Scienza e Letteratura nell'Italia della seconda metà del '900 (II)

Ecco la seconda parte del saggio di Giuseppe Lupo (qui la prima parte) sul dibattito degli anni Sessanta sul cosiddetto romanzo industriale, che vede impegnati scrittori e intellettuali al servizio di grandi aziende. In particolare, intorno al progetto di una fabbrica-comunità matura un genere narrativo che per i suoi legami con la realtà di Ivrea, per i suoi richiami agli ideali di Adriano Olivetti, può essere definito romanzo olivettiano.

Calvino, Kafka e il romanzo olivettiano (parte 2)

Una volta denunciati i debiti che la letteratura industriale ha contratto con Kafka, nella corrispondenza con Longobardi, Calvino entra nel merito del romanzo olivettiano e fornisce le due importanti coordinate interpretative (le nozioni di allegoria e di mistero, appunto) che aiuterebbero a distinguere Memoriale di Volponi dai libri di Ottieri (Tempi stretti, Donnarumma all’assalto e La linea gotica), di Buzzi (Il Senatore e L’amore mio italiano) e di Bigiaretti (Il congresso). Già solo a contare il numero degli interventi critici, il testo di Volponi va posto in cima ai suoi interessi. Se ne occupa dapprima in un saggio su menabò 5 (1962), intitolato “La tematica industriale”, dove lo inserisce accanto ad altri due romanzi incentrati sul miracolo economico (La vita agra di Luciano Bianciardi e Una nuvola d’ira di Giovanni Arpino) usciti nel ’62 presso Rizzoli e Mondadori; in seguito ne fa oggetto di un’ampia recensione, apparsa sull’ Illustrazione Italiana nel maggio di quello stesso anno. Di tutt’altra natura, invece, è il trattamento riservato alle pubblicazioni di Buzzi e Ottieri per le quali affida la propria opinione a corrispondenze epistolari, vale a dire a un genere di scrittura che non necessariamente presuppone una divulgazione a mezzo di stampa. Quanto poi a Bigiaretti, il suo Congresso non riceve alcun segno di attenzione.

L’atteggiamento di Calvino è significativo e svela una gerarchia di valori che, per quanto poco si evinca dalla lettera a Longobardi, ha un peso notevole sul giudizio complessivo attribuito alla narrativa industriale. Letto a quarant’anni di distanza, il frammento epistolare assume un particolare valore esegetico. Mentre, da un lato, egli si mostra cauto nel condividere l’efficacia delle tendenze emerse negli anni immediatamente dopo il secondo conflitto, in una fase ormai lontana rispetto al periodo in cui viene redatta la lettera, dall’altro individua la duplice chiave di lettura (il mistero e l’allegoria) che permette di trasferire buona parte dei romanzi legati ai temi dell’utopia olivettiana dall’orizzonte delle narrazioni ideologiche (o tardo-neorealiste) a quello, più convincente e affascinante, della letteratura che si esprime per simboli.

Prima di verificare la validità di questa intuizione critica, occorre capire le ragioni per cui Volponi – come Calvino scrive a Longobardi – “ha un modo suo di vedere le cose”. Nell’estromettere Memoriale dal perimetro del kafkismo sociologico, Calvino si introduce in un ragionamento sui modi del raccontare e su come reagiscono gli scrittori nei confronti di un argomento à la page. Quando su menabò 5 allude a un tipo di romanzo che predilige la strada della riflessione teorica piuttosto che quella narrativa (“Si ha l’impressione che lo scrittore entra meglio nel merito quanto più inclina verso il discorso saggistico”), non fa che riflettere sulle finalità del lavoro letterario dinanzi a una materia, come l’industria, ancora tutta da reinventare. E lo considera un impegno notevole, che prevede certo il rispetto di regole, ma che presuppone anche un margine di libertà tale da assicurare all’autore un grado di autonomia [1].

Dal momento che le narrazioni di fabbrica coltivano una forma espressiva che si avvicina a quello dell’essaisme, la definizione di kafkismo sociologico contribuisce a spiegare la distanza tra Memoriale e il resto dei romanzi olivettiani. Il libro di Volponi, infatti, manifesta una “tensione lirico-trasfigurativa” – afferma Calvino nella “Tematica industriale” – e dunque non appartiene a quelle scritture labirintiche e ossessive per capacità introspettiva né fornisce gli estremi per essere definita, come nel caso di Tempi stretti, un documento. In realtà Memoriale risulta il libro più dotato di spunti poetici (il più propenso a “fare la prosa con i modi della lirica”, afferma nella recensione edita sull’Illustrazione Italiana) e, per questo motivo, il più sorprendente:

Le cose che ci si poteva aspettare in un romanzo così sono preste dette: punto di vista politico impegnato; denuncia d’ingiustizie sociali; linguaggio semidialettale, duro scorbutico; forma mentis di praticità razionale ed estroversa; struttura narrativa modellata sulle esperienze più avveniristiche. Invece, tutto il contrario: il libro di Volponi figura scritto in prima persona d’un operaio che si dichiara democristiano, un montanaro che conserva entrando in fabbrica la mentalità isolata e diffidente del piccolo proprietario di una campagna povera, e per di più un malato che si ribella alle troppe previdenze che gli usa la società industriale” [2].

