Quali docenti di Matematica per la nuova scuola?

Riportiamo dal volume PRISTEM/Storia n. 32-33 tutto dedicato al cinquantesimo anniversario della riforma della scuola media inferiore (1962-2012) il contributo di Simonetta Di Sieno nel quale analizza il delicato momento in cui si dovette decidere quale profilo professionale e percorso di studio dovesse avere il professore di Matematica della nuova scuola media.

Il 30 gennaio 1963 la Gazzetta Ufficiale pubblica la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962, venticinque articoli dedicati alla Istituzione e ordinamento della scuola media statale (scuola dell’obbligo). Frutto dell’accordo politico del centro-sinistra e di una mediazione che molti leggono come compromesso, la legge cerca, coniugando le istanze democratiche presenti nello schieramento cattolico e in quello socialista, di costruire una scuola adeguata alle esigenze del mondo produttivo nazionale ormai sempre meno legato alla rendita e sempre più segnato da uno sviluppo tecnologico in atto e in prevedibile larga espansione. Per raggiungere questo obiettivo e mostrare come l’alleanza politica di cui è figlia possa incidere profondamente e positivamente sulla struttura del Paese, la legge lascia nell’ombra alcuni aspetti che riguardano gli insegnanti, cioè coloro che saranno in particolare chiamati a farsi protagonisti del cambiamento, e dà così il via a resistenze di vario tipo.

L’intervento legislativo, infatti, nel suo proporre il passaggio da una scuola media intesa come prima tappa dell’istruzione superiore a una scuola media concepita come parte della scolarità di base obbligatoria e gratuita, va a toccare equilibri consolidati. È ben vero che la legge di riforma è stata preceduta dal 1961 da sperimentazioni condotte in 300 classi, ma la gran parte dei docenti non ne è stata interessata. Nessuno li ha coinvolti nella preparazione delle decisioni, nessuno ha chiesto il loro parere e quindi le loro obiezioni/perplessità/contrarietà trovano soltanto a posteriori la possibilità di esprimersi. Così, accanto alle questioni più strettamente sindacali (Che fine faranno gli insegnanti del vecchio “Avviamento”? Quali laureati di quali discipline potranno trovare uno sbocco occupazionale nella nuova scuola? ecc.), vengono allo scoperto i timori sia di chi dovrà abbandonare la tranquilla scuola per pochi e affrontare classi molto più eterogenee sia di chi ritiene che il modello a più discipline costituirà un serio ostacolo per la riuscita dei ragazzi e non soltanto per i più deboli per provenienza sociale.

La maggior parte della discussione che arriva sui media, e che quindi attira l’attenzione dell’opinione pubblica, riguarda il ruolo che l’insegnamento del Latino può ricoprire nella costruzione di una scuola “di buon livello” e “democratica” secondo gli uni piuttosto che “demagogica” e “di bassa qualità” secondo gli altri. Del resto, gli stessi insegnanti in servizio sono figli della scuola gentiliana e quindi anche gli “scienziati” sono abituati a pensare che la “vera” formazione si compia attraverso gli studi umanistici. La diatriba Latino sì/Latino no raggiunge accenti apocalittici con punte francamente risibili: per un verso, rinunciare a insegnare l’ablativo assoluto a ragazzini di 11 anni priverà il Paese di una classe dirigente consapevole e competente (con una tesi analoga a quella che prevede che senza gli Elementi di Euclide studiati dagli adolescenti il mondo sarà peggiore) mentre regalare il Latino alle future segretarie del direttore (maschio!) creerà scompensi imprevedibili: si monteranno la testa e, orrore!, crederanno di avere qualche diritto di cittadino oltre ai sacri doveri di figlia, moglie e mamma lavoratrice. Per un altro verso, simmetricamente, il solo non studiare Latino garantirà cittadini “moderni” liberati dall’imprinting di una cultura elitaria e rétro e quindi capaci di vivere il cambiamento. Eppure, come scrive Vittorio Campanella su Riforma della Scuola (la rivista fondata da Lucio Lombardo Radice nel 1955), “Si tolga il latino, lo si conservi: non è questo l’essenziale. L’abolizione del latino nelle scuole medie inferiori può certamente essere un contributo valido all’ammodernamento della scuola e alla sua democratizzazione. Ma non si tratta di questo (…) L’essenziale è insegnare meglio”.

Proprio su questo “essenziale” si incentra una seconda questione che turba/coinvolge/riguarda gli insegnanti di matrice scientifica, ed è quella relativa all’insegnamento di due discipline – la Matematica e le Osservazioni ed elementi di Scienze naturali – affidato a un solo docente. Già all’Avviamento gli insegnanti di Scienze insegnavano anche Matematica e viceversa, ma l’esperienza non era stata per nulla positiva e non è difficile ipotizzare che, se si faranno le cose in modo analogo, i risultati saranno assai incerti. Nella nuova scuola, l’aver inserito le Scienze fra le materie il cui insegnamento è obbligatorio per tutti i ragazzi e non soltanto per un’élite è certo un fatto di grande importanza ma questione altrettanto, e forse più, importante è come insegnarle. Da una parte, la proposta che a occuparsene sia il docente di Matematica urta contro la cronica diffidenza e insoddisfazione dell’opinione pubblica nei confronti dell’insegnamento della Matematica. Anche se è vero quello che qualcuno denuncia – lo stato di “denutrizione scientifica” in cui versano i ragazzi proprio negli anni in cui le loro curiosità sono assai vivaci – pochi credono che una buona risposta possa venire da insegnanti che già della propria disciplina veicolano un’immagine che ne fa qualcosa di immutabile, “distaccato dal travaglio del percorso umano”, qualcosa per cui è del tutto indifferente che i matematici vi portino – oggi – il loro contributo di nuove riflessioni e di nuovi risultati così come tutti, uomini e donne, fanno nel loro lavoro. Dall’altra, non è affatto facile immaginare quale sia il rapporto che il docente “unico” deve instaurare fra l’insegnare la Matematica come educazione al pensiero razionale e l’insegnarla come strumento che esalti l’efficacia dell’intervento delle Scienze nel mondo reale. Di più, quali elementi di Scienze possono insegnare professori laureati in Matematica che all’Università hanno fatto solo un esame di Chimica al prim’anno e qualche esame di Fisica e quindi sono pienamente autorizzati a non distinguere un anfibio da un rettile? Si vuol tornare indietro sui propri passi dopo la recente abolizione delle famigerate lauree miste? Viceversa, che ne sanno di astrazione, di metodo matematico i laureati in Scienze naturali? Come si equilibreranno le competenze originarie di ogni docente con le richieste didattiche sui diversi fronti?

All’inizio, la reazione prevalente del mondo matematico istituzionale è quella, sostanzialmente corporativa, di difendere i docenti in servizio dall’obbligo di insegnare anche le Osservazioni se non lo desiderano e, subito dopo, di opporsi a che facciano il loro ingresso a scuola insegnanti di Matematica che non siano laureati nella disciplina o, almeno, non abbiano compiuto un biennio di studi universitari. Poi, con il passare dei mesi, di fronte ai chiari segnali che precedono e annunciano il decreto presidenziale del novembre 1963 con cui i due insegnamenti vengono abbinati, si assiste a una serie di episodi in cui alcuni matematici dell’Università, pur preoccupati di gestire l’emergenza, cercano di superarla preparando nuove leve di docenti che siano all’altezza del compito impegnativo che li attende: formare l’uomo colto, capace di interpretare la realtà che lo circonda e di operarvi in modo razionale. Sono diversi i tentativi compiuti in questa direzione e tutti pagano un forte prezzo alla mancanza degli adempimenti normativi che avrebbero reso efficaci le indicazioni della legge e al fatto che lo stesso quadro legislativo resta a lungo, almeno fino agli anni Settanta, pasticciato e incerto: ne diamo conto in queste pagine, seguendo il filo prezioso che ci è offerto dai documenti, dagli appunti inediti e dai testi conservati da Giovanni Prodi, uno dei maggiori protagonisti del dibattito. Sembra opportuno però aprire una parentesi – rappresentata dal successivo paragrafo – con alcune considerazioni – sui programmi ministeriali e sulle metodologie che vi sono suggerite per l’insegnamento della Matematica – che ci saranno utili quando arriveremo a parlare del confronto sviluppatosi fra Bruno de Finetti, Ugo Morin e Giovanni Prodi.

