La Matematica in un intervento dello scrittore (e Senatore) Paolo Volponi
Paolo Volponi (1924-1994), scrittore e poeta, uno dei più rappresentativi autori del secondo Novecento, non ha mai espresso, nelle sue opere letterarie, particolari opinioni, né rivelato particolare passione, nei confronti della Matematica. Del resto aveva una formazione tipicamente umanistica, diplomato al Ginnasio-Liceo e laureato in Giurisprudenza a Urbino. Siamo quindi rimasti piacevolmente sorpresi nel leggere la sua autorevole e incisiva opinione sull'importanza della Matematica in un accorato discorso pronunciato in Senato nel 1985.
Volponi è stato Senatore dal 1983 al 1993, prima per il PCI e poi per il Partito di Rifondazione Comunista, e le trascrizioni di alcuni suoi interventi in qualità di senatore sono recentemente apparse nel recente volume "Parlamenti" a cura di Emanuele Zinato (Ed. Ediesse, 10 €) contenente anche delle belle foto di Volponi nella sua casa di Urbino e un suo inedito (incompiuto) intitolato "il senatore segreto", un abbozzo molto embrionale di giallo in forma epistolare.
Ed è proprio in uno di questi interventi, datato 5 febbraio 1985, riguardante la proposta di legge sul nuovo ordinamento della scuola media superiore, che Volponi prende posizione contro i troppi indirizzi tecnologici previsti da quella riforma, con programmi che penalizzano le discipline di base e quelle di maggiore apertura culturale. Dopo aver citato la frase di Einstein: "Nulla è più pratico di una buona teoria", Volponi ricorda la sua personale esperienza scolastica, quando frequentava il Ginnasio-Liceo “Raffaello Sanzio” di Urbino:
«Anch'io ho qualche ricordo di scuola, specialmente dei primi anni del mio ginnasio, primi anni '30, ginnasio duro, intitolato al nome di Giovanni Pascoli, che aveva studiato nello stesso collegio che allora era retto dagli Scolopi. [...] Andavo male a scuola perché ero duro, un po' nevrotico, goffo, recalcitrante, insomma non avevo buoni rapporti nemmeno con i miei compagni, tranne con qualcuno dell'ultimo banco che veniva dai paesi vicini e che aveva un'impronta un po' meno urbinate, cioè meno civile, meno gentile, questa è la parola giusta. E cos'è che mi ha salvato e portato avanti attraverso il ginnasio e il liceo fino all'università, frequentata sempre a Urbino? Posso dire onestamente che sono stato salvato e condotto fino in fondo specialmente alla seconda ginnasiale dalla inalterabile, inattaccabile luce della matematica. Avevamo anche, per fortuna, un professore bravo, onesto e di buon tratto. La matematica non poteva essere commentata, alterata. non poteva essere deformata, non poteva essere romanizzata, imperializzata o italianizzata, eccetera, ma era nella sua purezza brillante e vera e risultava dalla lavagna come un grande testo. La stessa impressione l'ho avuta in seguito, per esempio, al ginnasio superiore leggendo i lirici greci nel testo e nella traduzione che facevamo noi o in quella contenuta nei libri. E questo perché i lirici greci trattavano in modo diretto, direi quasi materiale, certe verità inalienabili : il vino, la donna, l'amore, la battaglia, la paura eccetera. E mi pareva che questo si confondesse con la matematica. E poi al liceo certe volte la fisica rimandava alla Divina Commedia, o la Divina Commedia faceva capire meglio la storia o la filosofia. Anche la chimica si poneva a un certo punto in rapporto con certe poesie: ricordo, per esempio, certi brani dell'Ariosto o del Tasso. Quelle letture sembravano tediosissime e poi uno le capiva con l'aiuto della scienza: certe concezioni che non erano più quelle specialistiche di un linguaggio o di una dottrina diventavano un modo di comprensione, davano la capacità di capire una cosa, di avere una acquisizione nella propria coscienza e nel proprio bagaglio di istruzione. Le materie comuni essenziali, i grandi testi della storia, della produzione artistica dell'uomo e dei gruppi, del lavoro e della lingua di certe epoche non possono essere trascurati anche quando si parla di indirizzi di tipo strettamente professionale, direi di supporto alle tecnologie prevalenti».
Di questo testo ci piace non solo l'enunciato sul potere salvifico della Matematica, e la sua purezza non soggetta a deformazioni e interpretazioni da parte delle ideologie (in questo caso l'accenno alla retorica fascista è chiaro e pertinente). Ci piace anche il fatto che Volponi ricordi, dopo più di mezzo secolo, il bravo insegnante di Matematica, e che ricordi così bene gli aspetti interdisciplinari con cui le materie cosiddette umanistiche e quelle scientifiche diventano un tutt'uno, l'una aiuta a capire e apprezzare l'altra. Un modo chiaro per ribadire l'inconsistenza della presunta separazione fra le due culture.
Infine, a proposito dell'incapacità della retorica fascista, imperante negli anni a cui si riferisce il ricordo di Volponi, di alterare i principi e la logica del ragionamento matematico, non possiamo non ricordare l'analoga opinione espressa da un altro gigante del Novecento, Primo Levi, che se ci stupisce un po' meno data la sua formazione scientifica, costituisce una testimonianza altrettanto forte dato il suo ruolo di scrittore ebreo perseguitato dal fascismo. Infatti Primo Levi, dopo aver scritto nel racconto "Ferro" (nella raccolta "Il sistema periodico"):
«... come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l'antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali? »
scrive nel racconto "Potassio", nella stessa raccolta:
«... la chimica stessa, o almeno quella che ci veniva somministrata, non rispondeva alle mie domande. Preparare il bromobenzene o il violetto metile secondo il Gattermann era divertente, anche esilarante, ma non molto diverso dal seguire le ricette dell'Artusi. Perché in quel modo e non in un altro? Dopo di essere stato ingozzato in liceo delle verità rivelate della Dottrina del Fascismo, tutte le verità rivelate, non dimostrate, mi erano venute a noia o in sospetto. Esistevano teoremi di chimica? No: perciò bisognava andare oltre, non accontentarsi del "quia", risalire alle origini, alla matematica ed alla fisica. Le origini della chimica erano ignobili, o almeno equivoche: gli antri degli alchimisti, la loro abominevole confusione di idee e di linguaggio, il loro confessato interesse all'oro, i loro imbrogli levantini da ciarlatani o da maghi; alle origini della fisica stava invece la strenua chiarezza dell'occidente, Archimede ed Euclide».