Adriano Olivetti a Ivrea

 

È certo che tra la disamina compiuta nella “Tematica industriale” e la nota critica apparsa sull’Illustrazione Italiana sussiste più di un contatto, essendo la seconda il naturale approfondimento della prima. Non a caso, l’elemento originale, che sul menabò viene attribuito alle scelte lessicali (“L’impostazione linguistica di Volponi è la più inattesa”), sull’Illustrazione Italiana si accresce di ulteriori elementi quali la capacità di rielaborare un genere o, meglio, di elevare a compiutezza letteraria una forma di scrittura umile, destinata agli sfoghi personali e qui utilizzata per animare una sorta di luddismo ante litteram, in aperta contraddizione con le opinioni espresse da Ottieri in Taccuino industriale a proposito degli operai incapaci di esprimersi mediante le parole.

Di memoriali simili – ammette Calvino nel contributo sull’Illustrazione Italiana ne arrivano di continuo agli uffici “personale” o “relazioni umane” delle grandi aziende, così come ai ministeri, ai parlamentari, ai comandi dei carabinieri; e perfino alle case editrici, perché lo sfogo pratico assume spesso ambizione letterarie. Possiamo considerarli un vero e proprio genere letterario popolare dell’Italia più frustrata e negletta, con quel tanto di straziantemente italiano che c’è in questa fiducia nel potere della parola scritta. (...) Paolo Volponi ha fatto “salire” questo genere letterario inedito che sono i memoriali di protesta sul piano della letteratura d’arte” [3]. Se sia opportuno riservare al romanzo di Volponi una posizione a sé, dunque, è un problema che riguarda soprattutto l’aspetto formale su cui pesa tanto l’uso di una lingua poetica – non dimentichiamo che Memoriale segue i versi di Il ramarro (1948), L’antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960) – quanto la scelta di innalzare a tensione metafisica lo sfogo di un operaio-nevrotico. Che la soluzione tecnica di Volponi sia azzeccata ce lo conferma involontariamente lo stesso Ottieri, il quale annota, in una pagina della Linea gotica, l’incontro occasionale dell’io narrante con un operaio “grafomane e depresso”, specialista nel mandare “lunghe epistole all’Ufficio Personale” [4]. 

Più che dare conto delle ragioni che distinguono Memoriale dai romanzi di Bigiaretti, Buzzi e Ottieri, nella recensione sull’Illustrazione Italiana Calvino sembra interessato a rimarcare gli aspetti inconsueti che il testo di Volponi manifesta nei confronti di una letteratura in potenza e non in atto. Il risultato coglie bene alcuni fenomeni da cui lo scrittore di Urbino ha cercato di tenersi alla larga: ideologia, dialetto, struttura eccessivamente sperimentale. Dietro la scelta di adottare il modello dei memoriali si nasconde un’ulteriore linea di demarcazione a cui Calvino, almeno in apparenza, non sembra dare ascolto. Mentre Volponi esprime il punto di vista di un operaio che, nel solennizzare la nostalgia verso la civiltà contadina, si trasforma in un “ribelle alla welfare society” (sono ancora parole della recensione sull’Illustrazione Italiana), Bigiaretti, Buzzi e Ottieri eleggono a protagonisti uomini con importanti responsabilità in campo aziendale: dirigenti inviati a Pozzuoli per selezionare il personale (Donnarumma di Ottieri), funzionari coinvolti in amori clandestini, consumati durante un congresso tra esperti pubblicitari svoltosi a Napoli (Il congresso di Bigiaretti) o in una comunità pianificata negli stili di vita e circondata da un così diffuso benessere economico (L’amore mio italiano di Buzzi) da far venire inmente a Calvino “un’Italia un po’ svedese” [5]. Buzzi, Ottieri e Bigiaretti, in fondo, seguono una traiettoria diametralmente opposta a Volponi: la loro è una visione che coinvolge i piani alti di un’azienda e contribuisce a fornire la carta di identità dell’intellettuale di fabbrica, chiamato a manifestare la propria opinione nei confronti del potere economico che lo corteggia e, come in una moderna corte rinascimentale, lo avvia nella pratica della falsità avvicinando il suo profilo – suggerisce Bigiaretti – al rango dei “persuasori occulti” [6].

Non c’è dubbio che la lettera a Longobardi, poiché si colloca al di qua di una ipotetica incursione nei romanzi di fabbrica, assume il valore di un consuntivo assai più efficace rispetto alla “Tematica industriale”. Mentre sul menabò Calvino si sofferma a discutere di Memoriale di Volponi e trascura sia Il senatore di Buzzi che Tempi stretti e Donnarumma all’assalto di Ottieri, scrivendo a Longobardi, nel ’65, ha di fronte il quadro completo della narrativa sorta à côtè dell’utopia di Ivrea. Dentro la quale, naturalmente, sono da annoverare anche La linea gotica di Ottieri, L’amore mio italiano di Buzzi e Il congresso di Bigiaretti, tutti editi nel ’63, posteriori quindi di un anno a “La tematica industriale”.