1. I programmi di Matematica

Nel disegno complessivo del D.M. del 24 aprile 1963 relativo a “Orari e programmi d’insegnamento della scuola media statale”, l’insegnamento della Matematica partecipa al progetto formativo comune della scuola media e si propone di guidare gradualmente gli alunni “a riconoscere nell’astrazione matematica una delle più rigorose forme di penetrazione logica e di dominio costruttivo della realtà”. Ciò deve avvenire a partire dall’esperienza personale dell’allievo, da osservazioni, facili esperimenti e prove empiriche che consentano l’esercizio dell’induzione, l’avvio allo spirito di ricerca, la capacità non di imparare una Matematica prestabilita ma di imparare a “fare Matematica” con la consapevolezza e l’autonomia che la maturità di un preadolescente consente. Il processo richiede certamente “la sicura acquisizione di alcune regole e tecniche formali, molto utili per l’arricchimento della formazione intellettuale”, ma questa non deve impedire una forte attenzione a quella dimensione metacognitiva dell’apprendimento che invece è ancora così poco presente nella pratica didattica della scuola media di oggi nella quale, a 50 anni dalla sua istituzione, non c’è mai tempo per ripensare al cammino fatto e chiudere il cerchio a un primo livello in modo da consentire la ripresa della spirale nel cammino scolastico successivo. Nella stessa direzione di una Matematica intesa come “cosa viva” va anche il suggerimento di “far scrivere” i ragazzi di Matematica: spiegare quello che si è fatto, raccontare i passi di una costruzione effettuata, di una riflessione compiuta, di una soluzione trovata o di un cammino interrotto/sospeso/bloccato. Sono attività che permettono ad ognuno di far rientrare fra le proprie, personali esperienze anche quella “cosa lontana” che per molti è la Matematica.

Ma chi è pronto a insegnare in questo modo? Chi se la sente? Indicazioni non vengono certo dal testo dei programmi – inseriti nello stesso D.M. – che sembrano aver perso ogni coraggio innovativo. Macroscopica in tal senso è la mancanza di un qualsiasi accenno alle possibilità di avvio alla dimostrazione legate in modo naturale all’Aritmetica invece che alla “canonica” Geometria. Anche quando si invita a dare “semplici esempi di corrispondenze e funzioni” ricorrendo alla loro rappresentazione grafica, non ci si azzarda a suggerire di insegnare subito ai ragazzi, fin dalla prima classe, quanto il ricorso ai grafici sia importante nelle applicazioni. Si sollecita l’introduzione del “concetto intuitivo di figure simili”, con l’immediata applicazione alla “riduzione in scala”, e non ci si perita così di nascondere il principio per il quale ogni figura geometrica non va considerata come data in sé ma va inserita in un contesto spaziale preciso, caratterizzato dalle trasformazioni che vi sono ammesse. Sparisce anche qualunque riflessione sulla questione dell’uguaglianza/diversità di due oggetti matematici: due circonferenze sono sempre uguali per la Geometria simile, ma possono essere ben diverse in quella metrica! La somma 2+2 spesso vale 4 ma qualche volta vale 0 e qualche volta vale 1 e i ragazzini che raggiungono questa consapevolezza nell’età delle scoperte hanno qualche arma in più per difendersi da chi attacca la loro razionalità appoggiandosi al classico, famigerato “2+2 fa sempre 4”.

Ora, il passaggio da una competenza tecnica, sia pure sicura, a un possesso profondo dei nodi fondamentali della disciplina non è affatto automatico. Eppure, anche negli anni successivi, il Ministero della Pubblica Istruzione non prenderà alcuna iniziativa per l’aggiornamento degli insegnanti e per la loro preparazione al lavoro suggerito nella “Premessa”. Invece, già l’impossibilità “teorica” di molti insegnanti in servizio a comprendere la portata innovativa del modello suggerito dalla riforma avrebbe reso necessaria la costruzione di una nuova leva di docenti che riuscissero a sganciarsi dal loro vissuto nelle scuole preuniversitarie e imparassero a diventare – attraverso un’esperienza universitaria – insegnanti della nuova scuola.

 

2. La formazione dei docenti di Matematica e di Osservazioni ed elementi di Scienze naturali: la proposta di Bruno de Finetti

La prima iniziativa conseguente alla legge di istituzione della scuola media e relativa alla formazione dei docenti di cui diamo conto qui è quella avviata da Bruno de Finetti, già nel 1963, presso l’Università “La Sapienza” di Roma. La Facoltà di Scienze aveva istituito il 18 giugno una Commissione per lo studio del problema e de Finetti prepara ventun pagine di appunti dal titolo “Insegnamento di materie scientifiche nella scuola media unica e preparazione degli insegnanti” che introducano la riunione del 3 luglio 1963 della Commissione. La proposta che vi è contenuta ha avuto redazioni diverse, anche più meditate e meglio corredate di esempi di quella che qui presentiamo, ma seguirla su questi appunti offre l’occasione di confrontarsi direttamente con la maniera in cui è stata costruita prima della sua formalizzazione.

De Finetti rappresenta una figura anomala fra i docenti universitari del periodo. Dopo essersi laureato nel 1927 a Milano in Matematica con Giulio Vivanti e prima di vincere nel 1954 la cattedra di Matematica finanziaria, a partire dal 1931 aveva lavorato all’Istituto Centrale di Statistica e poi, come attuario e statistico, alle Assicurazioni Generali.

Nel 1963 è appena passato sulla cattedra di Calcolo delle Probabilità della “Sapienza” di Roma, ma continua a mantenere viva quell’attenzione alla società civile che caratterizza la sua maniera di interpretare il ruolo di intellettuale scientifico e che negli anni Settanta lo porterà addirittura sulla soglia del carcere per aver difeso il diritto all’obiezione di coscienza. La sua insofferenza verso una Matematica forzatamente privata di qualunque riferimento alla realtà che ne possa inquinare la presunta purezza si unisce a un forte interesse per le questioni interdisciplinari e a una capacità speciale di passare con naturalezza dal concreto all’astratto e viceversa. Così non ci stupisce che egli sia da subito favorevole alla figura unica di insegnante, con una posizione che, come abbiamo già visto, non è certo maggioritaria nel panorama italiano in cui molti laureati in Matematica si erano già dichiarati contrari a insegnare una materia per la quale non avevano né simpatia né preparazione e in cui entro pochi mesi anche l’Ufficio di Presidenza dell’Unione Matematica Italiana si dichiarerà apertamente contrario all’affidare entrambi gli insegnamenti alla stessa persona.

Per de Finetti, il problema non è se formare un unico insegnante – se tutti si oppongono ci si rinuncia – ma è quello di avere sia insegnanti di Matematica che insegnanti di Scienze capaci “di far prender pratica nella formulazione matematica di problemi scientifici e nell’impiego di ragionamenti euristici e di approssimazioni semplificatrici”, come auspica la prima “risoluzione” della “IUCTS Frascati Conference”. Gli “Appunti” contengono quindi la proposta di un corso di laurea che prepari gli insegnanti al doppio compito.

