Matematica, miracoli e paradossi
Gli autori fanno parte del Gruppo di logica matematica del Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università di Camerino. La loro attività di ricerca riguarda principalmente la Teoria dei Modelli e le sue applicazioni all’Algebra. L'articolo è comparso sul n. 46 di lettera matematica PRISTEM |
Stefano Leonesi, Carlo Toffalori, e Samanta Tordini
Miracoli
L’attenzione del lettore che sfoglia sulla rivista Fundamenta Mathematicae del 1924 l’articolo [1] è certamente attratta alle pagine 260-261 da una sorprendente affermazione che suona all’incirca così: è possibile suddividere una sfera dell’usuale spazio a tre dimensioni in un numero finito di parti che, ricomposte opportunamente, vanno a formare due sfere uguali a quella di partenza.
Come detto, la proposizione è per lo meno bizzarra e certamente richiama alla mente (con rispetto parlando) i Vangeli ufficiali ed il racconto che lì viene fatto del miracolo della moltiplicazione dei pani: nella versione di San Giovanni (capitolo 6), si narra ad esempio come da cinque pani d’orzo si ottiene quanto basta a saziare cinquemila uomini (senza contare le donne e i bambini) e riempire dodici canestri di avanzi.
Ma l’affermazione sulla duplicazione delle sfere non ha nulla di soprannaturale e divino: si tratta di un immanentissimo teorema di Matematica – certamente sorprendente, tant’è vero che viene usualmente chiamato paradosso di Banach-Tarski – ma comunque soltanto di un teorema di Matematica, con le sue brave ipotesi, tesi e dimostrazione.
Ma proprio per questo possiamo domandarci: la scienza, ed in particolare la Matematica, può spiegare i miracoli? E, se sì, perchè non approfittarne? Magari potremmo applicare il meccanismo per fini assai più gretti e prosaici, ad esempio per riprodurre lingotti d’oro, invece di sfere o pani, e prima duplicare e poi centuplicare in questo modo le nostre ricchezze.
In ogni caso, anche a prescindere da queste argomentazioni assai terrene e superficiali, vale la pena di approfondire il discorso, e capire come mai possiamo matematicamente provare che la materia può raddoppiarsi e riprodursi nel senso sopra descritto.
Il “Teorema di Zermelo”
Per abbozzare una spiegazione, dobbiamo momentaneamente abbandonare il 1924 (ed il problema delle sfere) e risalire a qualche anno prima, proprio all’inizio del ventesimo secolo.
Già da qualche anno Cantor aveva introdotto l’innovativa Teoria degli insiemi ed in particolare, al suo interno, i numeri cardinali: numeri che estendono gli usuali 0, 1, 2, …con cui contiamo e che permettono di “misurare la grandezza” anche degli insiemi infiniti. Così, l’insieme stesso dei naturali ha un numero di elementi che si denota À0, e si chiama infinità numerabile, mentre la retta reale R ha un numero di punti che viene detto potenza del continuo e che si prova diverso da À0 ed anzi uguale, in un senso opportuno, alla potenza 2Ào. Ma all’inizio del 1900 lo sviluppo di una ragionevole aritmetica per questi numeri infiniti (il numerabile, il continuo e così via), che estendesse le abituali proprietà dei naturali, non si dimostrava affatto agevole. Comunque, si osservò che molti importanti problemi in questo ambito sarebbero stati superati e risolti se si fosse potuto mostrare che ogni insieme si può bene ordinare. Vediamo di spiegare che cosa significa quest’ultima proposizione.
I numeri naturali, con il loro abituale ordinamento "minore-uguale", soddisfano la proprietà che viene chiamata Principio del minimo: qualunque loro sottoinsieme non vuoto ammette un minimo elemento. Così diviene possibile metterli in fila e presentarli uno dietro l’altro: il primo 0, il secondo 1 (il minimo dopo 0) e via di seguito. Non altrettanto vale per i reali (ancora rispetto all’usuale ordinamento): ad esempio, non esiste un minimo reale positivo, perchè ogni reale e > 0 è comunque maggiore della sua metà.
Gli insiemi ordinati che condividono la proprietà del minimo dei numeri naturali e dunque ammettono un primo elemento per ogni sottoinsieme non vuoto, si dicono bene ordinati. I reali, con il loro ordine abituale, non formano un insieme bene ordinato e molti altri controesempi li accompagnano. Ma niente esclude che gli stessi reali, riarrangiati opportunamente rispetto a qualche altro ordinamento, siano un insieme bene ordinato e dunque contengano un minimo elemento in ogni sottoinsieme non vuoto. L’affermazione che stiamo discutendo è ancora più forte e sostiene che qualunque insieme non vuoto A, e non solo R, può essere dotato di una relazione che lo rende bene ordinato e mette in fila l’uno dietro l’altro i suoi elementi (così come avviene per i naturali). Un attimo di riflessione può convincere il nostro lettore, se non della plausibilità, almeno della potenza di questa ipotesi: se vera, essa garantirebbe un formidabile strumento tecnico per dominare qualunque insieme A, elencandone gli elementi nel modo che abbiamo descritto. In particolare, come già osservato, con questo mezzo si potrebbero risolvere i problemi dei numeri cardinali infiniti che abbiamo sopra accennato.
Chi per primo avanzò questa congettura sul buon ordinamento fu Cantor nel 1883. Ma fu solo nel 1904 che il matematico tedesco Zermelo ne pubblicò una dimostrazione [2] sui Mathematische Annalen, una rivista di Matematica di grande prestigio, che includeva allora tra i suoi responsabili nomi come quelli di Klein e Hilbert. La prova di Zermelo occupa sì e no tre pagine e si conclude con qualche commento dell’autore. In particolare, poco prima della fine, Zermelo sottolinea che la sua dimostrazione si basi sul principio che “il prodotto di una totalità infinita di insiemi, ognuno dei quali contenga almeno un elemento, è esso stesso diverso da zero. Questo principio logico non può, a rigore, essere ridotto ad uno più semplice, ma si può applicare ovunque nelle deduzioni matematiche senza esitazione”. In altre parole, Zermelo si basa – per provare che ogni insieme non vuoto si può bene ordinare – sul fatto che il prodotto cartesiano di (eventualmente infiniti) insiemi non vuoti è non vuoto e ritiene questa premessa assolutamente evidente e non bisognosa di ulteriori dimostrazioni.