A questo punto bisognerebbe compiere un’operazione rischiosa: accantonare Memoriale di Volponi (perché 53 lettera matematica 77 FRA STORIA E MEMORIA romanzo di un olivettismo a sé), Il congresso di Bigiaretti (perché ignorato dal punto di vista critico) e Tempi stretti di Ottieri (perché documento privo di poesia) per cercare gli elementi del mistero e dell’allegoria solo nei due testi di Buzzi (su cui esiste corrispondenza nei Libri degli altri) e nei due diari di Ottieri (Donnarumma all’assalto e La linea gotica), sulla cui genesi editoriale verte molta parte del carteggio contenuto nella Storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini. In realtà non è necessario un tipo di scelta così radicale. A parte Memoriale, la ricognizione andrebbe compiuta a tutto campo, partendo dalle testimonianze epistolari dove peraltro Calvino non si sbilancia mai troppo e preferisce nascondere il proprio commento in qualche breve annotazione. Per quanto riguarda Buzzi, si limita infatti a parlare di “simbologia psicologica e filosofico-religiosa” (per Il senatore) e di “psicologia coniugale” (per L’amore mio italiano); della Linea gotica di Ottieri, apprezza invece l’“interesse per il mondo industriale, che da morale-ideologico si fa concreto, circostanziato, attento a cogliere la realtà di un tipo di vita in tutti i suoi aspetti” ma non condivide l’idea di realizzare un libro, ritenendola materia più adatta a comparire su rivista. In effetti, prima che nel volume del 1963, toccherà al quarto numero del menabò accogliere, sotto il titolo “Taccuino industriale”, un’antologia delle pagine di diario comprese tra il novembre del 1954 e il maggio del 1957 [7].

Assai più laconico Calvino si mostra su Donnarumma all’assalto. Più che occuparsene direttamente, affida il proprio giudizio a un passaggio contenuto nella recensione a Volponi sull’Illustrazione Italiana, in cui lo definisce “il libro più significativo come documento e commento dell’Italia d’oggi, riferendosi all’esperienza del Sud soprapolato” [8]. Come si vede, è davvero un parere che ha il merito di ribadire la natura di reperto testimoniale (essere cioè un documento come già lo era stato Tempi stretti) dotato – ed è questa la vera novità – di una capacità interpretativa, di una validità esegetica quale si addice, appunto, a un commento. È vero che tra i carteggi facenti parte della Storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini si conserva una breve corrispondenza del 28 luglio 1959 in cui Calvino si lascia andare a un entusiasmo abbastanza inconsueto (“ho cominciato Donnarumma con grande interesse [...]. Sento del grande successo e – pur mordendomi le pugna – ne godo”), ma anche in questo caso non si tratta di una vera e propria analisi, piuttosto di uno sfogo che sembra porre fine a una polemica, sorta dopo che Ottieri, avvertendo lo scarso interesse dell’Einaudi nei suoi confronti, aveva deciso di presentare il libro a Bompiani [9].

Su Donnarumma all’assalto, insomma, ci si sarebbe aspettati da Calvino qualcosa in più di un breve “ne godo”, sia perché il libro di Ottieri apre la strada al romanzo olivettiano tout court (essendo Il senatore di Buzzi una vicenda aziendale pubblicata un anno prima, ma non strettamente legata agli ambienti di Ivrea), sia perché rappresenta una prova convincente sul piano dell’equilibrio formale. Di ciò era consapevole l’autore stesso che, in una lettera finora inedita, inviata il 28 aprile del 1958 all’allora direttore dello stabilimento di Pozzuoli, Rigo Innocenti, confessava di aver impostato il racconto in termini ben diversi rispetto a Tempi stretti: “Per quanto documento, riferibile a una situazione riconoscibilissima, “vera”, ho dovuto puntare il libro invece che su una validità sociologica, su una efficacia artistica [10]”. 

Nonostante Calvino avesse promesso a Ottieri un giudizio più completo sul romanzo (“te ne scriverò appena l’avrò finito”, gli preannuncia il 28 luglio 1959 per lettera), non si può non accogliere il suo silenzio con qualche dose di perplessità [11]. Probabilmente è ancora in imbarazzo per la vicenda editoriale che si è conclusa con lo strappo di Ottieri dall’Einaudi e per la quale gli vengono imputate le maggiori responsabilità. Ma non è detto che il suo atteggiamento, su questo come su altri testi che conosceva assai bene in anteprima, non rappresenti un elemento su cui riflettere in sede di valutazione critica. Sotto certi aspetti, potrebbe costituire la prova attraverso cui misurare il livello di adesione più o meno convinta alla formula del romanzo olivettiano anche se non aiuta a fare piena luce sui rapporti tra allegoria e mistero, cui fa riferimento nella lettera a Longobardi. In effetti, le due endiadi codificano un aspetto della narrativa di fabbrica che, tranne i lettori più avveduti (Cambon, per esempio, con le due recensioni a Buzzi su Aut Aut), la stragrande maggioranza dei critici militanti aveva trascurato per dare credito invece a valutazioni incentrate esclusivamente su letture ideologiche (e non simboliche) dell’industria.

