Matematici a tavola
Nella tarda primavera del 585 avanti Cristo a Mileto, fiorente città mercantile fondata da coloni greci in Ionia, in Asia minore, sta per avere luogo un’eclissi solare, prevista da Talete, “il più venerando per sapienza tra tutti gli astronomi”, secondo il quale, come ci attesta tra le numerose testimonianze Diogene Laerzio, sarebbe stata l’acqua il principio dell’universo e il mondo sarebbe animato e pieno di demoni.
Ma, anche per un precedente straordinario e personale successo, è anche il giorno in cui Talete, “fra i Sette Sapienti, portento nell’astronomia”, ha deciso di offrire un banchetto a quanti più amici possibile.
E’ questa anche l’occasione per dimostrare la possibile “utilità” della filosofia contro tutti quei denigratori (ed erano in molti) che gli attribuivano l’abitudine di avere sempre gli occhi al cielo, la testa fra le nuvole e di non preoccuparsi neppure di ciò che aveva dinnanzi, tra i piedi e che, spesso, ricordavano la sua incredibile distrazione che (come ci tramanda Platone), lo avrebbe fatto cadere un giorno in un pozzo, provocando anche il riso irrefrenabile e lo scherno di una servetta tracia.
L’occasione, in questo caso, come attesta Aristotele, che lo dipinge come sapiente sì, ma anche astuto mercante, è determinata dalle sue capacità di previsione.
Sempre in base a computi astronomici, infatti, aveva intuito che ci sarebbe stata, al tempo opportuno, un’abbondante anzi straordinaria raccolta d’olive. Per cui, ancora nel cuore dell’inverno, semplicemente disponendo di una piccola somma di denaro, aveva deciso di accaparrarsi tutti i frantoi di Mileto e di Chio sborsando a chi li possedeva una cifra irrisoria, perché non c’era allora richiesta.
Quando giunse il tempo della raccolta, poiché molti cercavano i frantoi, tutti insieme e con urgenza, Talete li dette a nolo al prezzo che volle e così raccolse molte ricchezze, dimostrando in tal modo che per i filosofi è davvero facile arricchirsi, se lo vogliono, anche se non è di questo che si preoccupano. Così ci tramanda Aristotele nella “Politica”.
Lo spirito pratico di Talete, studioso di geometria, astronomia e meteorologia ha determinato questo suo successo. Ora, raggiante, attende gli ospiti nella sua dimora.
Il banchetto è allestito opportunamente ed armoniosamente imbandito sulla lunga tavolata che, in bella mostra, né poteva essere altrimenti, presenta vivande naturali, semplici e genuine: focacce, verdure di stagione, frutta di ogni tipo, carne arrostita, vino e acqua fresca. In quantità straordinaria poi, crude, cotte al forno, condite e profumate con ogni varietà di aromi spontanei dal profumo penetrante, olive, fragranti e appena raccolte. Il tutto è imbandito in un ambiente sobrio ed elegante, corrispondente in realtà al carattere e allo stile di un uomo tendenzialmente pratico ma di gusti raffinati. In questa scenografia è messo in evidenza il prezioso tripode “tratto su dall'acqua” dai pescatori di Mileto e giunto nella sua casa per volontà dell’oracolo di Delfi, che aveva sentenziato di donarlo a chi, tra tutti, avesse primeggiato per sapienza. Ulteriore dimostrazione delle sue doti non comuni.
Mentre tutti si cibano in perfetta letizia e serenità allietati dal sommesso suono di una cetra rallegrandosi per tale squisita ospitalità, il sole, progressivamente ed inesorabilmente, comincia ad oscurarsi. Come previsto. Era il 28 maggio del 585 a.C., data di nascita, per molti, della filosofia occidentale.
Tra i maggiori segreti custoditi dai pitagorici si tramanda questa distinzione: gli esseri viventi dotati di ragione si distinguono in dei, uomini, ed esseri come Pitagora, fondatore della filosofia italica, figlio di Mnesarco, incisore di pietre preziose per anelli.
Era probabilmente originario di Samo, isola di Ionia prospiciente Efeso e Mileto, dove nacque, se si vuole una data, verso il 575 a.C.
”Giovine avido di scienza, abbandonò la sua patria (forse perché avversato dal tiranno Policrate) e fu iniziato a tutti i riti misterici, sia greci sia barbari.”. E fu poi in Egitto, quindi presso i Caldei e i Magi, e successivamente a Creta, poi ancora a Samo per approdare infine a Crotone d’Italia dove si stabilì ed ebbe origine, diffusione e fama la sua scuola, favorita probabilmente anche dal governo aristocratico della città. Così apprendiamo da Diogene Laerzio nelle sue “vie dei filosofi”:
La sua figura, ben presto, divenne leggendaria:” ebbe un portamento così grave e dignitoso che i suoi discepoli credettero che fosse Apollo venerato dagli Iporborei”.
E non era affatto facile divenire discepolo di Pitagora.