La cosa non parve però così ovvia ai contemporanei di Zermelo, se già nel numero successivo dei Mathematische Annalen apparvero articoli di matematici come Schoenflies e Bernstein, che si dichiaravano tutt’altro che convinti. Anzi, ci fu chi cercò di smentire Zermelo nel modo più diretto, producendo un controesempio e, più specificamente, mostrando che i reali non si possono bene ordinare. In realtà, König aveva già presentato una prova di quest’ultimo fatto qualche mese prima del lavoro di Zermelo ma, non essendo soddisfatto delle sue argomentazioni e restando tuttavia persuaso (a dispetto di Zermelo) dell’impossibilità di bene ordinare i reali, propose nel 1905 una nuova dimostrazione, che adesso cerchiamo di riassumere.
Ammettiamo per un attimo che i reali si possano bene ordinare rispetto ad un’opportuna relazione maggiore-uguale ed occupiamoci momentaneamente di un argomento che sembra a prima vista assai distante e mescola disinvoltamente Matematica e grammatica. Possiamo infatti convenire che le parole della lingua italiana formano un insieme finito: un dizionario basta ad includerle tutte. Conseguentemente si prova in modo abbastanza semplice che le frasi che si possono formare nella lingua italiana (che sono comunque sequenze ordinate finite di parole) sono al più un’infinità numerabile (come i naturali). Consideriamo allora tutti i numeri reali che si possono definire con un frase di senso compiuto in italiano (zero, uno, radice di due, pi greco e così via). Il loro insieme è soltanto numerabile e, siccome l’intera retta reale è assai più grande e raggiunge la potenza del continuo, ci sono reali che non si possono definire con una frase di senso compiuto in italiano. In particolare, allora, esiste un reale r che ha questa proprietà ed è minimo rispetto al buon ordine che abbiamo riconosciuto ai reali. Ma allora r si può presentare come il numero reale più piccolo rispetto a "maggiore-uguale" che non si può definire con una frase di senso compiuto in italiano e questo lo determina con una frase di senso compiuto in italiano, portandoci ad una apparentemente insuperabile contraddizione. Con questo ragionamento, König supponeva di aver provato l’impossibilità di bene ordinare i reali e di aver confutato irrimediabilmente Zermelo. In realtà l’argomento di König ha qualche imprecisione, che il lettore può cercare di individuare da solo e che comunque segnaleremo più tardi nella nostra esposizione.
Così la situazione torna al punto di partenza e possiamo nuovamente chiederci: il teorema di Zermelo è corretto o no? Dobbiamo accettarlo o rifiutarlo? Quanto è condivisibile l’assunzione che il prodotto cartesiano di una famiglia infinita di insiemi non vuoti resti non vuoto? Infatti, al momento, possiamo solo ragionevolmente ammettere che Zermelo aveva provato – se non proprio che ogni insieme non vuoto si può bene ordinare – almeno che questa affermazione è vera, se accettiamo l’ipotesi appena citata.
Ma, come Borel osservò qualche anno dopo il lavoro di Zermelo, il fatto è che le due proposizioni, pur apparentemente così distanti tra loro, risultano invece equivalenti: due facce della stessa medaglia, due maniere differenti di dire la stessa cosa. Dunque Zermelo non aveva affatto provato che ogni insieme non vuoto si può bene ordinare, ma soltanto sottolineato il collegamento tra questa affermazione e l’altra sui prodotti cartesiani. Più in dettaglio, aveva dimostrato che la seconda è condizione sufficiente per la prima. La seconda proposizione viene oggi usualmente chiamata Assioma moltiplicativo; la prima, in modo improprio, teorema di Zermelo (infatti, a esser precisi, non è affatto un teorema dimostrato da Zermelo). Come detto, Borel segnalò che l’Assioma moltiplicativo è condizione anche necessaria per il teorema di Zermelo e gli è dunque equivalente. Dunque, in conclusione, nonostante il contributo di Zermelo, il problema del buon ordinamento restava all’inizio del secolo scorso un problema ancora aperto.
Paradossi
In effetti qualcosa di peggiore veniva a turbare, in quegli anni di inizio Novecento, lo sviluppo dell’ancor giovane Teoria degli insiemi. Frege si era preoccupato di assicurarle una semplice impalcatura assiomatica, che si basava su due concetti primitivi, quelli di insieme e di proprietà, e su poche e apparentemente plausibili proposizioni, stabilite come assiomi: in particolare, oltre al principio chiamato di estensionalità, che sostiene che due insiemi con gli stessi elementi sono uguali, si accettava il principio di comprensione, secondo cui ogni proprietà definisce un insieme. Ma nel 1901, Bertrand Russell osservò che quest’ultima affermazione è contraddittoria e propose per confutarla il suo celebre paradosso.
Il paradosso di Russell fa lontano riferimento al famoso paradosso del mentitore, che viene attribuito all’antico Epimenide di Creta; è riferito anche da San Paolo nella Lettera a Tito e propone la situazione di una persona che afferma: “io sto mentendo” ma, così dicendo, mente esattamente se dice la verità (un circolo vizioso senza via di uscita o di spiegazione). Del resto, molte versioni divulgative del paradosso di Russell, accessibili anche a chi non è esperto di matematica o di Teoria degli Insiemi, sono disponibili. Ad esempio, Grelling e Nelson nel 1908, ancora mescolando Matematica e dizionari, parlano di aggettivi che descrivono se stessi. Ad esempio, l’aggettivo corto è realmente corto, mentre lungo non è lungo. Introduciamo un nuovo aggettivo X per definire la proprietà di non descrivere se stessi. Allora X descrive se stesso esattamente quando non è capace di farlo: di nuovo, una situazione senza possibile spiegazione. Un’altra versione popolare del paradosso fu fornita dallo stesso Russell nel 1918 e parla di un paese in cui c’è un barbiere che rade tutti e soli quelli che non si radono da soli. La domanda stavolta è: chi rade il barbiere? In effetti, il barbiere si rade da solo se e solo se non si rade da solo. Un’ultima versione divulgativa, proposta dal matematico inglese Jourdain nel 1913 e riferita ad esempio in [3], necessita di un foglio di carta: su una facciata leggiamo “la proposizione sul retro è vera”, sull’altra “la proposizione sul retro è falsa”. Così, se vogliamo dar fede ad ambedue le affermazioni, dobbiamo prendere atto che il primo enunciato è vero esattamente se è falso.