In mancanza di un’autentica chiarificazione circa l’interpretazione di Calvino, bisognerebbe spingersi in un territorio che va ben oltre l’intuizione fornita nella lettera a Longobardi e osservare gli stabilimenti industriali di Ivrea e di Pozzuoli nel momento in cui, relegando in second’ordine la condizione operaia, perdono i connotati di una normale officina e assumono la fisionomia di costruzioni dai contorni trasfigurati. Il primo nucleo tematico è individuabile nell’icona della “fabbrica di vetro”: vero e proprio motivo conduttore che in Ottieri assume la forma del “castello orizzontale di vetro” o dell’“immenso parallelepipedo con la parete di vetro”, per trasmigrare presto fra le memorie dell’operaio di Volponi nella dimensione di luogo segnato da un particolare stato di pulchritudo scaturito dalla solitudine: “così è anche bella la fabbrica con i suoi vetri e metalli, con le grandi arcate azzurre e tutte le macchine in fila, quando è deserta [12]”. L’esperienza di Albino Saluggia tocca in questo passo il vertice di quel sentimento di hybris che una galleria di macchine può generare solo quando cessa il lavoro quotidiano e le officine sono consegnate alla severità silenziosa di una cattedrale gotica. La sensazione non è nuova. Uno degli operai di Ottieri, Rubino, “quando suonava il campanello dell’uscita [...] rimaneva solo tra le macchine ferme, ripulite, nella quiete pensosa dell’officina quando è deserta” [13]. Alcuni decenni prima era toccato a Leonardo Sinisgalli, visitando gli stabilimenti di Narni, in Umbria, “andare a trovare le macchine in riposo, (...) coglierle nella loro stanchezza” [14]. Il topos della visita notturna non fornisce semplicemente il paragone tra le nevrosi degli operai e le emozioni del poeta-ingegnere, ma rappresenta un vero e proprio espediente letterario che intende preservare la fabbrica dai pericoli disumanizzanti. L’affascinante passeggiata fra le calandre dove si produce il linoleum (nel caso di Sinisgalli) o fra i trasformatori elettrici (nel caso di Saluggia) conferisce alla realtà industriale caratteri trasfiguranti e proietta la fabbrica in un alone di sacralità:

Debbo dire che lavorare a quell’ora, entrare nella fabbrica misteriosa, lucente pur senza rompere il buio come un pezzo di stella caduto, girare nel vuoto dei reparti con l’impressione di camminare nel sonno di tutti quelli che nel giorno erano stati in quei posti, toccarne gli attrezzi o spostarne le sedie, proprio con l’impressione di entrare nel loro sonno, a casa loro, nelle loro teste, come un mago e vivere nel silenzio, in un silenzio assurdo in quella matrice di rumore, e vedere ferme quelle macchine e tutti i nastri trasportatori, era bello e affascinante. Con lo stesso stupore entravo nella chiesa del collegio di notte dopo il riposo, portando vasi di fiori e di erbe per preparare il sepolcro del Giovedì santo” [15].

Paolo Volponi nel suo studio

 

 

Da una sorta di incanto onirico (l’attraversare il sonno dei colleghi) la visione di Saluggia transita verso l’incanto liturgico (la chiesa), inserendosi in un percorso che ha precisi riferimenti culturali in Persico e in Sinisgalli. Il primo, addirittura nel 1927, individuava negli stabilimenti torinesi del Lingotto un senso di religiosità latente (“Come lo stile delle cattedrali: queste officine hanno concluso la ricerca del divino in un momento della storia” [16]); il secondo puntava decisamente sull’aspetto della fabbrica quale luogo consacrato all’intelligenza umana: “Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito” [17]. Se Persico ha il merito di aver colto quegli aspetti della condizione operaia su cui si sarebbe soffermata Simone Weil più meno negli stessi anni, a Sinisgalli e a Volponi va riconosciuto il passaggio dalla cattedrale alla fabbrica, codificando un elemento importante dell’olivettismo: il sofferto rapporto tra le leggi dell’economia e l’etica cristiana del lavoro, quello che Bigiaretti avrebbe chiamato il “rigoroso vento calvinista” [18]. Si tratta certo di un problema che risente di una matrice che affonda le sue radici nel sottosuolo dell’utile, nelle questioni cioè che legano il mito della salvezza spirituale al soddisfacimento dei bisogni materiali. Anche su questo argomento Ottieri appare fra i più attenti e nella Linea gotica professa una sorta di fiducia laica nel miracolo del progresso: “Ho sempre inteso la salvezza dell’anima, come puro mezzo per raggiungere il vero fine, il produrre. La salvezza dell’anima non la concepisco altrimenti che uno sgombero di ostacoli al produrre” [19]. 

Se il dio della nuova religione è il fordismo, cioè l’ottimizzazione ma anche l’esasperazione del lavoro umano (altra cosa da ciò che Olivetti stesso intendeva per “immensa forza spirituale”), è chiaro che gran parte delle attenzioni degli scrittori olivettiani si concentrano intorno alla ritualità della catena di montaggio che è il vero discrimine tra la creatività artigianale e la produzione in serie [20]. Tuttavia il tema del sacro si ripresenta anche nella presenza del vetro di cui si compone il corpo della fabbrica di Ivrea e che richiama qualcosa di solenne: pensiamo alle finestre delle cattedrali gotiche e al sapiente gioco di luci e colori che scaturisce dalle invetriate. Senza dimenticare che l’uso di un materiale trasparente per edificare capannoni e centri di vita comunitaria (biblioteche, asili, servizi sociali, auditorium) assume la funzione specifica di elemento finalizzato allo svelamento (“sembra che nella nostra città nulla si voglia nascondere”, scrive Buzzi nell’Amore mio italiano), dunque a rendere manifesto un ambizioso progetto di civitas capace di esaltare quell’alone di capitalismo protestante che in Calvino accendeva, appunto, l’idea di “un’Italia un po’ svedese” [21].

L’icona della fabbrica luminosa può davvero incarnare quel gusto razionale che Adriano Olivetti definiva l’“architettura del cemento e del vetro” e che ritroviamo negli edifici progettati a Ivrea, da Figini e Pollini, intorno alla metà degli anni Trenta [22]. È frutto di un’idea che rimanda all’esperienza del Bauhaus e, nella natura di oggetto bello e trasparente, dichiara tutta la sua volontà di ridurre il diaframma tra paesaggio circostante e azienda, tra interno ed esterno, in maniera da consentire a chi lavora in officina di osservare e di essere osservato. Indubbiamente, poiché composta di vetro, la fabbrica perde i connotati di luogo triste per acquisire la qualità della claritas (intesa nel senso di luminosità e di trasparenza) ma genera il sospetto che nulla ormai possa sfuggire allo sguardo paternalistico del padrone (“il dio dei patriarchi – secondo Buzzi – a cui sarebbe stato follia disobbedire”), fino al punto da favorire il trasferimento da luogo illuminato a carcere, luogo di controllo o, per ricorrere di nuovo alle parole di Bigiaretti, a “gabbia di vetro” [23].