Il testo è articolato in cinque parti, nella prima delle quali viene tracciato il disegno istituzionale: il nuovo corso di laurea è denominato “Laurea in Materie Scientifiche” e vi si accede con il diploma di una qualunque scuola superiore, compreso l’Istituto magistrale. La sua durata è di quattro anni con il quarto di esercizio esclusivamente o prevalentemente didattico, mentre l’esame di Laurea consiste in una prova di accertamento didattico. Per i primi tre anni è previsto l’insegnamento di sei “super-materie”, denominate in tal modo in quanto ognuna è articolata in parti distinte. Si va da “Psicologia, Pedagogia, Orientamento professionale, Elementi di diritto, Organizzazione dello Stato, Legislazione scolastica” a “Matematica con elementi di Statistica, Computisteria e Matematica finanziaria, Economia” fino a “Fisica, Tecnologia industriale”, “Chimica, Mineralogia, Geologia (Merceologia)”, “Biologia, Botanica, Zoologia (Agraria, Allevamento), Fisiologia” e “Geografia, Storia del pensiero scientifico e dello sviluppo tecnico”.

L’insegnamento di ognuna sarà triennale, tre ore alla settimana integrate da eventuali esercitazioni. A colpire il lettore di oggi è il fatto che già in questi, che pure – lo ripetiamo – sono soltanto “appunti”, de Finetti si preoccupi di prevedere che le esercitazioni diano luogo a “frequenti prove scritte” intese a “conseguire proprietà, precisione, concisione, anche esprimendosi in forma di schemi, tabelle, grafici ecc.”. In un momento come quello che stiamo vivendo di forte sottovalutazione del ruolo che il linguaggio ha nella comunicazione della scienza a scuola, l’attenzione di de Finetti al fatto che proprietà, precisione, concisione siano capacità che si imparano in “un” linguaggio che è quello della vita “normale” degli allievi e che quindi qualcuno… deve insegnarle è davvero sorprendente (e… consolante).

La seconda parte del progetto contiene innanzi tutto le motivazioni che suggeriscono una preparazione speciale per gli insegnanti di Matematica e Scienze nella scuola media: “L’esigenza di apposita preparazione degli insegnanti per i ragazzi di 11-14 anni deriva dalla delicatezza e specificità del compito formativo ad essi demandato. Non è necessario che abbiano conoscenze elevatissime di materie o capitoli lontani da quel che insegnano, ma ciò non sarebbe neppure sufficiente, in mancanza di particolare preparazione pedagogica, di sufficiente ecclettismo, di attitudini pratiche.” Con ciò si mette in evidenza una delle contrapposizioni – contenuti versus metodologie – che da sempre caratterizzano il dibattito sull’insegnamento della Matematica. Successivamente, de Finetti cerca di rispondere ad alcune preoccupazioni (abbastanza naturali) sul possibile conseguente abbassamento del livello di preparazione dei futuri docenti o, più concretamente, sulle difficoltà di carriera per i laureati del nuovo corso di laurea. Tale parte contiene anche un’ulteriore approfondita difesa della scelta di avere un solo insegnante e propone, come ulteriore appoggio all’impianto della proposta generale, anche alcuni esempi che vengono dall’estero (in particolare da Francia e Unione Sovietica).

La terza sezione raccoglie alcune considerazioni generali sull’insegnamento pre-universitario che dovranno informare anche la preparazione proposta per la formazione dei futuri insegnanti. Vi si insiste, per esempio, sul fatto che in questo corso di laurea bisogna abbandonare l’intenzione di presentare una trattazione sistematica della disciplina per arricchire, invece, il patrimonio culturale personale del futuro docente con concetti che diano una visione più ampia della disciplina stessa: “Nessuna disciplina, avulsa dal contesto generale, giustifica la propria esistenza e la fatica imposta a chi deve apprenderla. (…) Perché l’apprendimento sia agevole e fruttifero è necessario che ogni nuovo elemento vada ad arricchire il patrimonio di pensiero e di nozioni acquisito collegandosi con tutto ciò che può avvantaggiarsi da tale collegamento”. Particolarmente interessante è l’attenzione dedicata al diverso ruolo giocato dalle capacità intuitive e dal ragionamento nell’apprendimento, con accenti che appaiono utili da leggere anche oggi: “Abitualmente [a scuola ndr], sembra che la preoccupazione sia di far tabula rasa di tutto ciò che fa parte della più preziosa acquisizione dell’intelligenza umana nel corso dell’infanzia: la conoscenza immediata inconscia o pressoché inconscia di una infinità di cose e la capacità di orientarsi e reagire istintivamente o con lume spontaneo di intelligenza alle esigenze o problemi che ne derivano. (…) Si dovrebbe fare tabula rasa di ciò perché non è abbastanza scientifico (…) si dovrebbe fargli [all’allievo ndr] riimparare in modo puramente razionale e con la preoccupazione del più pedante rigore (…) una piccola parte di ciò che aveva già acquisito travestendola in modo che ne perda la visione ed il giusto. (…) Invece, per assolvere alla sua funzione, la ragione dovrebbe essere utilizzata come complemento delle facoltà intuitive, atto (…) anche a correggerle con lo spirito critico e con l’abito gradualmente acquisibile della riflessione metodica; non però a sostituirle. (…). È indubbiamente più sapiente un ragno o un somarello che una bobina in cui fosse condensata tutta l’Enciclopedia o tutti i corsi universitari del mondo”.

I discorsi generali trovano applicazione nella quarta sezione, dove vengono presentate le specificità dell’insegnamento nella scuola media unica. Si tratta di aver chiaro, da una parte, quali sono le caratteristiche dei ragazzi a cui si insegna e dall’altra di essere ben consapevoli della diversa funzione che la scuola media assume nei confronti di coloro che con essa concludono gli studi e di coloro che invece li proseguiranno. Secondo de Finetti, la scuola media deve porsi l’obiettivo di “dare un’idea panoramica vasta ed organica (benché rudimentale) di ciò che «verrebbe dopo», darla in forma attraente, con metodo attivo, in modo da suscitare interesse e un inizio di intima comprensione; inserire le poche (e comunque non molte (sic)) «nozioni obbligatorie» da apprendere, come capisaldi di questa visione panoramica, non come scorie scolastiche”.

Sono considerazioni valide per tutte le materie che portano a indicazioni specifiche anche per la Matematica. Citando, in maniera per qualche verso sorprendente, un testo di Guido Calogero, si comincia scrivendo che: “I giovani devono diventare colti rispetto alla scienza, cioè capire qual è il tipo di mestiere che fanno gli scienziati e i tecnici (…) potere meglio accertare se esso attira il loro gusto più che altre attività (…) o almeno non la temeranno come pericolo o stregoneria”. E si continua proponendo un insegnamento che prevede di “scegliere una qualunque cosa che possa interessare i giovani – dal motore di un’automobile alla televisione a (…) – e a poco a poco far vedere quante soluzioni di problemi di fisica, di chimica, di geometria, di algebra, quante considerazioni di interessi pratici e quante creazioni di strumenti mentali atti a soddisfarli si sono dovuti poco a poco mettere in atto per raggiungere quei risultati di dominio tecnico della realtà”. È un insegnamento che presenterà non poche difficoltà, a partire dall’osservazione che i problemi “concreti” portano velocemente a scontrarsi con difficoltà tecniche non banali e che il limitarsi a “un” problema concreto può restringere il campo di studio in maniera inopportuna. De Finetti propone allora di costruire nuovi strumenti e sussidi didattici. I libri di testo, per esempio, potrebbero diventare quello che oggi chiameremmo un ipertesto: “Una raccolta di «voci», di ampiezza media (p.es. una pagina) e formulazione piana e chiara, non appesantita né da uno sforzo di concisione né dal desiderio di dire troppo, nel senso di essere comprensibile senza esigere la preventiva lettura di altre; sarebbero però indicati tutti i riferimenti a voci la cui lettura possa giovare, sia a meglio vedere i presupposti, sia a trovare ulteriori sviluppi, sia a riscontrare analogie o contrasti… La semplice considerazione dell’equilibrio di un tavolo può condurre a porsi molti problemi e a scoprire molti concetti e molte proprietà, come… involucro convesso, omotetia, baricentro o derivati, problemi di calcolo combinatorio, di logica sul possibile, a costruzioni di diagrammi di funzioni, ecc.”. Non si tratta di spiegare che cosa sia un tavolo ma di usarlo come pretesto per proporre questioni che portino gli allievi ad avvicinarsi a nuove nozioni, a farle proprie e a ripartire verso nuove domande.

