La Teoria delle catastrofi

1 Introduzione

La Teoria delle Catastrofi viene alla luce negli anni 60’ ed è sostanzialmente associata al nome di René Thom. Tale teoria (accetteremo nel seguito tale appellativo senza ulteriori commenti), almeno nella versione cosiddetta "elementare", è riconosciuta dalla comunità dei matematici e catalogata nel Mathematics Subject Classification 2000 nella sezione 58Kxx, denominata "Teoria delle singolarità e teoria delle catastrofi". A fronte di una teoria matematica (difficile e) consolidata, l’aspetto sicuramente più controverso delle "catastrofi" ha riguardato le sue applicazioni, attorno alle quali si è acceso un forte dibattito che si è protratto fin verso la metà degli anni '80 (si veda ad esempio Tonietti 1983). Successivamente l’interesse per tale teoria è andato in parte scemando. Una stima, sia pur grossolana, dell’impatto della teoria delle catastrofi nella comunità scientifica si può ottenere comunque spulciando il catalogo del MathScinet e confrontandosi con altre teorie spesso (impropriamente a parere di chi scrive) accomunate alla teoria delle catastrofi: una ricerca mediante la parola chiave "catastrophe theory" produce, dal 1971 ad oggi, un elenco di 509 lavori, a fronte dei 5119 ottenuti sullo stesso periodo inserendo la parola chiave "chaos" e dei 12336 ottenuti con "bifurcation".
Nelle poche righe che seguono cercheremo di dare un rapido "assaggio" di ciò che la teoria delle catastrofi rappresenta sia dal punto di vista "teorico" sia dal punto di vista "applicativo". Rimandiamo per presentazioni più rigorose ed esaustive alla bibliografia essenziale che il lettore incontrerà alla fine di queste righe.

 

2 La matematica delle Catastrofi

L’idea alla base del calcolo differenziale in una variabile reale è, come è noto, quella di cercare una rappresentazione locale di una funzione mediante una funzione lineare; in termini "geometrici" una funzione reale di variabile reale f si dice differenziabile in un punto x0 interno al suo dominio se il suo grafico risulta localmente "bene approssimato" dalla retta tangente ad esso nel punto di coordinate (x0, f (x0)), retta la cui pendenza è data dalla derivata prima f'(x0). Data una funzione differenziabile, lo studio di ciò che capita muovendosi “di poco” dal punto x0può essere condotto considerando i valori corrispondenti sulla retta tangente (facilmente deducibili) in alternativa a quelli del grafico della funzione stessa (in generale diffcilmente deducibili). Tale procedura funziona bene a patto che la retta tangente non sia orizzontale: se ciò avviene, cioè se f'(x0)=0, l’andamento locale della funzione non viene catturato nemmeno approssimativamente dalla retta tangente dato che questa esprime il grafico di una funzione costante (vedi Figura 1).

In corrispondenza dei punti "problematici", cioè quelli a tangente orizzontale, detti punti critici o singolari, si cerca di rappresentare (se possibile) una funzione mediante espressioni polinomiali di grado superiore al primo, che coinvolgono (e quindi bisogna a priori chiederne l'esistenza) le derivate successive della funzione (nell'esempio precedente basta ovviamente la derivata seconda). Per poter affrontare una qualsiasi situazione si può arrivare a chiedere ad f di possedere tutte le derivate cioè di essere liscia. Come è noto, in tal caso ci si può chiedere se la serie che raccoglie tutte le derivate della funzione f nel punto x0 (nota come serie di Taylor) permetta di dedurre i valori della funzione, cioè se (e dove) valga l'uguaglianza:

A tale approccio, di natura globale, si può contrapporre il seguente, di natura locale: data una funzione1 liscia nel punto x0 ci si chiede se esista un cambio di coordinate (locale) che permetta di riscrivere la funzione come il suo primo termine non nullo della sua serie di Taylor. L'approccio è ovviamente qualitativo, non numerico: l'idea è che gli elementi essenziali che caratterizzano l'andamento di una funzione siano contenuti nell’insieme delle sue singolarità, che ne rappresentano, con abuso di linguaggio, il suo "patrimonio genetico". Risulta così interessante poter classificare le funzioni lisce in termini delle loro singolarità, sia per quanto riguarda il numero, sia per quanto rigurda la loro tipologia. Per poter comprendere il senso di tale classificazione è necessario ancora un piccolo sforzo per cogliere un ulteriore aspetto del problema. Se torniamo all'esempio illustrato in Figura 1, possiamo tracciare il grafico della derivata prima f' della funzione f .