Come detto, il paradosso di Russell riproduce le precedenti contraddizioni nell’ambito della Teoria degli insiemi, così come essa era stata inquadrata da Frege. Per introdurlo, dobbiamo convenire su un’ovvia premessa e accettare senza scandalo che un insieme possa essere contemporaneamente un elemento di un insieme; ad esempio, ogni insieme A fa parte, come elemento, dell’insieme dei sottoinsiemi di A. Allora possiamo chiederci se un insieme A può appartenere come elemento a se stesso e comunque isolare la proprietà “A appartiene a se stesso” o anche la (più verosimile) negazione “A non appartiene a se stesso”. Secondo il principio di comprensione di Frege, quest’ultima proprietà determina un insieme B, quello costituito da tutti e soli gli insiemi che non appartengono a se stessi. La domanda che ci poniamo è: B appartiene a se stesso? Ma la risposta è, nuovamente, un circolo vizioso senza via di uscita: B appartiene a se stesso se e solo se soddisfa la condizione di appartenenza a B e dunque se e solo se non appartiene a se stesso.
Russell comunicò il suo paradosso a Frege in una lettera del 1902 e Frege lo pubblicò nel 1903 in appendice alla sua opera [4], commentando tristemente che “ad uno scrittore di scienza ben poco può giungere di più sgradito del fatto che, dopo aver completato un lavoro, uno dei suoi fondamenti venga scosso”. In effetti, la scoperta e la divulgazione del paradosso di Russell misero in seria crisi non solo l’approccio di Frege alla Teoria degli insiemi, ma anche la stessa Teoria degli insiemi: come possiamo continuare a studiare e approfondire un argomento in cui affiorano così evidenti e (tutto sommato) elementari contraddizioni?
Al di là dell’amarezza di Frege, la reazione del mondo matematico fu ampia, polemica, varia e articolata. Negli stessi anni, altre contraddizioni affioravano nelle basi della Matematica ed in particolare nella Teoria degli insiemi, accompagnando il paradosso di Russell ed accentuandone l’azione critica e, forse, disgregatrice. Ci limitiamo a citare un argomento, dovuto a Richard e Berry, che ha forti analogie con la presunta dimostrazione di König (sopra riferita) circa il fatto che l’insieme dei reali non si può bene ordinare. Consideriamo, infatti, la versione di Berry del paradosso. In essa, si mescolano nuovamente Aritmetica e dizionari e si trattano i numeri naturali che si possono definire in almeno un modo con meno di quaranta sillabe della lingua italiana. Siccome le sillabe cui attingere sono solo una quantità finita e le loro possibili sequenze di lunghezza 40 sono quindi ugualmente finite, ne deduciamo che i numeri che possono essere formati in questo modo sono, nuovamente, una quantità finita. Esistono dunque naturali che non si possono esprimere in nessun modo con meno di 40 sillabe in italiano e quindi, dal Principio del Minimo, deduciamo che c’è un primo naturale n con questa proprietà: n è allora il più piccolo numero naturale che non si può definire con meno di quaranta sillabe nella lingua italiana. Ma un rapido controllo mostra come le sillabe appena usate per descrivere n sono meno di quaranta (38, salvo errori). Quindi ci troviamo di fronte ad una contraddizione.
Come si vede, in questa atmosfera di profonda crisi, la questione del teorema di Zermelo può sembrare assai relativa e marginale e perdere molto del suo interesse di fronte a problemi più urgenti e precedenze più assolute, quali quelle di capire e superare in qualche modo le contraddizioni che vengono a minare le basi e lo sviluppo della Teoria degli insiemi e forse della stessa Matematica e rifondarne in modo coerente l’intera struttura.
Come evitare i paradossi
Come detto, i paradossi di Russell, Richard, Berry e altri portarono a reazioni molteplici e talora opposte, ma con una sorta di comune leit-motiv: l’esigenza di rimeditare e comprendere la reale natura della Matematica. Ora – rozzamente parlando – fare Matematica significa provare teoremi, almeno secondo una visione molto popolare e certamente influenzata dal dibattito che proprio in quegli anni del primo Novecento si svolse. D’altra parte, qualunque testo di Matematica (Algebra, Analisi o Geometria) testimonia che un teorema si dimostra ragionando su risultati precedentemente accertati. Proprio per questo motivo, il primo teorema di un libro non può fare riferimento a niente di già provato e deve fondarsi su qualcosa di così evidente che tutti possano accettarlo: quelle proposizioni, cioè, che siamo soliti chiamare assiomi.
Questa concezione della Matematica, come scienza che deriva teoremi da assiomi, non era affatto nuova e risaliva in realtà al mondo greco classico e ad Euclide in particolare. Del resto la stessa parola assioma deriva dal greco antico e denota quel che è degno di considerazione e fiducia. Il primo ad adoperarla fu Aristotele, per indicare “una proposizione da cui parte la dimostrazione e di cui tutti possono far uso perché appartiene all’essere in quanto essere”. Le opere di Euclide – i suoi Elementi – avevano sottolineato questo ruolo degli assiomi nello sviluppo della Matematica, come base intuitiva necessaria per indirizzare le dimostrazioni.
La visione di Euclide fu ripresa, proprio in quegli anni di fine Ottocento e inizio Novecento, principalmente ad opera di David Hilbert. Anche per Hilbert, la Matematica si organizza nei suoi settori di interesse (come la Teoria degli insiemi, l’Algebra, la Geometria e qualunque altro argomento si intenda affrontare) stabilendo alla propria base un sistema di proposizioni elementari chiamati assiomi, derivandone le sue dimostrazioni come sequenze finite di affermazioni costruite tramite schemi prestabiliti di ragionamento (le regole di deduzione) e ottenendo i suoi teoremi come ultimi passi, appunto, di una dimostrazione. Come si vede, questa concezione sembra ricalcare abbastanza fedelmente la prospettiva di Euclide. Pur tuttavia, una differenza sostanziale distingue Euclide da Hilbert.
Nella visione del primo, infatti, è fondamentale il riferimento alla intuizione: è l’intuizione che suggerisce gli assiomi, come proposizioni elementari evidenti e facilmente condivisibili; è l’intuizione, ancora, che guida la ricerca matematica e la deduzione dei teoremi. L’impalcatura costituita da assiomi e dimostrazioni costituisce un sostegno logico e scientifico per assecondare e aiutare l’intuizione. La concezione di Hilbert, invece, è assai più fredda e formale. In particolare, il criterio-guida per giudicare la bontà di un sistema assiomatico non è tanto la sua corrispondenza alla nostra intuizione e il suffragio di una presunta evidenza, quanto piuttosto la sua coerenza, l’assenza cioè di paradossi e contraddizioni e la certezza che le dimostrazioni che da quel sistema nascono non produrranno mai risultati assurdi ed inconciliabili.
