle particelle, la prima delle quali fu la dimostrazione dell’esistenza dell’antimateria. Il positrone, l’antiparticella dell’elettrone, fu individuata dal fisico americano Carl Anderson attraverso le tracce lasciate lungo il suo cammino all’interno della camera a nebbia collocata in un forte campo magnetico che ne curvava la traiettoria rivelandone il segno della carica.
La camera a nebbia è uno strumento che, accanto al contatore Geiger-Müller, ha rivoluzionato completamente i metodi di indagine nel campo della Fisica sperimentale. Nel 1932, Giuseppe Occhialini, allievo di Rossi ad Arcetri, e il fisico britannico Patrick Blackett (all’epoca uno dei maggiori esperti di questo dispositivo) utilizzarono la tecnica delle coincidenze alla Rossi per far azionare la loro camera a nebbia nel momento stesso del passaggio delle particelle dei raggi cosmici, ottimizzando grandemente l’uso di questo strumento e facendolo diventare una pratica diffusa anche nel campo della Fisica nucleare. Oltre a confermare l’osservazione di Anderson, le tracce degli sciami di particelle generate nel metallo della camera (già osservate da Rossi con il metodo delle coincidenze) fornirono una chiara evidenza dell’esistenza del processo di trasformazione di energia in materia regolata dall’equazione E=mc2 di Einstein, visualizzando la creazione di coppie di particelle e antiparticelle come previsto dalla teoria proposta da Dirac nel 1928. L’esistenza di anti-particelle per tutte le particelle elementari di materia esistenti nell’universo apriva un capitolo della Fisica del tutto nuovo. Gli studiosi di raggi cosmici avrebbero cercato le tracce lasciate dal passaggio di questi messaggeri del mondo microscopico con nuovi strumenti e tecniche che si sono notevolmente evoluti nel corso del tempo, in particolare nel dopoguerra, attraverso l’enorme sviluppo dell’Elettronica. Grazie ai raggi cosmici, un vero e proprio zoo di particelle fu individuato nel corso del tempo fino agli anni Cinquanta, quando furono soppiantati dalle sorgenti artificiali fornite da acceleratori sempre più potenti. Acceleratori che si sono sviluppati fino al grande Large Hadron Collider del CERN, dove si scontrano due fasci di protoni dotati delle più alte energie prodotte artificialmente in un laboratorio terrestre. È di questi giorni la scoperta di una particella che ha le caratteristiche del bosone di Higgs, una particella prevista dalla teoria del modello standard delle particelle elementari, che corona molti anni di sforzi teorici e sperimentali e costituisce un momento altissimo ed emozionante della ricerca in questo settore.
A sinistra è visibile la traccia lasciata da un positrone proveniente dal basso della camera a nebbia immersa in un potente campo magnetico; la perdita di energia nell’attraversare il setto metallico al centro è segnalata dal variare del suo raggio di curvatura. A destra, le tracce degli sciami prodotti dall’interazione dei raggi cosmici con il metallo della camera comandata da un circuito di coincidenza messa a punto da Blackett e Occhialini; alcune di loro mostrano la contemporanea produzione di coppie elettrone-positrone segnalate da tracce che si biforcano in direzioni opposte
L’identificazione tra le ricerche sui raggi cosmici e lo sviluppo della Fisica delle particelle costituisce un aspetto abbastanza noto che ha sempre fatto la parte del leone nei racconti dedicati al grande pubblico. Ma quando i raggi cosmici furono spodestati come sorgente di particelle di alta energia, non tutti i fisici si trasferirono a fare ricerca con le macchine acceleratrici. Alcuni di loro restarono profondamente legati alla natura “cosmica” di queste ricerche.
Nel corso di un secolo è stata accumulata una enorme quantità di conoscenze sulla radiazione primaria e la ricerca con i raggi cosmici è ormai una scienza matura. Oggi sappiamo che la maggior parte della componente elettricamente carica dei raggi cosmici (circa il 90%) è costituita da protoni. I raggi cosmici hanno uno spettro di energia che si estende fino a valori straordinari; la loro isotropia è la conseguenza dei campi magnetici che permeano la nostra galassia e lo spazio intergalattico. Questi campi deviano la traiettoria delle particelle cariche rimescolando continuamente le loro direzioni. Per individuare radiazioni e particelle di varia natura provenienti dallo spazio profondo vengono messi a punto esperimenti che utilizzano palloni, satelliti e razzi. Per individuare i grandi sciami prodotti dall’interazione dei raggi cosmici primari con l’atmosfera terrestre sono stati messi a punto progetti che si estendono su aree della dimensione di migliaia di chilometri quadrati, come il grande osservatorio cosmico “Pierre Auger”, nella pampa argentina. Risalendo all’energia dei primari, è infatti possibile formulare ipotesi sulla natura delle sorgenti e sui meccanismi con cui i raggi cosmici sono accelerati.