Nella quinta e ultima parte, infine, da questo quadro di riferimento pedagogico e culturale gli “Appunti” fanno discendere le indicazioni indispensabili per la formazione degli insegnanti. I futuri docenti non dovranno avere soltanto una solida preparazione nelle varie materie che insegneranno (Matematica, Fisica e Chimica, Scienze naturali) ma anche una buona capacità didattica. In particolare, molta cura andrà posta perché “si convincano di dover curare assai che i loro futuri allievi apprendano a mettere il massimo impegno in tutte le “piccole cose” da cui dipende se quelle “grandi” fruttificano sul serio o rimangono nel regno del vuoto e del velleitario”. Dalla precisione (sostanziale) nei disegni all’abitudine al calcolo numerico, dall’uso di grafici e schemi diversi alla costruzione di tabelle, dall’abitudine alla valutazione di grandezze numeriche (distanze, affollamento di persone, raggio di una curva ecc.) alla costruzione di modelli e all’esposizione di risultati con testo, tabelle, figure, de Finetti non si perita di chiudere il suo progetto proponendo una lunga serie di raccomandazioni “pratiche” che meglio di altre formulazioni danno il senso di che cosa si debba intendere per “buon insegnamento” della Matematica.

Come ben si vede anche dalla veloce lettura che ne abbiamo dato, il suo progetto appare denso, appassionato e nello stesso tempo rispettoso dello status epistemologico della disciplina di cui si discute. Avrebbe, in altre parole, ben meritato di essere sottoposto a una critica attenta e serrata. Invece, la maggioranza dei matematici e delle loro istituzioni lo tratta come il contributo di un utopista, come una proposta lontana dalla realtà quando non superficiale o poco attenta alla struttura profonda della Matematica, non degna di essere presa in considerazione neppure come punto di partenza. Non riescono – molti matematici del periodo – a cogliere quanto vi sia presente la preoccupazione di evitare almeno alcune delle loro più pericolose deformazioni professionali, quelle per cui spesso si trovano a pensare che a tutti i giovani debba piacere ciò che piace a loro stessi o che i soli studenti che vale la pena coltivare sono coloro che potrebbero diventare matematici di professione. Sono molto impegnati a discutere come introdurre, nella scuola pre-universitaria e nella stessa Università, la “Matematica moderna” di impronta bourbakista e non trovano il tempo di domandarsi se la Matematica di cui discutono sia quella che i ragazzi di 11-14 anni possono imparare ed è importante che imparino. Questa loro scelta non è certo l’ultimo degli elementi che hanno portato alla scarsa efficacia che generalmente si riconosce oggi all’insegnamento della Matematica nella scuola secondaria di I grado.

 

3. Le discussioni del 1965. I convegni di villa Falconieri

Due anni dopo la proposta di de Finetti, presso la villa Falconieri a Frascati nel 1965 si tengono due importanti convegni. Dal 4 al 6 marzo si svolge il primo, indetto dalla C.I.I.M. (Commissione Italiana per l’Insegnamento della Matematica, commissione consultiva dell’Unione Matematica Italiana) e dal Centro Europeo dell’Educazione per stilare un piano di studi per il corso di “Laurea in Matematica secondo l’indirizzo didattico”. Poi, il 4 maggio viene presentato alla Camera dei deputati il d.d.l. n° 2314 concernente modifiche all’ordinamento universitario. Il suo art. 31 assegna – in attesa della legge di riforma corrispondente – “valore abilitante” ai diplomi di laurea conferiti dalla Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali per l’insegnamento di “Matematica, Osservazioni ed Elementi di scienze naturali” nella scuola media. A tal fine, prevede presso le singole Università la costituzione di un Comitato interfacoltà presieduto dal Rettore e formato dai Presidi delle Facoltà interessate e dai docenti prescelti dalle Facoltà stesse che provvederà a predisporre un apposito piano di studio comprendente tutte le discipline che il corsista andrà a insegnare accanto a un corso di Pedagogia e di legislazione scolastica e a un periodo di tirocinio guidato nella scuola media. Come osserveranno anche gli organizzatori del secondo convegno di Frascati, si tratta di una formulazione poco chiara che genera dubbi sul modo d’interpretarla: per esempio, non fa alcun cenno circa la struttura interna e l’organizzazione del corso e non prevede, almeno esplicitamente (come per gli altri cicli di studi), modalità per il passaggio da questo ad altri tipi di laurea mentre sembra attribuire – in contrasto con le disposizioni di carattere costituzionale – valore abilitante a un titolo puramente accademico, quasi a voler istituire (anche se non lo afferma apertamente) un nuovo tipo di “laurea mista” per l’insegnamento della “Matematica, Osservazioni ed Elementi di Scienze naturali” (la laurea mista era stata invece soppressa nel 1961).

Dopo l’approvazione di questo d.d.l., dall’1 al 4 settembre si svolge il secondo convegno di Frascati che qui ci interessa particolarmente. Organizzato ancora dalla C.I.I.M. in collaborazione con il Centro Europeo di Educazione, è un incontro di studio che, senza entrare nel merito dell’opportunità o meno della nuova laurea, si propone di consentire uno scambio di idee sugli insegnamenti matematici per l’eventuale laurea abilitante all’insegnamento di “Matematica, Osservazioni ed Elementi di Scienze naturali” su cui il d.d.l. legifera. Vi partecipano otto rappresentanti della C.I.I.M. e trentanove insegnanti: quattordici universitari, sei di liceo, sedici di scuola media, un assistente universitario e due studiosi di problemi scolastici provenienti dai ruoli dello Stato. Assistono ai lavori che si svolgono come una tavola rotonda “senza relazioni prefissate e oratori ufficiali, ma con larga partecipazione di tutti gli intervenuti” due ispettori ministeriali e il direttore del C.E.E.. Il 3 settembre vede la presenza anche di Mario Forte, direttore generale dell’Istruzione di I grado, e di Pietro Caleffi, sottosegretario della P.I.. L’interesse mostrato da quest’ultimo per i progetti che gli vengono presentati e, soprattutto, la richiesta di essere informato sulle conclusioni a cui i convegnisti perverranno, fanno sperare a molti che non si tratterà di un inutile incontro.

Nelle sette sedute vengono discussi due progetti – quello di Giovanni Prodi dell’Università di Pisa e quello di Ugo Morin dell’Università di Padova – molto diversi fra loro sia nell’impostazione culturale che li caratterizza sia nell’organizzazione che vi è prevista. Il primo è scritto da uno dei pochi lettori (sostenitori?) della proposta de Finetti al quale, del resto, ha occasione di scrivere: “Sono lieto di constatare le coincidenze delle nostre opinioni in materia di insegnamento della matematica. Il fatto, del resto, non è del tutto casuale, perché sulle mie opinioni hanno molto influito i tuoi scritti. Soprattutto mi ha interessato quel tuo sforzo di esemplificare, di tracciare linee concrete per un insegnamento della matematica veramente vivo e attuale. Effettivamente, in questo momento, sono preoccupato, più che dei conservatori (i quali fatalmente dovranno presto arrendersi) di certi innovatori a schema fisso. C’è un modo di innovare che costa poco sforzo ed è caratteristico, purtroppo, di molti professori universitari: consiste nel considerare l’insegnamento della propria materia (sia a livello secondario che universitario) solo come una introduzione al proprio settore di ricerca. (…) Naturalmente, non nego che i concetti fondamentali debbano entrare nell’insegnamento secondario, ma non in misura e forma superiori alle capacità che hanno i giovani di esemplificare e di farne applicazione a concreti problemi”.