A questo proposito, una buona domanda riguarda chi è delegato a controllare ed assicurare la coerenza di un sistema assiomatico. Ebbene, nella visione di Hilbert, il sistema stesso dovrebbe autocertificare l’intrinseca assenza di contraddizioni, come un proprio particolare teorema e dunque al termine di un’appropriata dimostrazione. Ma qui il discorso diviene molto astratto, delicato e difficile e ci limitiamo allora a questo breve cenno.
Semmai, c’è da sottolineare un’altra buona qualità che un sistema assiomatico degno di questo nome dovrebbe possedere, oltre alla coerenza, e cioè la completezza: la capacità, in altre parole, di dimostrare, per ogni possibile proposizione che lo riguarda, o la proposizione stessa o la sua negazione (ma, naturalmente, non entrambe per non sacrificare la coerenza). Il sogno di Hilbert era quello di poter edificare l’intera struttura della Matematica come una famiglia di sistemi assiomatici, con le loro brave regole di deduzione, tutti coerenti e completi e conseguentemente capaci di dominare senza contraddizioni qualunque questione in qualunque settore di ricerca.
Questa concezione, e l’importanza del metodo assiomatico, appaiono già – almeno in germe – nelle opere che Hilbert dedicò nel 1899 ad una sistemazione completa della Geometria elementare (“Grundlagen der geometrie”) e l’anno dopo ad un’analoga riflessione sui numeri reali (“Über der zahlengriff”) anche se, ad essere onesti, la formalizzazione delle idee di Hilbert e del suo Programma doveva ancora attendere alcuni anni e solo nel 1925 ebbe la sua espressione esplicita nel trattato “Sull’Infinito”. Quel che successe dopo quella pubblicazione, ed i conseguenti teoremi di incompletezza di Gödel, sarebbero (e sono stati) un ottimo spunto per molti articoli descrittivi.
Ma ritorniamo al 1900 e agli albori del metodo assiomatico di Hilbert. Come detto, la visione della Matematica che ne risulta tende a cercare, in ogni possibile ambito di studio, un sistema di assiomi fondamentali su cui basare tutta la ricerca e poi a determinare i teoremi come pure conseguenze formali delle regole di deduzione. Quello che a noi interessa sottolineare è la prima parte del programma e cioè la determinazione degli assiomi. Come il lettore può facilmente intendere, non si tratta più soltanto di accumulare qualche evidente verità che faciliti poi la successiva attività di studio, ma di cogliere i fondamenti essenziali della teoria che si intende affrontare. L’esempio di Frege mostrava, proprio in quegli stessi anni, quanto delicato e difficile fosse questo lavoro. Come Hilbert metteva in evidenza, gli assiomi vanno scelti ed organizzati in modo da soddisfare le condizioni essenziali già menzionate:
- la coerenza (gli assiomi devono evitare ogni possibile contraddizione, che ne possa inficiare un domani la validità);
- la completezza (gli assiomi devono permettere di provare, per ogni possibile proposizione, o la proposizione stessa, o la sua negazione).
Come detto, l’importanza del requisito della coerenza era già evidente ad Hilbert nel 1900, se al secondo posto della celebre lista di problemi matematici da lui proposti al secondo Congresso Internazionale tenutosi a Parigi decise di porre la questione della coerenza dell’Aritmetica. Ci sarebbe poi da citare un ultimo requisito che un buon sistema matematico dovrebbe possedere, e cioè l’indipendenza: in altre parole, tutti gli assiomi del sistema dovrebbero essere effettivamente indispensabili e non dovrebbe succedere che, in modo magari nascosto e indiretto, uno di essi derivi dagli altri come loro conseguenza. In tal caso, sarebbe superfluo, passerebbe ad essere un teorema e potrebbe essere eliminato dalla lista degli assiomi.
Adesso torniamo finalmente alla nostra povera Teoria degli insiemi, così scossa e turbata dal Paradosso di Russell e da altre simili contraddizioni. Seguendo la prospettiva di Hilbert ed il metodo assiomatico, Zermelo cercò di riformulare la Teoria degli insiemi di Cantor in termini non contraddittori. Anzitutto, Zermelo si preoccupò di indebolire opportunamente il Principio di Comprensione di Frege; era in quella proposizione, infatti, e nella conseguente libertà di formare insiemi a partire da ogni proprietà, che si annidava l’origine del paradosso di Russell. Zermelo propose allora di sostituirla con quello che chiamò Assioma di isolamento, il quale consentiva, sì, di costruire insiemi di elementi che soddisfano una certa proprietà, ma solo ritagliandoli all’interno di un altro insieme già esistente. Ad esempio, in riferimento al Paradosso di Russell, per ogni insieme A possiamo costruire l’insieme degli insiemi X che appartengono ad A e non sono elementi di se stessi, ma non siamo invece esplicitamente autorizzati a formare l’insieme di tutti gli insiemi X che non appartengono a se stessi.
Zermelo accolse poi altri principi di Frege, ad esempio quello della estensionalità che afferma che due insiemi con gli stessi elementi sono uguali, e si preoccupò di aggiungere ulteriori assiomi che assicurano l’esistenza dell’insieme vuoto e di un insieme infinito e autorizzano elementari costruzioni di insiemi, come unione, insieme delle parti, coppie, e così via. Il sistema assiomatico di Zermelo per la Teoria degli insiemi, che comparve per la prima volta nel 1908 in [5], includeva finalmente una proposizione che conosciamo bene e cioè quello che abbiamo chiamato Teorema di Zermelo oppure, nella sua formulazione equivalente, Assioma moltiplicativo. Ad essere pignoli, la versione con cui questa proposizione appariva nella lista di Zermelo era un’altra ancora, ed asseriva che “se A è un insieme di insiemi X non vuoti a due a due disgiunti, allora c’è un insieme S che interseca ogni X in esattamente un elemento e cioè, in altre parole, sceglie un elemento in ogni X”.