Uno degli edifici progettati a Ivrea dagli architetti Figini e Pollini

 

Il processo di trasfigurazione, che alimenta il gioco dei rimandi allegorici, non si limita al puro aspetto esteriore degli stabilimenti industriali (dalla “fabbrica di vetro” alla “gabbia di vetro”) ma arriva perfino a coinvolgere, a livello sotterraneo, una catena di simboli che rinvia alle fonti di tradizione ariostesca-tassiana e, ancora più indietro, si misura con echi biblici. In Donnarumma all’assalto si può osservare la rappresentazione dell’officina di Pozzuoli secondo la visione fiabesca del “palazzo proibito” o del “castello illuminato”: un luogo di ricchezze e di sogni, cui gli aspiranti operai (Donnarumma, Dattilo, Accettura), simili a cavalieri in una crociata dagli obiettivi moderni, tentano invano l’assalto, allusivamente richiamato nel titolo [24]. Nella lotta che ingaggiano quotidianamente con la fabbrica, pur se ad armi impari (le attitudini al lavoro industriale misurate dalla psicotecnica piuttosto che dalle abilità manuali), si celano non solo le frustrazioni dei nuovi paladini quasi fossero di fronte al fortilizio del mago Atlante o all’edificio turrito in cui abita Armida – “palazzo proibito” è un calco ariostesco di “albergo proibito” (Orl. Fur., canto 36, 106) – ma anche quei sentimenti di attesa, che caricano il racconto di motivi metafisici. “Qui giudichiamo un popolo intero. Gli eletti possono anche venir assunti nel nostro stabilimento”: afferma a un certo punto l’io narrante in Donnarumma all’assalto. E poco più avanti l’aspirante operaio Dattilo, portavoce di una posizione di subalternità (“Noi siamo nell’inferno”), giunge a identificare il proprio status di disoccupato con quello delle anime poste da Dante sotto la giurisdizione di Minosse: “Un disoccupato non è cattolico. Un disoccupato non è benedetto” [25]. 

Intorno all’immagine che definisce la fabbrica nella dimensione di soglia vietata, agiscono almeno tre matrici: quella fiabesca-cavalleresca, che si rifà al lavoro svolto da Calvino intorno alle Fiabe italiane (1956) e alla trilogia dei Nostri Antenati (1952-1959), quella psicanalitica (nella Linea gotica gli interessi di Ottieri nei confronti di Freud, Jung e Musatti sono già campionabili a partire dal 1948 con una particolare attenzione dedicata all’intreccio tra marxismo e psicanalisi), quella pseudo-religiosa che fra tutte appare la più inedita. In base alla nuova religione del lavoro, chi aspetta il colloquio decisivo per l’assunzione si trova nella medesima situazione di chi vive relegato in un “laico limbo” [26]. È un individuo, cioè, che appartiene a nessun regno.

Lo stato di sospensione apparenta i disoccupati di Ottieri ai contadini di Carlo Levi, cui li lega la comune appartenenza alla stirpe dei condannati, anche se a un livello più drammatico di evoluzione. Non a caso, il paragone che anche da un punto di vista lessicale si stabilisce con i motivi dell’apocalisse biblica (nel romanzo di Ottieri è frequente l’espressione “giudizio universale” con riferimento alle selezioni del personale) non solo autorizza l’accostamento tra assunzione in fabbrica e salvezza eterna ma favorisce la sensazione che, una volta superato il “giudizio universale” (il colloquio), si possa davvero accedere a una specie di eden felice, descritto con i caratteri dell’“isola affiorata da un mare senza continenti”: un’immagine che coniuga la dimensione di evanescenza (“i pescatori possono vederla così irraggiungibile da ogni punto del golfo”) con l’approccio festoso, sottolineato dal particolare aspetto cromatico [27]. Mentre i capannoni della periferia milanese, in Tempi stretti, erano segnati da tinte neutre, nella fabbrica di Pozzuoli “le macchine sono state dipinte d’azzurro, e le loro parti in movimento d’arancione vivo”, gli operai “lavorano traversati da una luce idillica e liquida” e il “sole obliquo del tramonto filtra e lambisce le facce degli attrezzisti in tuta blu, colorandole di rosa”. Si tratta di un perimetro variopinto, che racchiude così profondamente il sogno di riscatto delle plebi meridionali da essere definita da Ottieri un’“attrazione fantastica” [28]. Che la Olivetti sia una fabbrica idonea a favorire una sorta di atteggiamento ludico – “attrazione fantastica” mette in movimento i sottosignificati di giostra, circo, parco per divertimenti – è confermato dallo stesso Ottieri, il quale, nel raccontare l’esperienza di Pozzuoli nella Linea gotica, insiste sul processo di eversione carnevalesca (nel senso bachtiniano di ribaltamento della realtà), giungendo a capovolgere i pericoli di abbrutimento morale, cui sarebbero destinati gli operai, in una felice rivisitazione del locus amoenus: “Tutti i termini del mondo industriale sono, da principio, stravolti. Si agogna a lavorare in fabbrica come ad una salvezza totale. La fabbrica è un luogo di delizie, in confronto alla disoccupazione, a tutti gli pseudo-mestieri, all’antichissimo “arrangiarsi”; luogo di dignità, onore e ricchezze. Fa ridere parlare di alienazione a chi darebbe l’anima per diventare operaio” [29]. Non meno eloquentemente lo stesso Ottieri, nel capitolo settimo di Donnarumma all’assalto, racconta la visita di Eduardo De Filippo allo stabilimento di Pozzuoli secondo le modalità di un’incursione ilare tra macchinari e capannoni. L’avvenimento accende nel testo una serie di rimandi (“spingendo avanti una faccia da commedia” o “a ogni banco si apriva un palcoscenico nuovo, una platea nuova”) destinati a riverberarsi successivamente nella presenza dei pupazzi (“Sabato porto il figlio (...) con una faccina e una testina da burattino”) o nella visione che accosta la fabbrica a una “giostra folle” [30]. 