L’osservatorio internazionale per raggi cosmici “Pierre Auger” progettato per rivelare particelle di energie superiori a 1020 eV (circa l’energia di una palla da tennis che viaggia a 80/km orari). Si stima che solo una di queste particelle per km2 raggiunga la superficie terrestre in un secolo, viaggiando a velocità prossime a quelle della luce. Per aumentare la probabilità di registrare un gran numero di eventi di questo tipo, l’osservatorio ha un’area che supera i 3000 km2. Attualmente quasi 500 fisici di 55 istituzioni di 15 Paesi di tutto il mondo collaborano al mantenimento del sito e alla raccolta e analisi dei dati
Uno dei punti di forza del libro di De Angelis è proprio quello di mettere molto bene in luce come le energie estreme di cui sono dotate queste particelle, e in genere i fotoni di altissima energia che arrivano dallo spazio, hanno sempre fatto dei raggi cosmici i protagonisti della ricerca nel campo della Fisica fondamentale. Questi aspetti assai meno conosciuti sono un elemento di grande novità nel panorama della buona divulgazione. L’evoluzione iniziale della Fisica dei raggi cosmici di fatto ha generato due nuove scienze, la Fisica delle particelle elementari e l’Astrofisica dei raggi cosmici. Nel corso di questa trasformazione questo campo di ricerca ha acquistato via via un ruolo molto più ricco e articolato. Mentre la Fisica dei raggi cosmici si spostava sempre più verso l’Astrofisica, il problema delle fonti da cui hanno origine le particelle che arrivano dallo spazio, insieme ai meccanismi che le accelerano fino alle altissime energie osservate, trasferirono l’attenzione sull’universo stesso come grande laboratorio di cui il nostro stesso pianeta diventava parte integrante. La scienza che si occupa dei raggi cosmici si è trasformata ormai in un settore di ricerca caratterizzato da una tendenza ad evolversi continuamente per studiare con strumenti molto più sofisticati questi messaggeri che arrivano da misteriose sorgenti presenti in varie parti dell’universo. Uno degli scopi è attualmente quello di individuare i motori cosmici in grado di imprimere energie inimmaginabili per qualsiasi acceleratore terrestre.
Il problema centrale della Fisica dei raggi cosmici rimane infatti ancora oggi un problema aperto. Qual è la loro origine? Come ottengono le loro straordinarie energie? A questi interrogativi si affianca l’enigma che riguarda la cosiddetta materia oscura. Questa forma di materia, che si pensa costituisca circa un quarto del contenuto totale di energia dell’universo e circa il 90% della sua massa, manifesta i suoi effetti gravitazionali in una serie di fenomeni astronomici ma la sua natura costituisce uno dei principali misteri della Fisica moderna. Studiare i segnali di vario tipo provenienti dallo spazio significa ormai indagare sulla natura e sulle origini stesse del nostro universo. Nell’ultimo interessante capitolo, “La fisica dei raggi cosmici oggi”, Alessandro De Angelis spiega appunto come i raggi cosmici siano uno strumento di primo piano in particolare grazie al nuovo affascinante campo di indagine costituito dalla cosiddetta Fisica astroparticellare, un settore interdisciplinare che oggi riunisce in sé Astrofisica, Cosmologia e Fisica delle particelle elementari.
Nuove tecniche, come quella di studiare l’emissione di luce Cherenkov da parte delle particelle cariche di uno sciame, consentono di indagare più a fondo e di individuare con più facilità le sorgenti dei rarissimi eventi di altissima energia. Oltre ai fotoni gamma, un altro importante strumento di indagine è costituito dai neutrini. Queste particelle interagiscono molto poco con la materia. Viaggiando in linea retta, consentono di guardare l’universo in grande profondità, anche se per osservarli è necessario costruire rivelatori giganteschi (dell’ordine del chilometro cubo), come quelli che si trovano all’interno dei ghiacci antartici o nelle acque del Mediterraneo. Oggi si ritiene che i raggi cosmici siano accelerati in corrispondenza dei processi più violenti dell’universo. È opinione diffusa che la maggior parte dei raggi cosmici sia accelerata nel corso delle esplosioni di supernova. Perfino le onde gravitazionali, mai rivelate fino a oggi, potrebbero aggiungersi al ventaglio dei messaggeri cosmici fornendoci informazioni su eventi catastrofici che coinvolgono grandi masse che interagiscono attraverso la più debole delle interazioni, la forza gravitazionale. In Italia, a Pisa, si trova “Virgo”, uno dei tre grandi interferometri esistenti al mondo, gli strumenti costruiti per rivelare il passaggio di un’onda gravitazionale.
Insomma, come sottolinea l’autore, “le sorprese che potrà ancora regalare l’universo nell’osservazione di questi fenomeni sono il premio di cui potranno godere gli scienziati che con pazienza e sempre maggior competenza investiranno nella ricerca in questo ramo all’incrocio tra l’astrofisica e la fisica delle particelle. È proprio la potenzialità di scoperta di questo nuovo settore che sta attirando un numero sempre maggiore di giovani scienziati, e che porta allo sviluppo di nuove idee, alla realizzazione di nuove tecnologie e all’individuazione di nuovi misteri. E abbiamo la coscienza che i rivelatori che abbiamo costruito in questa generazione sono le vedette dei confini dell’universo”.