Questa nuova formulazione, fornita da Russell nel 1906, si mostra comunque in modo molto semplice essere equivalente all’Assioma Moltiplicativo. Là, infatti, si afferma che il prodotto cartesiano di una famiglia infinita di insiemi non vuoti rimane non vuoto. Ora, se riflettiamo un attimo su come si definisce il prodotto cartesiano di una famiglia di insiemi, o magari andiamo a consultare i testi di Matematica sull’argomento, ci rendiamo conto che, se {Ai : i ÎI} è la nostra famiglia ed I il corrispondente insieme di indici, allora P iÎI Ai viene introdotto come l’insieme delle funzioni f da I in È iÎI Ai che associano ad ogni i un elemento di Ai. Dunque, asserire che esiste una tale funzione f (come l’Assioma Moltiplicativo fa) significa ammettere che c’è modo di scegliere un elemento in ogni Ai, il che ci conduce abbastanza facilmente alla formulazione di Russell sopra menzionata. Anzi, c’è un’ulteriore maniera di esprimere la stessa proposizione, che si chiama Assioma della scelta e recita più o meno così: “se A è una famiglia non vuota di insiemi X non vuoti, allora esiste una funzione f definita su A che ad ogni X associa un elemento f(X) di X”.
Comunque lo vogliamo formulare, l’Assioma della scelta è l’ultima proposizione del sistema di Zermelo. È da notare che, in questo modo, inserendo l’Assioma Moltiplicativo o il suo “Teorema”, nella lista degli assiomi della Teoria degli insiemi, Zermelo risolveva in modo forse troppo sbrigativo e certamente discutibile la questione del buon ordinamento, allontanandola dal pericoloso terreno dei risultati da dimostrare e collocandola nell’apparentemente più tranquillo settore dei dogmi da accettare. Del resto, questa opzione corrispondeva al suo originario parere sull’Assioma Moltiplicativo stesso del quale, come sappiamo, aveva detto che si può applicare ovunque senza esitazione; ma, a questo proposito, conosciamo anche quanto discussa fosse stata tra i suoi contemporanei matematici questa opinione o comunque la conseguenza dello stesso Assioma moltiplicativo a proposito del buon ordinamento.
Completata la sua lista, Zermelo si preoccupò giustamente di verificarne la coerenza, in accordo con lo spirito di Hilbert. Ma dovette ammettere onestamente di non riuscire a dimostrare che i suoi assiomi evitavano ogni contraddizione anche se, fortunatamente, escludevano e superavano tutti i paradossi affiorati in quegli anni, incluso soprattutto quello di Russell.
Qualche anno dopo, Fraenkel rielaborò (insieme a Skolem e Von Neumann) il sistema di Zermelo e ne propose una revisione [6], che viene usualmente chiamata teoria di Zermelo-Fraenkel e denotata, dalle iniziali dei nomi di chi l’aveva costruita, ZF. Quali erano i vantaggi della nuova formulazione? Anzitutto, adottava un linguaggio logico formale più preciso e rigoroso, che evitava certe ambiguità linguistiche e certe imprecisioni della originaria versione di Zermelo. Secondariamente, Fraenkel escluse il discutibile Assioma della scelta. Le proposizioni restanti furono, come già detto, opportunamente rielaborate ed integrate. Ad esempio, si eliminarono alcune ridondanze del primitivo sistema di Zermelo, garantendone così il requisito della indipendenza. In particolare, poi, il fondamentale Assioma di Isolamento (l’indebolimento del Principio di Comprensione di Frege) fu nuovamente adattato e cambiò anche il suo nome, diventando l’Assioma di Separazione; inoltre fu aggiunta una nuova affermazione, chiamata Assioma di Fondazione o Regolarità la quale, per evitare il Paradosso di Russell ed altre consimili contraddizioni, esclude che ogni collezione di oggetti che ci può venire in mente sia per ciò stesso un insieme ed afferma in dettaglio che “ogni insieme non vuoto X contiene un elemento Y che, come insieme, è disgiunto da X” (come già accennato prima, non dobbiamo scandalizzarci di vedere insiemi Y che disinvoltamente diventano elementi, o viceversa: un minimo di confidenza con la Teoria degli insiemi comunica sufficiente elasticità a questo proposito). La sistemazione di Fraenkel, se ovviava a certi difetti dell’approccio di Zermelo, ne manteneva i pregi, escludendo in particolare il Paradosso di Russell. Ecco il perché. Anzitutto, ricordiamo ancora che non ogni possibile collezione C di insiemi è un insieme. Talora questo è vero, come capita ad esempio se C è l’insieme dei sottoinsiemi di un dato insieme A: c’è infatti un assioma esplicito di ZF – quello della potenza – che assicura che C è in questo caso un insieme. Ma, altre volte, ancora sulla base di ZF, la affermazione si dimostra assolutamente falsa.
Teorema La collezione C di tutti gli insiemi non è un insieme
La dimostrazione adatta opportunamente proprio il Paradosso di Russell. Assumiamo infatti, per assurdo, che C sia un insieme (non vuoto). Usiamo allora l’Assioma di Isolamento o, se preferiamo chiamarlo con il nuovo nome, di Separazione e formiamo l’insieme B degli elementi X di C che non appartengono a se stessi. Allora B [ B se e solo se B ” B, il che produce una contraddizione e conduce a negare l’ipotesi non autorizzata, e cioè che C sia un insieme.
Si prova poi che:
Teorema Nessun insieme X appartiene a se stesso
Procediamo infatti nuovamente per assurdo e supponiamo di avere un insieme X [ X. Usiamo l’Isolamento e costruiamo l’insieme Y degli Z [ X che soddisfano la proprietà Z [ Z. Y contiene X come elemento e dunque non è vuoto. Adesso adoperiamo l’Assioma di Fondazione ed otteniamo un elemento U [ Y disgiunto da Y. Ma U [ Y impone U [ U, il che produce la desiderata contraddizione.
A questo punto, il Paradosso di Russell è facilmente superato. La collezione degli insiemi che non appartengono a se stessi coincide per il Teorema 4.2 alla collezione di tutti gli insiemi e dunque, per il Teorema 4.1, non è un insieme. Ma allora non ha più molto senso ragionare se appartiene a se stesso oppure no: una soluzione che può forse comunicare al lettore quella stessa impressione di delusione di certi libri gialli, che tengono inchiodati per ore con la loro tensione e poi si concludono con la banale scoperta che l’assassino è il maggiordomo. Pur tuttavia, sempre di una soluzione si tratta, e completamente logica. Dunque, possiamo procedere.
Magari, visto che siamo in tema di paradossi, vale la pena di spendere qualche parola su quello di Berry, o di Richard (o di König o come preferite chiamarlo). Ma qui il difetto sta nella già sottolineata confusione tra Matematica e lingua e sull’equivoco di quel che realmente significa definire un numero con una frase compiuta in italiano (o in inglese, francese ecc.): che zero si chiami zero non è, ad esempio, legge matematica universale ma solo una convenzione passeggera; lo stesso vale per il nome che vogliamo assegnare al presunto buon ordine dei reali. Dunque non c’è nulla di definitivo nel modo in cui chiamiamo i numeri o le relazioni e nulla di rigoroso in quanto possiamo dedurre a questo riguardo.