Forse non andiamo troppo lontano dal vero se pensiamo all’intervento di Prodi come a una mediazione fra il sogno di un insegnamento per problemi alla de Finetti e la realtà di un personale docente di Matematica che, a tutti i livelli, prigioniero di un’immagine asfittica della propria disciplina, di problemi non vuol sentir parlare. Il progetto di Morin appare invece come una buona esemplificazione di quelle che poco sopra chiamavamo “deformazioni professionali” dei matematici a proposito delle quali, forse non a caso, nell’estate precedente, Gaetano Fichera si era fatto promotore della diffusione in Italia della forte preoccupazione contenuta nel memorandum “On the mathematics curriculum of the High School”, comparso nell’American Mathematical Monthly del marzo 1962.

Vediamo più in dettaglio le due proposte. Il progetto Prodi prevede che il biennio iniziale del nuovo corso di laurea – per il quale propone la denominazione “Matematica e scienze della natura” – sia mutuato, con variazioni minime, dal corrispondente biennio di uno qualsiasi dei corsi di laurea della Facoltà di Scienze (Matematica, Fisica, Chimica e Scienze naturali). Ad esempio, gli studenti di Matematica dovranno sostituire Geometria 2 o Meccanica razionale con Chimica generale e inorganica mentre i naturalisti seguiranno due corsi di Istituzioni di matematica, invece di uno solo, e li accompagneranno con congrue esercitazioni. Per il terz’anno sono suggeriti due corsi “di integrazione culturale”, differenti a seconda del biennio frequentato (per esempio, matematici e fisici si occuperanno di Geomineralo già con elementi di Geografia fisica e di Biologia generale con elementi di Botanica e Zoologia) e due corsi uguali per tutti: Fondamenti dell’Aritmetica e della Geometria e Metodologia delle scienze sperimentali. Il quart’anno infine è articolato in due corsi (Psicopedagogia e Didattica della matematica e delle scienze della natura) e in un tirocinio guidato presso una scuola media, retribuito. L’esame di laurea finale consiste in una prova scritta diversificata a seconda del biennio di provenienza iniziale e in una prova didattica seguita da un colloquio.

Secondo il suo estensore, il progetto ha due pregi importanti: permette di “ottenere un primo contingente di abilitati all’insegnamento” già due anni dopo il suo avvio ed evita agli studenti di scegliere troppo presto – da matricole – il tipo di professione da intraprendere. È una preoccupazione che già de Finetti aveva espresso nella sua proposta: occorre evitare che l’insegnamento nella scuola media sia un ripiego rispetto ad altre prospettive; bisogna lasciar maturare scelte motivate coinvolgendo fra tutti gli studenti, compresi i migliori fra loro, quelli che effettivamente sono interessati a “imparare a insegnare”. Nella versione originale preparata da Prodi c’è anche l’osservazione – forse poco politica o troppo ingenua e come tale espunta dalla versione finale – secondo cui “seguendo la nostra proposta non vi sarebbe il pericolo della costituzione di un “Magistero di Scienze” destinato a divenire una brutta copia della Facoltà di Scienze, con tutti gli inconvenienti che si possono immaginare”.

Si respira nel progetto Prodi un’aria che appartiene ai momenti migliori dell’intervento dei matematici nelle istituzioni scolastiche. Come de Finetti, Prodi è un matematico che della propria disciplina ha una visione larga nella quale è in grado di compiere delle scelte che rispondono a un gusto personale preciso. Ciò gli regala da una parte la sicurezza che sia possibile rendere comprensibile a molti la maniera con cui la Matematica interviene nel reale e dall’altra gli permette di non esercitare quello che qualcuno avrebbe poi chiamato l’imperialismo della Matematica sulle scienze. C’è il riconoscimento non solo astratto dell’unitarietà delle scienze e c’è la convinzione che è solo la nostra ignoranza ciò che ci rende difficile “raccontare” la scienza ai pre-adolescenti in modo rigoroso ma coinvolgente e che… l’ignoranza si può battere. Evitando di fondare un nuovo corso di laurea abilitante ma limitandosi a creare un biennio che integri i corsi già esistenti, Prodi riesce certamente a ridurre l’onere organizzativo e finanziario per le Facoltà ma, soprattutto, costruisce gli strumenti per formare insegnanti dotati, oltre che di una solida preparazione didattica, di una vera e propria formazione scientifica senza che ciò porti la scuola ad avere insegnanti troppo specialisti che creano solo danni all’apprendimento della scienza nell’età 11-14 anni. Una competenza di questo tipo non è possibile senza che il futuro docente si confronti/si metta alla prova/cerchi di comprendere dall’interno almeno uno dei settori disciplinari coinvolti nelle discipline che dovrà insegnare: “Formare insegnanti superficiali privi di una preparazione solida in almeno un ramo della scienza significherebbe accentuare questa tendenza al nozionismo e quindi, in definitiva, fare opera deleteria nei riguardi dell’introduzione alla scienza”. Affascina questo mettere il futuro docente a confronto con la scienza “compresa dall’interno” (è difficile trasmettere interesse, per non dire passione, se non si hanno alle spalle esperienze personali ricche e profonde di confronto con “qualcosa che sappia di scienza”) anche se il successo della proposta avrebbe richiesto un insegnamento universitario capace di presentare insieme risultati e metodi, domande e risposte a quelle domande, tecniche e riflessioni, e non sempre ciò accadeva (accade?) nei corsi di una Facoltà di Scienze.

Ce ne rendiamo conto ancora meglio oggi, quando, a insegnare “Matematica e Osservazioni scientifiche” nella scuola media, si incontrano anche laureati in Matematica che, invece di mostrare la potenza della “regina delle scienze” di cui hanno buona competenza, si schiacciano su un addestramento inutile e pretenzioso o laureati nelle Scienze della vita che invece di andare fieri di saper raccontare la Matematica che hanno conosciuto sul campo (quella dei grafici e delle funzioni, quella delle previsioni e della gestione dei dati…) si preoccupano di insegnare i mitici enti fondamentali della Geometria ai quali loro stessi, prima dei loro allievi di 11 anni, guardano come al prodotto esotico di uno studio che non gli appartiene. Negli appunti che lo stesso Prodi ha steso della discussione su questo progetto, e che abbiamo potuto vedere, si trovano alcune risposte alle obiezioni che gli vengono fatte: non è vero che mettere insieme matematici e naturalisti porterebbe a una strage di naturalisti agli esami perché lentamente si arriverebbe ad un equilibrio come dice l’esperienza dell’Università di Pisa; non si può avere la pretesa di insegnare tutto, perché comunque resterebbe fuori molto (le tecnologie, per esempio) e neppure ci si deve schiacciare sull’Algebra che non costituisce affatto la struttura dell’insegnamento nella scuola media.

Il secondo progetto, quello di Morin, poggia invece sulla convinzione che nella scuola media debba essere maggiore l’attenzione dedicata alla Matematica rispetto a quella dedicata alle Osservazioni scientifiche: “Mentre l’effetto di una inadeguata preparazione matematica nei tre anni della scuola media pregiudicherebbe lo studio della medesima materia negli anni successivi, una preparazione poco estesa come programma nei corsi di osservazioni scientifiche non avrebbe conseguenze altrettanto dannose, data la mancanza di carattere di propedeuticità di questo insegnamento. Inoltre si ritiene molto più importante che i concetti fisici, chimici, naturalistici impartiti agli alunni debbano rispondere a requisiti di ineccepibile rigorismo scientifico, anche se necessariamente sviluppati sulla base di argomenti e fenomeni accessibili all’età degli alunni”. Quale lontananza dal “somarello” di de Finetti! Morin prevede allora un corso di laurea completo di quattro anni con cinque dei dodici corsi disciplinari dei primi tre anni riservati alla Matematica. Il quart’anno, invece, ha “in prevalenza carattere di orientamento professionale” e vede i quattro insegnamenti di Storia del pensiero scientifico, Psicopedagogia, Didattica della matematica e Didattica delle scienze della natura e un tirocinio guidato e retribuito presso una scuola media. L’esame di laurea consisterà infine nella discussione di una ricerca sperimentale in campo didattico.