1Tecnicamente, dato che ci occupiamo di un’analisi locale, si dovrebbe parlare di germe

Figura 2. Grafico della funzione definita da f'(x)=-2(x - 2)

 

Si osserva allora che il punto singolare x0 = 2 corrisponde al punto in cui il grafico della funzione derivata prima (in nero in Figura 2) interseca l'asse delle ascisse. Notiamo ora che, se "perturbiamo di poco"2 tale grafico (ottenendo, ad esempio, il grafico in rosso), l’intersezione resta (sia pur numericamente di.erente dalla precedente) qualitativamente invariata.
Consideriamo ora la funzione definita (su R) da g (x) = x3. Il punto x=0 è un punto singolare (cioè g'(0)=0), più precisamente un punto singolare egenere dato che si ha anche f''(0)=0 (in contrapposizione, casi come quello della funzione f si dicono singolarità non degeneri). Si può notare (vedi Figura 3) che piccole perturbazioni del grafico della sua derivata prima g' cambiano drasticamente la situazione per quanto rigurda la presenza di singolarità.

 

Figura . Grafici di g (x) = x3 e della sua derivata prima

Come illustrato in Figura 4., il punto singolare x=0 (punto di flesso a tangente orizzontale) a seguito di una "piccola perturbazione" o scompare (grafico in rosso),

 

2 Le piccole perturbazioni alle quali si fa spesso riferimento in linguaggio più tecnico (ed appropriato) si chiamano (germi) di diffeomorfismi locali.

dando luogo ad una funzione senza singolarità, oppure "si duplica" (grafico in verde), dando luogo ad una funzione che presenta due punti singolari (un punto di massimo e uno di minimo).

Figura 4. Una "piccola perturbazione" della funzione g dà origine a nuove funzioni senza punti singolari (grafico in rosso) oppure con due punti singolari (grafico in verde).

 

In conclusione: esistono "funzioni" che sono strutturalmente stabili, nel senso che piccole perturbazioni non ne cambiano i punti singolari ed il loro tipo. Ciò viene catturato dal modo in cui (in dimensione 1) il grafico della derivata prima taglia l’asse delle ascisse3. Dunque, la funzione f presenta un punto singolare strutturalmente stabile, la funzione g instabile. In generale, ci si potrebbe anche spingere ad affermare che la funzione f è generica mentre tale non è il caso della funzione g. Tuttavia, notiamo che se si perturbano di poco i grafici in Figura 4 la loro fisionomia non cambia (vedi Figura 5). Dunque, se è vero che y=x3 presenta una singolarità instabile, la sua versione "perturbata" y=x3+ax, al variare del parametro a, risulta strutturalmente stabile.

Figura 5. Piccole perturbazioni dei casi senza singolarità o con due singolarità non ne modificano l’andamento qualitativo locale.

3 Qui si nasconde la nozione di trasversalità...

L’essenza del famoso teorema di classificazionedi Thom (a cui si riconduce la congettura nel 1963 alla quale seguono i contributi di Malgrange nel 1965 e di Mather 1967) sta proprio nel dimostrare, sotto certe condizioni, la possibilità di classificare le singolarità, dette centri organizzatori della catastrofe, di funzioni lisce immergendole nei corrispondenti spiegamenti universali che risultano strutturalmente stabili. A ciascuna situazione si associa un nome evocativo cui ci si riferisce per distinguere le sette tipologie, note come le sette catastrofi elementari. Riportiamo di seguito l’elenco di tali forme:

 

3 Le applicazioni

Negli scritti di Thom si trovano le idee generali che ispirano il suo lavoro matematico, idee che nascono dall’osservazione dei fenomi naturali. Per Thom la natura è un catalogo di forme che nascono, entrano in conflitto fra loro, muoiono in un continuo divenire. Una particolare forma (di una foglia, di una pietra, di un essere vivente) per poter essere individuata deve essere stabile: piccole perturbazioni non ne devono modificare le caratteristiche essenziali. Dunque, le forme hanno una loro dinamica ed accanto ai domini di stabilità si osservano situazioni nelle quali piccole modifiche provocano grandi effetti: la morfogenesi si occupa di studiare tali processi e i cambiamenti di forma vengono denominati catastrofi (dal greco che significa girare giù, cambiamento, rovesciamento). La classificazione delle forme elementari risulta così possibile imponendo non solo la stabilità delle forme ma anche la stabilità del processo di cambiamento.

Non possiamo addentrarci nel complesso e controverso mondo delle applicazioni della teoria delle catastrofi: ci limiteremo quindi a presentare, sia pur per sommi capi, la catastrofe che più ha avuto successo nelle applicazioni (mostrando un esempio di natura economica), la cuspide, rimandando alla letteratura il lettore più interessato. Prima, però, segnaliamo un aspetto che potrebbe sembrare curioso: sorprendentemente, le "applicazioni delle catastrofi" non sono sostanzialmente associate al nome di Thom ma principalmente a quello del matematico inglese Cristopher Zeeman e della sua scuola (la cosiddetta "scuola inglese") che, nella seconda metà degli anni 70’, ha prodotto applicazioni di ogni genere inerenti le caustiche, le transizioni di fase liquido/gas, problemi di elasticità, fino a giungere a quelle sul battito cardiaco, i crolli di borsa, le rivolte nelle carceri, lo scoppio di guerre.