Per concludere il paragrafo, accenniamo al problema della coerenza di ZF. Come abbiamo ricordato, Zermelo non fu capace di provarla (per il suo originario sistema assiomatico). Nessuno comunque riuscì neppure a confutarla, né c’è riuscito fino ad oggi, producendo qualche nuovo paradosso. D’altra parte, una delle conseguenze dei fondamentali Teoremi di Incompletezza di Gödel del 1930 è che, se pure ZF è coerente e quindi esclude contraddizioni, non è comunque lo stesso ZF che riesce a dimostrarlo come un suo specifico teorema: nessuna autocertificazione nello stile desiderato da Hilbert è qui possibile.
E l’Assioma della scelta (nelle sue varie formulazioni)? Escluso dalla lista dei fondamenti di ZF e tornato nell’incerto territorio delle proposizioni da dimostrare o contraddire, si può finalmente provare o trova, appunto, controesempi? Questo è l’argomento che cercheremo di discutere nel prossimo paragrafo.
L’assioma della scelta
Come abbiamo appena finito di dire, quello che chiamiamo Assioma della scelta è in realtà una delle possibili formulazioni di una proposizione matematica assai poliedrica, che può anche indifferentemente ed equivalentemente presentarsi nelle vesti dell’apparentemente innocuo Assioma Moltiplicativo o in quelle del controverso Teorema di Zermelo o ancora in quelle della versione dell’Insieme di scelta proposta da Russell. E l’elenco non finisce certamente qui e si potrebbe allungare assai, come il lettore interessato può facilmente verificare consultando il libro di Jech [7] o il successivo articolo [8] o molti siti Internet dedicati all’argomento (dove numerose altre formulazioni del principio della scelta sono presentate). Semmai qui, nei ristretti limiti di queste pagine, vale la pena di ricordarne ancora una, abbastanza ostica e complicata e pur tuttavia popolare, perché spesso utilizzata nelle dimostrazioni e quindi facile da incontrare nei manuali di Matematica: il Lemma di Zorn. Questo principio, equivalente a tutti i precedenti, fu individuato da Zorn nel 1935 [9] ed afferma quanto segue: “ammettiamo di avere un insieme A non vuoto e parzialmente ordinato da una relazione <=. Ammettiamo poi che ogni sottoinsieme X di A totalmente ordinato da <= abbia qualche limitazione superiore in A, esista cioè qualche a Î A tale che a >= x per ogni x ÎX. Allora A ammette elementi massimali rispetto a <=; in altre parole esiste qualche m Î A che non è necessariamente più grande di tutti gli altri elementi di A, ma tuttavia non ammette elementi maggiori di lui, nel senso che ogni b Î A confrontabile con m rispetto a <= risulta <= m”.
Va detto che la denominazione Lemma è, come nel caso del Teorema di Zermelo, imprecisa e fuorviante. A sgombrare il campo da equivoci, ripetiamo dunque che, anche in questo caso, il Lemma di Zorn non dimostra nulla di definitivo, se non il fatto che il suo enunciato è, appunto, equivalente all’Assioma della scelta nelle sue varie formulazioni. Va anche riconosciuto che il Lemma di Zorn ha un enunciato assai più articolato e indigesto delle altre proposizioni equivalenti e, pur tuttavia, è il più immediato e diretto da utilizzare nelle applicazioni (delle quali avremo presto modo di menzionare qualche esempio).
Ma a questo punto, a prescindere dalla particolare versione con cui intendiamo presentare l’Assioma della scelta, dobbiamo riproporci la stessa domanda che già interessava Cantor e Zermelo: l’Assioma della scelta (o il Teorema di Zermelo o l’Assioma Moltiplicativo o il Lemma di Zorn) è vero o falso? Nessun progresso sembra derivare da tutte le considerazioni che abbiamo sviluppato nel frattempo. Eppure, abbiamo un qualche vantaggio rispetto a Cantor e Zermelo nel 1904, perché essi dovevano comunque riferirsi ad approcci naïf alla Teoria degli insiemi, quale quello di Frege, e noi possiamo invece disporre del più fine sistema ZF. Così il nostro interrogativo si può riformulare come segue. Assumiamo preliminarmente che ZF sia coerente: l’Assioma della scelta può essere dimostrato da ZF? O, semmai, si può dedurre da ZF la sua negazione?
Ma neppure il riferimento a ZF riesce a chiarirci la situazione. È infatti vero che Kurt Gödel provò nel 1938 in [10] che
Teorema Se ZF è coerente, allora è impossibile che ZF dimostri il contrario dell’Assioma di Scelta
Sempre assumendo che ZF sia coerente ed escluda contraddizioni, questo teorema può interpretarsi come un argomento a favore dell’Assioma della scelta. Pur tuttavia, sotto questo punto di vista, la partita tra assioma e negazione è perfettamente in pari, perché solo qualche anno dopo, nel 1963, P. Cohen [11] arrivò a concludere:
Teorema Se ZF è coerente, allora è anche impossibile che ZF dimostri l’Assioma della Scelta.
Dunque, ZF non è un sistema completo di assiomi e proprio l’Assioma della scelta pregiudica questo requisito di completezza perché, né affermato né negato, riesce a venir provato da ZF. In altre parole, ancora, possiamo accogliere l’Assioma della scelta, oppure la sua negazione, come nuovo enunciato da aggiungere ai fondamenti di ZF. Per i citati teoremi di Gödel e di Cohen, l’una e l’altra opzione (pur opposte tra loro) sono ugualmente plausibili: la prima, che corrisponde al vecchio punto di vista di Zermelo, ma anche l’altra che lo rifiuta.
D’altra parte, visto che la nostra proposizione sfugge al rigore meccanico dei teoremi e ritorna all’ambito più vago e indistinto degli assiomi, possiamo tornare a considerarla e giudicarla dal punto di vista della mera intuizione e domandarci: che cosa è più plausibile, l’Assioma della scelta o la sua negazione? Ma neanche ridotta in questi termini la questione riesce ad acquisire maggior nitore. Il fatto è che l’Assioma di scelta ha tante possibili formulazioni e quel che pare evidente per una sembra assai meno condivisibile per un’altra. Per dirla con J. Bona, “l’assioma moltiplicativo è ovviamente vero, il principio del buon ordinamento è ovviamente falso e, circa il lemma di Zorn, chi è capace di capirci qualcosa?” Il guaio è che questa battuta (o presunta tale) oltrepassa i limiti dello scherzo e descrive perfettamente una ragionevolissima e variabilissima reazione di fronte ai tre enunciati coinvolti (che tuttavia sono tra loro equivalenti).