Pur nella loro evidente differenza, tutti e due i progetti vengono fatti propri dai convegnisti con una votazione che riconosce 11 sì al primo e 26 al secondo. Al termine dell’incontro si ha l’impressione, come scriverà Prodi nel 1997, che il problema relativo all’istituzione di un eventuale corso abilitante sia definitivamente risolto. Si tratta invece soltanto di una speranza e tutto ripiomba nel silenzio più assoluto.

 

4. La legge del 12 marzo 1968 e il D.M. del 25 luglio 1970

Il 12 marzo 1968, con la legge n° 442 istitutiva dell’Università della Calabria che con il suo art. 2 prevede la creazione di un corso di laurea in “Matematica, Osservazioni ed Elementi di Scienze naturali” abilitante all’insegnamento nella scuola media e con l’art. 18 impegna il ministro per la P.I. a estendere – entro cinque anni – a tutte le Facoltà scientifiche italiane la possibilità di avviare su richiesta tale corso, ricomincia in tutte le Università italiane la “battaglia” interrotta solo pochi anni prima e vengono elaborati nuovi progetti.

Si hanno diverse proposte. La Facoltà di Padova riformula, per esempio, attraverso un Comitato di docenti presieduto da Morin, un progetto per la laurea abilitante le cui finalità restano invariate rispetto a quelle presentate al convegno di Frascati del settembre 1965 mentre, per uniformarsi ai progetti delle altre Facoltà, vengono ritoccati i piani di studio. In modo analogo, a Pisa nei mesi di giugno e luglio, Giovanni Prodi e Paolo Tongiorgi (biologo), con la collaborazione di una Commissione di cui fanno parte fra gli altri Bargellini e Checcucci in quanto “esperti nella preparazione e nell’aggiornamento degli insegnanti di materie scientifiche per la scuola media inferiore”, elaborano un nuovo progetto che dà un tipo di risposta diverso da quello del 1965 a questioni che rimangono le stesse, essenzialmente legate alla necessità di formare gli allievi a una duplice mentalità: teorico-matematica e sperimentale. Le diverse scienze della natura hanno diverse fisionomie e quindi, secondo gli estensori del progetto, è necessario “portare l’allievo ad una sintesi” che può compiersi attraverso l’elemento unificante rappresentato dal metodo sperimentale, mentre, per quanto attiene ai rapporti con la Matematica, occorre cercare, piuttosto che una sintesi artificiosa, “un’interazione e, quasi, in una certa misura, una contrapposizione nella discussione di problemi con diversi metodi e diverse mentalità”. Rispetto a qualche anno prima, non si prevede più un biennio specifico successivo a quello di una qualsiasi Facoltà scientifica ma un vero e proprio corso di laurea di durata quadriennale con un quinto anno dedicato al tirocinio guidato e a un seminario didattico. Nello Schema che Prodi prepara per sé, per presentare la relazione finale, le osservazioni personali che chiuderanno il suo discorso lasciano intravvedere alcuni dei problemi sul tappeto: “Richieste concrete, ma non corporative! Manca un corso di laurea idoneo allo scopo. Il diritto allo studio è un principio equivoco, se non viene commisurato con: a) il merito degli studenti, b) il bisogno della società. A meno che non si adotti il principio della cessazione di ogni valore legale di qualsiasi titolo di studio”.

Il 3 giugno 1968 Federico Cafiero dell’Università di Napoli invia a tutti i professori di ruolo e fuori ruolo di discipline matematiche una lettera in cui chiede collaborazione su alcuni problemi sui quali deve fare proposte in quanto membro della prima sezione del Consiglio Superiore della P.I.. Alcune delle questioni di cui si parla sono di gestione della struttura: dall’apertura o meno di concorsi universitari alla richiesta di posti di ruolo per incaricati da almeno nove anni e alla formazione delle commissioni esaminatrici per la libera docenza. Una quarta riguarda invece l’ordinamento didattico del corso di laurea in Matematica e in particolare la possibilità o meno per le Facoltà di suggerire e accettare piani di studi “liberalizzati”, cioè costruiti dagli studenti in deroga alle indicazioni nazionali, e la possibilità di prevedere corsi semestrali. La quinta riguarda, infine, le norme generali del tirocinio guidato previsto, all’interno della laurea abilitante per la scuola media, nella legge istitutiva dell’Università della Calabria.

La situazione sembra diventare sempre più fluida e il 23 ottobre dello stesso anno Guido Stampacchia, presidente dell’Unione Matematica Italiana, invia a tutti i presidi delle Facoltà scientifiche una lettera per raccogliere notizie sui progetti già studiati o in via di elaborazione al fine di facilitare, attraverso la loro pubblicazione, un coordinamento a livello nazionale. In risposta, le Facoltà dell’Aquila e di Ferrara inviano il loro piano di studi; quella di Trieste comunica di non aver ancora elaborato un apposito progetto per istituire il nuovo corso di laurea mentre quella di Parma, avendo intenzione di istituirlo, chiede materiale informativo da altre Facoltà. Il 18 novembre 1968, Manara informa Prodi che la Facoltà di Milano non ha intenzione di fare alcuna proposta finché non si chiariranno i dubbi sulla legge 442 e finché “noi (cioè Tu, de Finetti ed io) abbiamo concluso qualcosa. (…) Il giorno 21 sarò a Roma per una Commissione ministeriale e mi incontrerò con de Finetti per un primo scambio di idee”. L’incontro avviene e così Manara ne riferisce a Prodi: “Ho parlato con de Finetti a proposito dell’incarico che ci è stato affidato dall’UMI. Ho anche dato a de Finetti una copia del Vostro progetto di Pisa. Naturalmente de Finetti ha in argomento delle idee molto originali: per es. non vorrebbe degli esami speciali, ma solo esami di cultura alla fine di ogni anno di corso. Ho cercato di fargli capire che nella attuale situazione sarebbe difficile ottenere ciò che lui vuole, e gli ho detto che comunque il Vostro progetto è un primo passo verso gli ideali che gli sono cari”. Dopo questo scambio di opinioni, nella prima metà del 1970, le Facoltà di Firenze, Messina, Roma, Pavia, Genova e Bologna inoltrano al Ministero della Pubblica Istruzione domanda per l’approvazione dei piani di studio varati da ognuna di esse.

L’11 luglio 1970 la Sezione prima del Consiglio superiore della P.I. fa presente al Ministro che le loro proposte per l’istituzione del nuovo corso si fondano sulla procedura prevista dall’art. 18 della legge 12 marzo 1968 n° 442 ma che la Sezione stessa non può far altro che negare l’approvazione in quanto l’art. 2 di tale legge è stato mal interpretato. Anzi, ritenendo che l’errore tragga origine dalla mancanza di chiarezza della legge, sollecita il Ministero ad inviare alle Facoltà di Scienze una circolare chiarificatrice. Il Ministro della Pubblica Istruzione corre allora ai ripari con un decreto ministeriale emanato il 25 luglio 1970. Sentito il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, decreta che a partire dall’anno accademico 1969-1970, possa essere istituito presso le Università che ne fanno richiesta (ai sensi dell’art. 2 della legge 12 marzo 1968 n° 442) il quinto anno di corso per il conseguimento della laurea con valore abilitante. Durante tale anno, tutti coloro che vengono ammessi devono praticare un tirocinio guidato presso una scuola media scelta dal Provveditore agli studi in collaborazione con il Comitato interfacoltà. Inoltre nel quarto anno di corso devono essere introdotti insegnamenti relativi alle Scienze dell’educazione.

Dopo l’emanazione di tale decreto l’U.M.I. (riunita a Bologna il 4 novembre 1970) nomina Giovanni Prodi presidente di una commissione a cui affida il compito di arrivare una volta per tutte a una soluzione che riesca a rispettare le nuove disposizioni del Ministro. Per avere il miglior quadro possibile della situazione, Prodi invia a tutti i Presidi delle Facoltà scientifiche un questionario in cui anzitutto chiede se l’istituzione del nuovo corso di laurea sia già stata richiesta e, in caso affermativo, quali siano lo statuto e il piano di studi previsti, se da parte del Ministero sia stata data risposta ufficiale o ufficiosa alla domanda di istituzione e se è stata decisa l’attuazione del quinto anno come disposto dal D.M. del 25 luglio 1970. Inoltre domanda informazioni sulla discussione relativa al numero chiuso per il corso di laurea e sull’introduzione dei corsi di Psicopedagogia per gli studenti che non hanno esperienza in tale settore.