Di fronte a un’operazione culturale così coraggiosamente finalizzata a rileggere in chiave comica (e non più tragica) il dibattito sull’alienazione industriale, risulta davvero privo di giustificazione il silenzio di Calvino sul romanzo dedicato alla fabbrica di Pozzuoli. È probabile che sia stata la scelta della forma diaristica a non convincere pienamente Calvino, il bisogno di “far convergere tutti gli interessi in un’ansia d’autodefinizione e autointrospezione” – scrive a Ottieri il 26 maggio del 1955 –, il “rodio psicoanalitico” [31]. Tuttavia la tecnica del racconto-diario, adoperato sia in Donnarumma all’assalto ma anche nella Linea gotica, non impedisce di inserire il topos della fabbrica-teatro nel percorso delle allegorie sull’olivettismo, di cui Calvino faceva cenno a Longobardi. Semmai lo amplifica. La festa carnevalesca, inscenata dagli operai intorno al drammaturgo napoletano, favorisce quel clima che nella Linea gotica viene etichettato come “pirandellismo aziendale”: una definizione che si situa in posizione complementare rispetto a quella del kafkismo aziendale ma con un significato che puntualizza non tanto il carattere di costruzione ispirata al labirinto, quanto di demenziale e colorata passerella per maschere [32].

La fabbrica è – si può dire – il palcoscenico della follia moderna, il luogo dove si recita la farsa del lavoro e, nel contempo, dove si annidano menzogna e falsità. Ci troviamo a una distanza piuttosto breve rispetto alle nevrosi che accompagnano la permanenza di Albino Saluggia nei capannoni della fabbrica nel Canavese, anche se le motivazioni vanno distinte: Saluggia patisce l’alienazione perché interno all’azienda; Donnarumma, invece, perché non riesce a coronare con successo il sogno dell’assunzione. In realtà, la fabbrica di vetro e la fabbrica-teatro non sono che chiavi fenomenologiche di una breve, ma intensa, stagione narrativa in cui gli scrittori amano interrogarsi sulla complessità di un fenomeno antropologico, come il passaggio verso modelli mai sperimentati di vita economica, e non trascurano il senso diffuso di disorientamento che tocca sia le officine e i capannoni, sia i piani alti dell’azienda dove lavorano funzionari e dirigenti.

Il problema della degenerazione, in effetti, salda il destino degli operai alla sorte degli intellettuali che rappresentano i nuovi chierici al servizio del capitalismo. Tale aspetto contribuisce a rendere la Olivetti un luogo ancor più trasfigurato. Ce lo testimonia L’amore mio italiano di Buzzi, romanzo che coglie profondamente lo stato di incertezza della classe dirigente. Qui non si allude quasi mai alla fabbrica ma a una città-fortilizio, posta ai piedi delle Alpi, espressione di un capitalismo rispettoso dei criteri di pianificazione urbanistica e improntato sull’organizzazione tayloristica del lavoro, con l’obiettivo di produrre unicamente benessere nei suoi abitanti:

C’era intorno nell’aria, sull’asfalto, sui muri qualcosa che nelle altre città mancava: una dolce sicurezza. Ci si sentiva protetti, dai giorni a venire e dai dubbi, dai pericoli e dai mutamenti imprevedibili. (...) Non ci mancava nulla: solo a tendere la mano, afferravamo cose grate: cibo, riposo, bellezza, pulizia, calore, serenità. Avevamo le montagne e un fiume, querce e grano, prato e pietraie, negozi e automobili, una meravigliosa fabbrica, libri, musica, teatro. Avevamo la promessa che tutto questo non sarebbe stato in eterno soltanto per noi, ma sarebbe diventato di tutti: che altre città si sarebbero allineate alla nostra e avrebbero ripetuta l’immagine; che già città sorelle della nostra esistevano, in paesi vicini e lontani; luoghi dove gli uomini erano liberi dal bisogno e dalla lotta per soddisfare il bisogno, e avevano tempo di amarsi, di coltivarsi, di contemplarsi. Luoghi di pace, di fiducia, di intelligenza. La faccia che per millenni i saggi avevano augurata al mondo” [33]. 