Comunque, c’è una caratteristica che li accomuna (insieme alle altre affermazioni gemelle) e che li rende, appunto, discutibili e non così convincenti come si vorrebbe. Tutti affermano l’esistenza di un qualche oggetto (una funzione di scelta, un insieme di scelta, un buon ordinamento, un elemento massimale, a seconda dei casi) ma nessuno ci dice come costruire effettivamente quello di cui si assicura l’esistenza. Per chiarire questo punto, possiamo citare ancora una volta Bertrand Russell e la sua osservazione: “per scegliere un calzino da ognuna di infinite paia di calzini occorre l’Assioma di scelta, mentre per le scarpe l’assioma non è più necessario”.
In effetti, se ci troviamo di fronte a tante (eventualmente infinite) paia di scarpe, abbiamo un ovvio criterio generale per scegliere una scarpa da ogni paio, ad esempio prendere sempre la scarpa destra o la sinistra. Ma davanti a infinite paia di calzini lo stesso procedimento non funziona più, perché i calzini di un paio sono identici e non c’è nessuna certezza che quello che infiliamo a destra una mattina non sia lo stesso che indossiamo a sinistra la volta dopo. È in situazioni come queste che, per ottenere una funzione di scelta f, non possiamo che postularne l’esistenza. Quando però procederemo nelle successive dimostrazioni e vi coinvolgeremo la nostra f, dovremo onestamente ammettere che f è un atto di fede e in realtà non sappiamo fornirne alcun esempio esplicito o algoritmo di costruzione. In effetti, uno dei maggiori argomenti a sfavore dell’Assioma della scelta è proprio questo suo carattere non costruttivo.
E pur tuttavia, ci sono ottime ragioni a sostegno del nostro assioma. Infatti, tanti fondamentali teoremi in Algebra, in Algebra lineare, in Topologia, in Analisi matematica basano la loro dimostrazione su un uso decisivo dell’Assioma della scelta: il solo sistema ZF, orfano della scelta, non è capace di provarli. Ad esempio, leggiamo nei manuali di Algebra che un anello commutativo unitario ammette sempre ideali massimali – un famoso teorema di Krull del 1929 – ma, quando scorriamo la successiva dimostrazione, è assai probabile che vi vediamo coinvolto il Lemma di Zorn (e comunque l’Assioma della scelta in una sua qualche formulazione). Allo stesso modo, siamo abituati ad ammettere in Algebra lineare che ogni spazio vettoriale ha una base e una dimensione. Anche questa certezza deriva in modo decisivo dall’Assioma della scelta che viene impiegato tramite il Lemma di Zorn, oppure mediante il Teorema di Zermelo. Potremmo continuare a citare per alcune pagine nuovi esempi, attinti dall’Analisi (come il Teorema di Hahn-Banach) o dalla Topologia (come il Teorema di Tychonoff). In tutti questi casi, l’Assioma della scelta è fondamentale strumento della prova tant’è vero che, se per un attimo vi rinunciamo ed imbracciamo la strada della negazione, ecco che dobbiamo prepararci a rivedere molte nostre certezze. L’Assioma della scelta può essere un’opzione rassicurante, atta a tranquillizzare la nostra sensibilità di matematici benpensanti.
Come spiegare i miracoli
Ed eccoci tornare finalmente al teorema di Banach-Tarski e al suo presunto miracolo di moltiplicazione delle sfere, per cercarne una qualche spiegazione. Dopo tutte le considerazioni dei precedenti paragrafi, possiamo ragionevolmente accettare di muoverci in una Matematica che ha ZF e, perché no?, anche l’Assioma della scelta come suoi fondamenti. Una famosa conseguenza di questa assunzione è un teorema di Analisi matematica (di Giuseppe Vitali [12]) che afferma:
Teorema Ci sono sottoinsiemi della retta reale R che non sono misurabili.
Il Teorema di Vitali afferma che già sulla retta, per la dimensione 1, ed addirittura all’interno del segmento chiuso di estremi 0 e 1, si possono inventare insiemi talmente complicati da sfuggire ogni possibile misura. Come si vede, si tratta di un risultato profondo e pur tuttavia, forse a causa della sua stessa profondità, apparentemente innocuo e facile da accettare: una sorta di quelle diavolerie matematiche, di quei ragionamenti così sottili da trascendere ogni ragionevole controllo intuitivo e quindi digeriti per pigrizia se non proprio per convinzione. Comunque, nulla di scandaloso. Eppure, esso include già in germe tutta la bizzarria del Paradosso di Banach-Tarski: vedremo tra un attimo perché. A suo proposito, vale infatti ancora la pena di aggiungere che la dimostrazione non è affatto costruttiva e diretta, non produce cioè esplicitamente quell’insieme senza misura che promette, ma ne deduce l’esistenza basandosi in modo decisivo sull’Assioma della scelta. Anzi, se si cercasse di evitare l’uso del nostro assioma e si preferisse prescinderne, ci troveremmo di fronte ad un situazione analoga a quelle accennate nello scorso paragrafo: Solovay [13] propose infatti nel 1970 un modello di ZF (e non dell’Assioma della scelta) nel quale ogni insieme di reali ha una misura secondo Lebesgue.
Ma a questo punto, dopo una così lunga attesa e preparazione, è davvero il caso che arriviamo finalmente a trattare il risultato da cui siamo partiti e cioè il Paradosso di Banach-Tarski. Anzitutto, a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, sarà bene chiarire che il termine paradosso non è qui usato nello stesso senso di Russell o di Berry; non si tratta più di una contraddizione e di una incoerenza, ma piuttosto di un risultato strano, bizzarro, stupefacente e pur tuttavia pienamente in linea con la Matematica ufficiale.
Come detto, la dimostrazione del Paradosso di Banach-Tarski ricalca per certi versi, con maggiori complicazioni, gli argomenti usati da Vitali per la retta reale. Anzi, ad essere precisi, fa riferimento ad un’analoga analisi svolta da Hausdorff nel 1914 nello spazio a 3 dimensioni, a proposito di una superficie sferica S invece che del segmento: con l’aiuto decisivo dell’Assioma della scelta e con l’uso altrettanto fondamentale di proprietà delle rotazioni nello spazio tridimensionale, Hausdorff provò che S si può decomporre in quattro parti non vuote e tra loro disgiunte, delle quali tre sono uguali tra loro – e fin qui non c’è nulla di strano – ma anche uguali alla loro unione (e qui si sconfina in terreni che paiono contrastare l’intuizione). Banach e Tarski proiettarono questa decomposizione di Hausdorff dalla superficie esterna all’interno della sfera, deducendone la sorprendente e appariscente duplicazione di cui abbiamo già avuto modo di parlare.