Le Facoltà di Lecce, Parma, Modena e Catania rispondono di non aver ancora affrontato in modo serio il problema del corso abilitante anche se hanno nominato commissioni di studio. Le Facoltà di Palermo, Roma, Milano, Pavia, Genova, Messina, Firenze, Bologna e Padova hanno invece preso in seria considerazione il problema e alcune di loro hanno già steso proposte per i corrispondenti piani di studi. Esprimono parere contrario all’attuazione del quinto anno abilitante le Facoltà di Roma, Parma, Catania, Bologna e Firenze mentre quella di Messina ha preso in seria considerazione la proposta di Bruno de Finetti ed esprime un certo scetticismo per quanto riguarda il quinto anno con valore abilitante, a proposito del quale ha inviato alcune richieste di chiarimento direttamente al Ministro. La proposta avanzata dall’Università di Pisa subisce ancora, in questo clima di turbamenti, ritocchi soprattutto nei piani di studi ripresentando l’idea iniziale di un primo biennio da condursi in uno dei vari corsi di laurea tradizionali (Matematica, Fisica, Chimica o Scienze naturali) a scelta dell’allievo. I motivi che giustificano queste nuove modifiche sono presumibilmente da far risalire al timore di presentare la scienza in modo superficiale e nozionistico, caratteristiche del tutto inadeguate per i futuri insegnanti di “Materie scientifiche”.

Dopo questi fatti, il 16 gennaio 1971 presso l’Istituto Matematico dell’Università di Firenze, si tiene la riunione della Commissione U.M.I. per la laurea abilitante presieduta da Giorgio Sestini della Facoltà di Scienze di Firenze. Sono presenti anche alcuni rappresentanti di varie Facoltà: Modesto Dedò per quella di Milano, Carlo Ciliberto per quella di Napoli, Mauro Pagni per quella bolognese e Giovanni Prodi nelle vesti di segretario. Prodi riferisce sull’atteggiamento assunto dalle varie Facoltà, dopo l’uscita del D.M. del 25 luglio 1970, per quanto risulta dalle risposte al suo questionario. Alcune Facoltà (come quella di Roma) continuano – secondo la relazione di Prodi – a persistere sulla strada per l’approvazione del nuovo corso di laurea ritenendo che tutta la responsabilità sia da attribuire al Ministero. Altre, invece, vista la caotica situazione che si è via via creata, hanno deciso di non tentare nemmeno l’attuazione del D.M. (quelle di Padova, di Palermo e di Parma).

Dopo un’approfondita discussione, la commissione dà alcune indicazioni sulla preparazione dei docenti per la scuola media che, pubblicate sul Bollettino dell’Unione Matematica Italiana, segnano in qualche modo la fine di progetti, speranze e illusioni. Di corsi che abilitano all’insegnamento della “Matematica” e delle “Osservazioni scientifiche” anche le istituzioni ministeriali non parleranno praticamente più fino a questi ultimi anni ed è ovviamente tutta un’altra cosa.

 

Note

1 Per esempio, Vittorio Campanella scrive (in “La riforma scolastica va oltre il latino”, Riforma della Scuola, 1963, n.1, pp. 11-12): “Si è mai parlato seriamente degli orari settimanali di lezione? dei programmi? del sovraccarico mentale degli alunni che non deriva (…) dalla quantità di nozioni apprese, ma dalla frettolosità forzata con cui le devono apprendere, in così poco tempo a disposizione per lo svolgimento dei programmi, e quindi dall’impossibilità loro di assimilarle, dal modo meccanico e superficiale di trattare gli argomenti di studio, e via di seguito?”.

2 Con ciò segnando l’ennesima sconfitta del tentativo compiuto dalla prima generazione post-unitaria – quella dei Brioschi e dei Cremona, per intenderci – per consentire la formazione di una leadership nazionale con sufficiente competenza tecnico-scientifica, comunque adeguata al periodo storico.

3 Può essere interessante – e illuminante sul tipo di retroterra culturale a cui l’autore faceva riferimento – leggere qual è la definizione del termine “educare” che Campanella aveva dato poche righe sopra: “promuovere nei giovani degli interessi culturali, un senso di responsabilità morale e civile, delle capacità mentali adeguate alle vere e sostanziali esigenze della nostra società contemporanea, e un senso sociale di attitudini contributive e produttive” (ibidem).

4 Lo sottolinea per esempio Gianfranco Ferretti in “Insegnare il metodo scientifico”, Riforma della Scuola, maggio 1963, pp. 28-29.

5 A maggior ragione la preoccupazione vale per tutti quegli insegnanti (non pochi) che non sono neppure laureati. Nella “Relazione” del II Convegno di Frascati di cui si parlerà nel paragrafo 3, sono riferiti alcuni dati molto significativi in questo senso, relativi all’a.s. 1963-’64 nelle province campione di Bergamo, Udine, Viterbo, Potenza e Cagliari.

6 Per avere una visione meno settoriale della questione e farsi un’idea dei tentativi di risposta a queste e ad analoghe domande, scoprendo così quanto poco di nuovo riusciamo oggi a immaginare per risolvere i problemi della scuola media, presunto “buco nero” della scuola italiana, può essere utile leggere gli interventi che nei vari numeri del 1963 la rivista Riforma della Scuola dedica alla questione “quali insegnanti per la nuova scuola” così come i saggi contenuti nel fascicolo speciale che la rivista Scuola e città pubblica nel febbraio dello stesso anno con il titolo “Contributo di «Scuola e Città» ai lavori della Commissione nazionale di indagine sulla scuola”. (Per un confronto fra le posizioni espresse dalle due riviste, espressione del mondo comunista la prima e di quello socialista la seconda, si può vedere: D. Bertoni Jovine, “Il punto sulla scuola media”, RdS, maggio 1963, pp. 3-5.)

7 Già nell’aprile 1961 l’Unione Matematica Italiana si era associata all’opposizione espressa dalla sezione emiliana della Mathesis nei confronti della scelta di un “insegnante unico di Matematica e Osservazioni” nelle classi pilota.

8 Vi si legge fra l’altro che l’alunno sarà condotto a “riflettere sul programma svolto, al fine di far cogliere il senso e la necessità del passaggio da uno studio sperimentale e concreto a concezioni astratte e indagini razionali”.

9 Anche oggi è esperienza frequente, per chi si propone di costruire occasioni di apprendimento informale della Matematica che affianchino il percorso curriculare nella scuola media, il fatto – come scrive un’insegnante alla redazione dei giochi on-line del Centro “matematita” – che “i ragazzi non hanno trovato difficoltà a fare i conti, ma a decidere quali fare e, soprattutto, a spiegarlo poi ai loro compagni”.

10 Comunque ecco i programmi qui di seguito:

Classe I

I numeri naturali. Numerazione decimale e richiami sul sistema metrico decimale. Operazioni dirette e inverse e le loro proprietà formali, con particolare riguardo ad esercizi di calcolo rapido e di calcolo mentale. Le potenze e le loro principali proprietà; nozione di radice. Uso delle tavole numeriche. Divisibilità: numeri primi: massimo comun divisore e minimo comune multiplo. Le frazioni. Studio delle figure piane a partire dai modelli materiali con particolare riguardo ai triangoli e ai quadrangoli. Uguaglianza di figure piane. Angoli e loro misure.

Classe II

Calcolo di radici quadrate. Numeri razionali. Semplici esempi di corrispondenze e di funzioni con particolare riguardo ai rapporti e alle proporzionalità diretta ed inversa. Interesse e sconto. Nozioni sulla equivalenza dei poligoni, verifiche sperimentali e formule per la determinazione delle aree. Teorema di Pitagora e sue applicazioni. Concetto intuitivo di figure simili. Riduzioni in scala.