Ci si trova in un’atmosfera che risente fortemente di una cifra fiabesca e che ancora una volta pone al centro non tanto il grigiore dell’officina quanto la luminescenza del successo economico, l’appagamento materiale che fa del processo di industrializzazione l’unica religione capace di redimere gli esseri umani, liberandoli laicamente dalla schiavitù del bisogno. “Qui l’uomo può essere felice?”, si interroga un personaggio femminile. La risposta dell’io narrante non lascia dubbi: “Io credo di sì. (...) Come Adamo” [34]. Mettendo in scena l ’allegoria edenica di una città/fabbrica, dove si ripresenta la vicenda della creazione e della cacciata, Buzzi riflette non soltanto sul fenomeno del boom economico, ma offre anche una persuasiva chiave di lettura degli esperimenti olivettiani che, pur partendo da premesse valide e pur alimentando il progetto di un fantomatico regno di equità sociale, nascondono un senso di turbamento ideologico:

Altre sentenze udivamo, che tendevano a identificare la fabbrica col mondo: come se i confini dell’universo terminassero al perimetro della fabbrica o al limite della città che della fabbrica si nutriva. Era la fabbrica che doveva curare la nostra salute fisica e psichica, che doveva darci la gioia del pane e la certezza di sopravvivere, che doveva consentirci di ammogliare e di allevare i nostri figli, che doveva appagare la nostra sete di autorità e di obbedienza con la sua gerarchia, la nostra voglia di costruire affidandoci degli oggetti da costruire. Non ci dicevano più: siete cittadini di un mondo in cui esiste anche la fabbrica; bensì: siete operai di una grandiosa fabbrica che è il vostro mondo. Anche dei nostri svaghi, dei nostri divertimenti si doveva occupare la fabbrica. (...). La fabbrica intendeva risolvere la nostra vita, ma forse, senza accorgersene, rubava spazio alla nostra vita” [35]. 

Anche il capitalismo rappresentato da Buzzi determina tensioni e ha un volto bifronte: concede benessere ma sottrae libertà; si prende cura della vita dei suoi dipendenti ma nel contempo elegge a codice etico la mistificazione dei rapporti, il confondere obiettivi e promesse, il seguire una logica spesso erronea. Ciò determina un disagio, destinato a sfociare in opposte reazioni: l’operaio di Volponi avvertirà nelle macchine la principale causa della propria malattia; il funzionario dei romanzi di Ottieri, Buzzi e Bigiaretti si sentirà parte estranea di questo nuovo umanesimo, osservato con sospetto tanto dai vertici (la cui “base ideologica – osserva Bigiaretti – non coincide con quella dell’imprenditore, di cui peraltro è chiaramente impiegato a difendere gli interessi”) quanto “da quegli operai cui vorrebbe avvicinarsi” [36]. Se è vero che la fabbrica si trasfigura in un teatro dove recitare la commedia del lavoro, è purtroppo vero che l’intellettuale-funzionario fa un ingresso poco trionfale tra i personaggi sulla scena: non è un volontario che risponde al modello Simone Weil (in cui il lavoro in fabbrica risponde a un bisogno conoscitivo e testimoniale) ma un campione introverso, incapace di ribellione pur di non rinunciare ai privilegi del proprio status, al bivio tra velleitaria denuncia o quieta condiscendenza (per non dire ipocrisia) nei confronti del potere economico. Nel dramma che si celebra intorno alla sua figura, nella crisi di identità che lascia presagire l’insorgere di un nuovo pirandellismo, si potrebbe distinguere la più autentica linea olivettiana del romanzo di fabbrica. Più che soffermarsi ad analizzare la condizione operaia, sembra che Ottieri, Buzzi e Bigiaretti abbiano a cuore la sorte degli intellettuali smarriti nell’industria-labirinto: immagine che sta a crocevia del kafkismo aziendale e che è diametralmente opposta al senso di determinazione geometrica, che soggiaceva all’icona della fabbrica di vetro.

Il tema della compromissione occupa davvero una posizione centrale quando si discute sul romanzo ispirato alla fabbrica di Ivrea o di Pozzuoli. Probabilmente individua una specie di linea antiolivettiana (nel senso di dissenso all’olivettismo) che ha il suo caso-limite nell’io narrante del Congresso di Bigiaretti: un dirigente che, pur di assicurarsi le attenzioni sentimentali/erotiche di una collega, pronuncia un’arringa accusatoria contro la propria azienda, seminando scandalo tra gli iscritti al convegno. Si tratta di un’esternazione manifestata in forma parodica, quasi una provocazione da teatrante, che assomiglia certo alle ironie dei giullari di corte ma che mette a nudo le debolezze di una categoria prigioniera della realtà aziendale:

Molte volte, e non solo in sogno, ho allevato un proponimento del genere, molte volte la mia cattiva coscienza ha creduto di potersi acquietare in tale decisione, che adottavo e immediatamente rimandavo a un’altra occasione, ma non posso essere certo di avervi pensato con risolutezza di proposito. È un pensiero ricorrente, un vai e vieni dell’immaginazione, un ammiccare, un minacciare solitario, un borbottio simile a quello del bambino che, in castigo, decide che si vendicherà un giorno, dei grandi. Comunque anche in questo momento di sincerità stento a esprimere le vere ragioni delle mie incertezze; non oso annunciare a me stesso che, fuori della Orelli, non potrei permettermi più gli alberghi di lusso, i viaggi comodi, i larghi rimborsi spese, che dovrei passare dal rango delle grosse cilindrate a quello delle utilitarie. Può sembrare perfino assurdo che uno si venda l’animo per così poco” [37]. 