Come si può immaginare, la dimostrazione è lunga e sofisticata e riferirne in dettaglio esula dai confini di questo lavoro. Come detto, alcuni spunti vi richiamano il ragionamento di Vitali; ad esempio, l’uso dell’Assioma della scelta è decisivo. Ma, al di là di questo comune fondamento, riesce difficile cogliere un’analogia tra un risultato profondo ma innocuo come sembra quello di Vitali e i paradossi di Hausdorff e di Banach-Tarski, i quali invece sconcertano ed urtano le nostre intuizioni naturali ed in particolare, per voler parlare in termini più ufficiali e scientifici, il principio newtoniano della conservazione della massa. Infatti, si può anche concordare che ci siano insiemi senza misura; ma come possiamo accettare che la materia si duplichi?
D’altra parte, proprio le formule della Fisica elementare ci ricordano che la massa di un corpo di densità uniforme è data dal prodotto della densità e del volume. Ora, dall’Assioma della scelta possiamo dedurre che esistono insiemi senza misura e in particolare, nell’usuale spazio a tre dimensioni, solidi senza volume: questa è la conclusione che accomuna il teorema di Vitali e quelli di Hausdorff e Banach-Tarski. Ma, a proposito di questi ultimi, dobbiamo prendere atto che, se il volume non esiste e non può essere calcolato, non possiamo neppure controllare che raddoppi: porzioni di sfera prive di misura possono riaggregarsi in modo da duplicare la loro unione proprio perché sfuggono alle leggi che la misura deve ragionevolmente rispettare. È proprio l’assenza di volume che, combinata con l’uso di appropriate rotazioni, permette un incantesimo matematico sorprendente ma non scandaloso. Così, in definitiva, il Paradosso di Banach-Tarski, lungi dal violare il principio della conservazione della massa, mette piuttosto in evidenza che la nozione di volume è molto più complicata e delicata di quello che ingenuamente potremmo pensare e che non è affatto automatico o assodato che tutti i corpi, in particolare tutte le porzioni di sfera, abbiano la loro misura. V’è poi da sottolineare il ruolo non secondario che le proprietà delle rotazioni della sfera in uno spazio tridimensionale svolgono nella dimostrazione; tant’è vero che, se scendiamo alla dimensione 2, nel piano, il paradosso non sussiste più, e duplicazioni magiche non sono possibili. Per insistere con l’analogia azzardata nel primo paragrafo, si possono moltiplicare pani o pesci, o lingotti d’oro, ma non banconote.
Va infine nuovamente ribadito che, come accade quando si applica l’Assioma della scelta, così anche nella dimostrazione di Banach-Tarski la decomposizione di cui si afferma l’esistenza non è prodotta esplicitamente in modo effettivo e dunque non è affatto garantito che la suddivisione miracolosa possa davvero svolgersi sotto i nostri occhi. In effetti, ancora una volta tutta la costruzione dipende dal nostro assioma: se lo accettiamo, dobbiamo accogliere anche questa sua conseguenza; se lo rifiutiamo, dobbiamo rivedere molte altre delle nostre certezze.
In compenso, però, possiamo sapere quale è il numero minimo di parti in cui si può suddividere una sfera per poi duplicarla. Un articolo di Raphael M. Robinson del 1947 [14] fissa in 5 questa magica quantità.
Questa è il termine del nostro itinerario. Non sappiamo prevedere la reazione del lettore. Forse avrà la stessa infastidita delusione dei lettori di certi libri gialli, che descrivevamo qualche pagina fa, o magari sarà attratto da tutte le nostre superficiali argomentazioni e portato a più seri approfondimenti (che potrà trovare, ad esempio, in [15]). Da parte nostra, riesce difficile tracciare conclusioni o trarre morali, se non quella, forse scontata, che la Matematica è scienza sottile e meritevole di rispetto e che talora quel che apparentemente vi sembra ovviamente falso (come il nostro paradosso), oppure ovviamente vero (come la classica opinione che due più due fa sempre quattro) nasconde inaspettate profondità.
Bibliografia
[1] S. Banach-A. Tarski, Sur la décomposition des ensembles des points en parties respectivement congruentes,
Fundamenta Mathematicae 6 (1924), pp. 244-277.
[2] E. Zermelo, Beweis, dass jede menge wohlgeordnet werden kann, Mathematische Annalen 59 (1904), pp. 514-516.
[3] R. Smullyan, Quale è il titolo di questo libro, Zanichelli, Bologna, 1981.
[4] G. Frege, Grundgesetze der arithmetik, II , Pohle, Jena, 1903.
[5] E. Zermelo, Untersuchungen über die grundlagen der mengenlehre, I, Mathematische Annalen 65 (1908), pp. 261-281.
[6] A.A. Fraenkel, Zu den grundlagen der Cantor-Zermeloschen mengenlehre, Mathematische Annalen 86 (1922), pp. 230-237.
[7] T. Jech, The axiom of choice, North Holland, Amsterdam, 1978.
[8] T. Jech, About the axiom of choice, pp. 345-370 in Handbook of Mathematical Logic, North Holland, Amsterdam, 1977.
[9] M. Zorn, A remark on method in transfinite algebra, Bulletin American Mathematical Society 41 (1935), pp. 667-670.
[10] K. Gödel, The consistency of the axiom of choice and the generalized continuum hypothesis, Proc. Nat. Acad. Sci. 24, 1938; Ann. Math. Studies 3, Princeton, 1951.
[11] P. Cohen, Set theory and the continuum hypothesis, Benjamin, New York, 1966.
[12] G. Vitali, Sul problema della misura dei gruppi di punti di una retta - 1905 in: G. Vitali, Opere sull’analisi reale e complessa - Carteggio, Unione Matematica Italiana, Bologna, 1984).
[13] R. Solovay, A model of set theory in which every set of reals is Lebesgue measurable, Annals of Mathematics 92 (1970), pp. 1-56.
[14] R.M. Robinson, On the decompositions of spheres, Fundamenta Mathematicae 34 (1947), 246-260.
[15] S. Wagon, The Banach-Tarski paradox, Cambridge University Press, Cambridge, 1985.