L’apprendistato, o meglio l’iniziazione, era durissimo, denso di severissime regole e imposizioni: dopo aver abbandonato ogni proprietà (i discepoli) osservavano per un quinquennio il silenzio, “erano soltanto uditori e non vedevano mai Pitagora fino a quando non ne fossero stati giudicati degni”. Solo allora erano ammessi alla sua casa e al suo cospetto e soprattutto potevano cominciare a prendere dimestichezza con i suoi simboli, con le sue regole, coi suoi divieti, con le sue concessioni.
”Non attizzare il fuoco con un coltello, non far tracollare la bilancia, non sedere sulla chenice (misura di grano), non mangiare il cuore, aiuta a deporre il carico e non aggravarlo, abbi le coperte sempre legate insieme, non portare in giro un’immagine di divinità incisa nell’anello, non lasciare nella cenere la traccia della pentola, non far pulizia nella seggetta con una fiaccola, non mingere rivolto al sole, non camminare fuori della via, non stringere la mano con facilità, non avere rondini sotto il tuo stesso tetto, non allevare animali dagli artigli adunchi, non mingere né fermare il passo su unghie o capelli tagliati, allontana da te il coltello affilato, quando abbandoni la tua patria non ti volgere indietro ai confini…”. Dove ad esempio col simbolo citato “non far tracollare la bilancia”, voleva intendere “non violare l’equità e la giustizia”, e così via per ogni simbolo e precetto.
Ma “soprattutto attese allo studio della forma aritmetica della geometria e scoprì il canone monocordo…”. Apollodoro, il teorico del calcolo, afferma che egli sacrificò un’ecatombe, per avere scoperto che il quadrato dell’ipotenusa in un triangolo rettangolo è uguale ai quadrati dei suoi lati.
E vi è un epigramma che dice:”Quando Pitagora scoprì la famosissima figura, allora per essa compì un famoso sacrificio di Buoi”.
Finché, inaspettatamente arrivò il giorno in cui una relativamente ristretta cerchia di discepoli venne convocata da Pitagora in persona per condividere la tavola ed essere messa al corrente di importanti comunicazioni.
E così fu.
Con aria titubante e reverente i discepoli giunsero all’ora convenuta, provenendo da ogni parte della città e della Magna Grecia. Molti di loro mai avevano avuto il privilegio di poter vedere e udire direttamente il divino Pitagora. Questi, in fondo all’ampio porticato circondato da alte colonne, si ergeva maestoso avvolto in un’ampia veste di lana candida e leggera lasciando intravedere la sua coscia d’oro. Accanto aveva la moglie Teano e la figlia Damo, alla quale – ed era una donna appunto – affiderà le sue memorie.
Ma Pitagora, si sa, teneva in alta considerazione le donne.
A questo punto, direttamente da Pitagora, i suoi discepoli poterono costatare la veridicità di quanto si andava dicendo circa le regole alimentari. Sulla tavola, infatti, sia pur in bella mostra, comparivano soltanto ciotole con miele, pane, verdure cotte e crude, poca carne arrostita, ma non di bue aratore, pochi pesci ma non il pesce fragolino e il melanuro e neppure il cuore degli animali né montone né, soprattutto, fave.
Eppure, a proposito della carne, come afferma Favorino nelle sue “Memorie”, Pitagora aveva introdotto proprio una dieta a base di carne per gli atleti, che precedentemente erano nutriti a base di fichi secchi, formaggi molli e alimenti a base di frumento. Per quanto riguarda poi il divieto assoluto di cibarsi di fave, è da considerare una testimonianza di Aristotele che ritroviamo nello scritto “Sui Pitagorici”, dove si dice che queste sono simili sia al sesso sia alle porte dell’Ade, sia perché corrompono, sia perché sono simili alla natura dell’universo sia perché appartengono all’oligarchia (perché con esse si fa il sorteggio). Comunque sia, prima di rendere note le tanto attese comunicazioni e per chiarire il motivo della convocazione straordinaria, un’ultima non nuova raccomandazione viene rivolta ai discepoli: “Non gustate ciò che cade nel giro della mensa”, probabilmente per abituarli a non mangiare smoderatamente sia perché, come ci dirà Aristofane, “le briciole appartengono agli eroi”.
La verità indicibile, il segreto dei segreti che stava per essere rivelato concerne la scoperta drammaticamente traumatica di grandezze incommensurabili, come la diagonale ed il lato del quadrato. Non a caso, come è stato detto, a proposito di queste grandezze si ricorrerà ai concetti di incommensurabile e anche irrazionale, che sfuggivano al criterio pitagorico di razionalità. Tale sciagurata scoperta minava alle radici tutta l’impalcatura teorica della scuola costruita attorno al numero concepito come principio di ogni cosa, esprimibile sempre con numeri interi.
Conscio di ciò, temendo quello che sarebbe potuto accadere e che accadrà quando Ippaso di Metaponto divulgherà la scoperta e perciò sarà scacciato dalla comunità pitagorica o forse addirittura ucciso, Pitagora lascia che i suoi discepoli benché sbigottiti, si cibino, se ne sono ancora in grado, di quanto approntano.