Il cosiddetto modello a cuspide si può incontrare quando si prendono in considerazione una variabile di stato (z) e due variabili di controllo (x, y): in uno spazio a tre dimensioni si rappresenta la superficie, detta superficie di comportamento, dei punti singolari del sistema analizzato (vedi Figura 6).

Figura 6. Il modello a cuspide

 

La denominazione di cuspide deriva dal fatto che se si proiettano sul piano delle variabili di controllo i punti della superficie in corrispondenza dei quali il piano tangente risulta verticale, si ottiene proprio una cuspide (vedi Figura 6). Sulla superficie di comportamento sono possibili vari movimenti in funzione dei valori che assumono le variabili di controllo: i principali sono descritti in Figura 7.


Figura 7 Possibili movimenti sulla superficie di comportamento

Il "salto catastrofico" avverrà in punti di.erenti a seconda che si adottino rispettivamente la regola di Maxwell (proposta da Thom) oppure la regola del ritardo (proposta da Zeeman). Senza entrare nei particolari segnaliamo che la prima prevede che il salto catastrofico avvenga prima di aver raggiunto il bordo della piega, la seconda prevede che il salto catastrofico avvenga solo raggiunto il bordo della piega. L’analisi della Figura 7. ci consente di osservare ancora due caratteristiche del modello a cuspide: da una parte la presenza di una regione di inacessibilità corrispondente a punti singolari instabili; dall’altra osserviamo un fenomeno di isteresi, cioè la transizione dal piano superiore a quello inferiore non avviene nello stesso punto in cui avviene quella dal piano inferiore a quello superiore (vedi Figura 8).

Figura 8. Fenomeno dell’isteresi nel modello a cuspide

Infine, il modello permette di analizzare situazioni di bimodalità, ossia situazioni in cui, a parità di combinazioni delle variabili di controllo, si possono determinare due diverse reazioni di comportamento della variabile di stato, localizzate rispettivamente sul piano inferiore e su quello superiore della piega (vedi Figura 9).

Figura 9. Bimodalità nel modello a cuspide

Zeeman ha proposto l’utilizzo del modello a cuspide per la spiegazione dei crolli di borsa. Si suppone che agiscano due tipi di soggetti, coloro che agiscono sulla base delle informazioni di natura economica (politica economica, monetaria, fiscale, analisi dei bilanci, ecc.) e coloro che agiscono solo a fini speculativi. Le variabili di controllo sono quindi l’ammontare delle azioni possedute dai due gruppi contrapposti. In realtà le due variabili di controllo hanno una valenza di.erente: con riferimento alla Figura 7, il fattore di controllo 2 in generale si dice fattore normale, il fattore 1 si dice fattore separante e tale distinzione terminologica è motivata dal fatto che solo in presenza del fattore separante può avvenire il "salto" dalla faccia inferiore a quella superiore (o viceversa) della superficie. La variabile di stato nel nostro esempio è la variazione dell’indice di borsa (ad esempio, del MIBTEL). Come si può dedurre dall’analisi della Figura 7, in assenza di speculazione la domanda conduce al rialzo; alternativamente, la presenza di capitali speculativi farà sì che variazioni della domanda possano portare a brusche variazioni (catastrofi) dell’indice di borsa.

 

4 Bibliografia essenziale

[1] Arnol’d V.I., Teoria delle catastrofi, Bollati Boringhieri, 1990

[2] Brambilla F., Guerraggio A., Salinelli E., Teoria delle catastrofi e applicazioni economiche, Studi Matematici n.5, Istituto di Metodi Quantitativi, Università "L. Bocconi", 1988

[3] Bröcker T., Di.erentiable germs and catastrophes, Cambridge University Press, 1975

[4] Galeotti M., Gori F., Un modello geometrico per le configurazioni di equilibrio della bilancia commerciale. Catastrofi e stabilità del tasso di cambio, preprint del Centro di Analisi Globale del CNR, 1980

[5] Gilmore S., Catastrophe theory for scientists and engeneers, Wiley, 1981

[6] Lu Y.-C-, Singularity theory and an introduction to catastrophe theory, Springer-Verlag, 1976

[7] Marmo G., Vitale B., La teoria delle catastrofi, Sapere, 804, 1977, pp. 17-28

[8] Pietrabissa E., Un possibile utilizzo della teoria delle catastrofi nella costruzione di modelli econometrici, Rivista di Statistica Applicata, Vol.12, No.3, 1979

[9] Pomian K., Catastrofi, in Enciclopedia Einaudi, 2, 1977, pp. 789-803

[10] Poston T., Stewart I., Catastrophe theory and its applications, Pitman, 1978

[11] Thom R., Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria generale dei modelli, Einaudi,

1980 [12] Tonietti T., Catastrofi. Una controversia scientifica, Ed. Dedalo, 1983

[13] Zeeman E.C., La teoria della catastrofe, Le Scienze, 96, 1976, pp. 16-29

[14] Zeeman E.C., Catastrophe theory. Selected-Papers 1972-1977, Addison Wesley, 1977

[15] Woodcock A., Davis M., La teoria delle catastrofi, Garzanti, 1982