Classe III

Rappresentazione grafica di funzioni. Diagrammi. Numeri relativi. Equazioni a coefficienti numerici di primo grado ad una incognita. Semplici problemi di primo grado risolvibili mediante una sola equazione. Cerchio. Lunghezza della circonferenza e area del cerchio. Le figure geometriche nello spazio. Regole pratiche per la determinazione delle aree delle superfici e dei volumi dei solidi più noti ricavate da considerazioni di carattere concreto.

11 Che la somma di due numeri dispari sia pari è un’affermazione che richiede molta più attenzione di quanto siamo disposti a riconoscerle per abitudine e per tradizione. Quanti docenti di scuola superiore si sono trovati a dover spiegare che non si tratta di dimostrare l’uguaglianza (2n+1)+(2n+1) = 4n+2? Non sarebbe stato più utile lasciarlo scoprire a un pre-adolescente?

12 Non stiamo certo pensando a un’introduzione formale di quella che si chiamava “Geometria gruppale” ma al recepimento del fatto che qualcosa, anche nell’atteggiamento geometrico, è cambiato nell’Ottocento. Probabilmente, a posteriori, possiamo ritenere che il mancato riferimento alla cosiddetta “Matematica moderna” non abbia rappresentato una grande iattura per l’apprendimento della Matematica da parte dei ragazzi, ma è innegabile che assenze così assordanti siano un indice di quanto sia pericoloso affidare a figure di funzionari lontani dalla ricerca attiva compiti di indirizzo tanto delicati. L’accenno contenuto nella presentazione dei programmi di Matematica secondo cui “l’insegnante avrà cura di dare risalto a quelle proprietà che non dipendono dalla particolare natura degli elementi di cui trattasi, e di inquadrare in un medesimo schema logico questioni incontrate in differenti capitoli del programma, la cui trattazione comporti identità operativa o strutturale” lasciava sperare ben altro.

13 La copia che abbiamo consultato è quella presente nell’archivio di Giovanni Prodi (1925-2010) che anni fa l’aveva affidato a chi scrive perché fosse messo a disposizione degli storici della storia della scuola e dei docenti interessati. Una redazione successiva della proposta di de Finetti, preparata per la stampa, è stata pubblicata (febbraio-aprile 1964 – Serie IV, vol. XLII n. 1-2, pp. 72-114) nel Periodico di Matematiche diretto da Oscar Chisini (1889-1967) con Modesto Dedò e Carlo Felice Manara condirettori. In tale versione sono sparite quelle che sugli appunti (e qui di seguito) erano indicate come I e II parte.

14 È proprio questa capacità di “fondere” approcci diversi ai problemi e di usare con naturalezza strumenti differenti per risolverli che rende ancora oggi affascinanti i testi di de Finetti di riflessione sulla Matematica e sul suo insegnamento, dal Saper vedere in matematica (Loescher, Torino, 1967) pensato per gli studenti al Calcolo delle probabilità (nei Seminari di matematica finanziaria e attuariale del Centro didattico nazionale per l’Istruzione tecnica e professionale, Roma, 1958 ) pensato per gli insegnanti.

15 Il testo di questa presa di posizione del 2 febbraio 1964 è riportato anche sul Periodico di Matematiche (serie IV, n. 41, pp. 302-308) in un articolo di C.F. Manara sulla formazione degli insegnanti che dà avvio alla pubblicazione sulla rivista di una serie di interventi di docenti – universitari e non – sulla questione. Fra gli altri, nel 1965, è da segnalare quello di Tullio Viola, presidente della Mathesis, scritto come una risposta, fieramente contraria, proprio all’articolo di de Finetti.

16 La traduzione di questo testo della Inter-Union Commission for Teaching of Science è riportata nell’introduzione all’articolo di de Finetti già citato.

17 Le parti sono dedicate rispettivamente ai seguenti argomenti: I Corso di laurea per la preparazione degli insegnanti; II Commenti a giustificazione delle decisioni di principio; III Idee generali su metodi e obiettivi dell’insegnamento; IV Metodi e obiettivi dell’insegnamento nella scuola media unica; V Sulla preparazione degli insegnanti di Materie Scientifiche.

18 Si tratta del paragrafo “Come si dovrebbe studiare” dal capitolo “La scuola dell’onniscienza” (articolo su Il Mondo, 13 settembre 1955) nel volume Scuola sotto inchiesta, Einaudi, 1957.

19 Secondo quanto ne scrive lo stesso de Finetti al Direttore del Periodico di Matematiche, nel luglio 1963 la Commissione e il Consiglio di Facoltà dell’Università di Roma si dicono in linea di massima favorevoli alla soluzione prospettata e disposti a studiare l’istituzione presso la Facoltà di un corso di Laurea in «Materie scientifiche» (corrispondente a quello per «Materie letterarie» della Facoltà di Magistero), inteso alla preparazione specifica di insegnanti di «Matematica e Osservazioni scientifiche». In realtà la proposta resta in archivio fino al 1967, pochi mesi prima della legge del 12 marzo 1968 istitutiva dell’Università della Calabria che avrà una parte importante nel seguito della storia della formazione degli insegnanti (cfr. la lettera del 4 dicembre 1970 con cui de Finetti risponde alla richiesta di informazioni di Prodi).

20 Il progetto, come si legge nelle conclusioni dell’incontro, prevede per il primo biennio gli insegnamenti di Analisi I, Geometria I, Complementi di matematiche elementari ed algebra lineare, Algebra, Analisi II, Geometria II e Fisica I. Il secondo invece contempla, accanto ai corsi obbligatori (Fisica II, Matematiche complementari I e II, Matematiche superiori, Didattica della matematica ed Esercitazioni didattiche) tre corsi complementari: uno totalmente libero, uno da scegliere fra Matematiche applicate I e II e un terzo da scegliere nel “gruppo umanistico” che comprende Storia della Matematica, Storia del pensiero scientifico, Filosofia delle scienze, Psicopedagogia e Logica matematica.

21 Traiamo queste informazioni dalla “Relazione” che illustra l’organizzazione del convegno e ne espone le conclusioni.

22 Fra gli altri: Pietro Buzano del Politecnico di Torino, Luigi Campedelli dell’Università di Firenze, Emma Castelnuovo della scuola media “Tasso” di Roma, Jaurès Cecconi dell’Università di Genova, Marco Cugiani e Carlo Felice Manara dell’Università di Milano, Mario Curzio e Vittorio Dalla Volta dell’Università di Napoli.

23 Come del resto sembra suggerire C.F. Manara nella sua lettera a Prodi del 22 novembre 1968.

24 In “Una scuola senza memoria”, Lettera Matematica PRISTEM, n. 24, pp. 12-19.

25 Per esempio, le lauree in Matematica, Fisica e Scienze naturali, pur potendo avere valore abilitante all’insegnamento di “Matematica, Osservazioni ed Elementi di Scienze naturali” nella scuola media dell’obbligo, dovrebbero conservare il loro carattere fondamentale, con limiti posti alla “liberalizzazione” del curriculum dello studente. Solo una parte ristretta e marginale dei corsi potrebbe perciò essere sostituita e la sostituzione è consentita solo in modo da favorire un completamento della cultura. Si auspica un corso di laurea, di durata quadriennale, in “Matematica e Scienze” destinato alla formazione degli insegnanti per “Matematica, Osservazioni ed Elementi di Scienze naturali “ sperando in una rapida approvazione dei piani di studi da parte degli organi competenti. Si ritiene che debbano essere approvati solo i piani di studi che prevedono almeno cinque corsi annuali di Matematica, otto corsi di materie naturalistiche, due corsi di Didattica e uno di Psicopedagogia. E infine, per quanto riguarda l’abilitazione all’insegnamento dei laureati in Matematica, Fisica, Scienze naturali, si ritiene che debbano essere istituiti dei corsi annuali abilitanti.

26 Serie IV, Anno IV, 1971, p. 215.