Di fronte alle lusinghe e agli agi del potere, perfino in un modello sulla carta perfetto come la Olivetti, si celebra l’antico rito della trahison des clercs: un tradimento esercitato sia contro la libertà (che il nuovo principe vuole negare), sia a danno della verità (essere intellettuali di fabbrica, per Bigiaretti, equivale a “svolgere un’attività mistificatoria” [38]). Da luogo di delizie, la fabbrica si trasforma in termometro di malessere morale. È sintomatico che tocchi proprio a Ottieri intuire la più profonda incognita cui si lega il destino della cultura aziendale: non l’infelicità degli operai, ma il senso di solitudine e di esilio, che patiscono i chierici nella moderna cattedrale e a cui non esiste rimedio se non nel recupero della mai tramontata dimensione idillica dell’infanzia. “Non c’è industria, più di questa, aperta agli intellettuali – scrive nella Linea gotica. – Eppure essi vi si sentono molto inquieti. (...) Uno dei motivi della infelicità è lo sradicamento degli intellettuali. Nel migliore dei casi si imbevono professionalmente della fabbrica, ma la loro vita privata rimane da esuli. Vogliono ripartire, ritornare alle loro città e culle” [39].

 

Note

[1] I. CALVINO, “La “tematica industriale” in menabò 5, (1962), pp. 18-21: 18-19; ora in ID., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, I, Mondadori, Milano, 1995.

[2] I. CALVINO, “Memoriale” di Paolo Volponi” in L’Illustrazione Italiana, 89 (1962), 5, p. 80.

[3] Idem, p. 1274.

[4] OTTIERI, La linea gotica, p. 223.

[5] CALVINO, I libri degli altri, p. 431.

[6] L. BIGIARETTI, Il congresso, Bompiani, Milano 1963, p. 74.

[7] Per le citazioni di Calvino, cfr. I libri degli altri, pp. 243 e 431. Per il giudizio sulla Linea gotica, cfr. La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, II, p. 780. 

[8] Cfr. in CALVINO, Saggi 1945-1985, I, p. 1278.

[9] Cfr. in La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, II, pp. 821 e 807.

[10] O. OTTIERI, “Donnarumma, la censura mancata” in Corriere della Sera, 25 luglio 2008.

[11] In La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, II, p. 821.

[12] P. VOLPONI,Memoriale, Garzanti,Milano 1962, p. 25. Le due citazioni di Ottieri sono in Donnarumma all’assalto, Bompiani, Milano 1959, p. 66; e in La linea gotica, p. 197.

[13] OTTIERI, Donnarumma all’assalto, p. 124.

[14] L. SINISGALLI, Ritratti di macchine, Edizioni di Via Letizia,Milano 1937, [p. 16], poi in ID., Horror vacui [1945], a cura e con un saggio di R. Aymone, Avagliano, Cava dei Tirreni 1995, con il titolo di Queste stupide macchine, pp. 17-19: 19.

[15] VOLPONI, Memoriale, pp. 66-67.

[16] E. PERSICO, “La Fiat: operai”,Motor Italia, 1927, 12, poi in ID., Tutte le opere, a cura di G. Veronesi, II, Edizioni di Comunità, Milano 1964, p. 3.

[17] L. SINISGALLI, “L’operaio e la macchina” in Pirelli, gennaio 1949, pp. 11-13: 11; poi in ID., Pneumatica, a cura e con introduzione di F. Vitelli, Edizioni 10/17, Salerno 2003, p. 23.

[18] L. BIGIARETTI, “Roma”, in ID., Lungodora, De Luca, Roma 1955, p. 43.

[19] OTTIERI, La linea gotica, p. 168.

[20] A. OLIVETTI, Città dell’uomo, Introduzione di G. Berta, Prefazione di G. Pampaloni, Edizioni di Comunità, Torino 20012, p. 102.

[21] CALVINO, I libri degli altri, p. 431. La citazione di G. BUZZI è in L’amore mio italiano, Mondadori, Milano 1963, p. 171.

[22] Per questo aspetto cfr. il cap. di Franco Fortini “Le fabbriche” nel catalogo celebrativo Olivetti 1908-1958, a cura di R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi, Olivetti, Ivrea 1958, pp. 41-1000: 41-45. La citazione di Olivetti è tratta da “Il piano regionale della Valle d’Aosta”, Ottobre, 3 luglio 1935, p. 3; poi in A. OLIVETTI, Civitas hominum. Scritti di urbanistica e di industria 1933-1943, a cura di G. Lupo, Aragno, Torino 2008, p. 60.

[23] BIGIARETTI, “Fabbrica”, in Lungodora, p. 25. Le citazione di Buzzi è in Il senatore, p. 89.

[24] OTTIERI, Donnarumma all’assalto, pp. 88 e 40.

[25] Idem, pp. 20 e 135.

[26] Idem, p. 137.

[27] Idem, pp. 23 e 88.

[28] Idem, p. 24.

[29] OTTIERI, La linea gotica, p. 185.

[30] OTTIERI, Donnarumma all’assalto, pp. 82-83, 128 e 198.

[31] In La storia del «Gettoni» di Elio Vittorini, II, p. 780.

[32] OTTIERI, La linea gotica, p. 205.

[33] BUZZI, L’amore mia italiano, p. 47.

[34] Idem, p. 162.

[35] Idem, p. 139.

[36] L. BIGIARETTI, “Letteratura e industria” in Civiltà delle Macchine, novembre-dicembre 1963, pp. 37-39: 38.

[37] BIGIARETTI, Il congresso, p. 163.

[38] Idem, p. 172.

[39] OTTIERI, La linea gotica, p. 202.