Un nuovo ruolo per l'insegnamento scientifico
Siamo di fronte oggi a una grave crisi dell'insegnamento scientifico e, più in generale, di tutto il sistema educativo.
La sua struttura è profondamente messa in discussione e soffre, al giorno d'oggi, di gravi lacune che la rendono particolarmente inadatta all'insegnamento scientifico.
Nelle Scienze, ci sono degli imperativi che non si possono aggirare: padronanza delle basi del calcolo e degli ordini di grandezza; padronanza del senso dei concetti; poi, ad un livello più alto, padronanza di uno specifico linguaggio codificato; padronanza del ragionamento e del metodo deduttivo. I programmi attuali tendono a dimenticare questi saperi fondamentali e a privilegiare altri saperi più elaborati o più tecnici, quando le basi non sono sicure.
Sono convinto che una (n+1)-esima riforma dei programmi potrà soltanto aggiungere confusione alla confusione, se non viene accompagnata preliminarmente da riforme strutturali adatte o, addirittura, da una rifondazione delle strutture. Come metodo generale, le evoluzioni dovrebbero essere pensate prioritariamente in termini di contenuti e obiettivi di apprendimento e non in funzione di obiettivi di gestione amministrativa o di "politica politicante". Non voglio sostenere che esista una soluzione miracolosa, quanto piuttosto il contrario. La situazione attuale è il risultato dell'accumularsi di riforme più o meno fallite, di degradi successivi che sono arrivati a toccare tutti i livelli di studio. A mio avviso, solo a prezzo di uno sforzo consapevole, di lunga durata, si potrà ritornare sulla giusta rotta.
L'insegnamento (quello scientifico, in particolare) può essere visto come una piramide che si allunga su tutto il periodo di scolarizzazione. I saperi fondamentali, come il calcolo e la lettura, devono essere appresi in modo sufficientemente precoce e solido, per poter in seguito costruire i piani superiori in modo coerente. Numerose testimonianze di insegnanti di tutti i livelli - così come l'analisi dei manuali scolastici del passato - ci mostrano un indebolimento dell'insegnamento del calcolo e della lingua nella scuola primaria - progressivo e graduale lungo vari decenni - che corrisponde grosso modo ad uno slittamento dei contenuti di due o tre anni, rispetto alla situazione prevalente trenta o quarant'anni fa.
Ora, succede per il calcolo quello che succede nell'apprendimento della lingua materna o delle lingue straniere: una lingua appresa molto presto può essere parlata senza accento. Più avanti, imparare le stesse cose richiede uno sforzo molto maggiore. Allo stesso modo, apprendere il calcolo richiede l'acquisizione di meccanismi che devono divenire degli strumenti solidamente acquisiti già dalla giovane età. Come il linguaggio è un elemento costitutivo del pensiero naturale, così la padronanza del calcolo (aritmetico e algebrico) è un elemento costitutivo del pensiero matematico e, sicuramente, anche del pensiero scientifico nel suo insieme.
Il recentissimo progetto di riforma dell'insegnamento primario fa precedere la comprensione, il senso delle operazioni e la capacità degli allievi di risolvere piccoli problemi da molti riferimenti teorici - cosa evidentemente molto auspicabile di per sé - e dunque può apparire come un progresso rispetto alla situazione attuale. Il testo del progetto, ciononostante, sottovaluta gravemente l'importanza della padronanza delle operazioni e degli automatismi del calcolo, ritardandone l'insegnamento alla fine del ciclo primario (ad esempio, per la divisione), e cala la scure su alcuni argomenti un tempo insegnati nelle elementari e che costituiscono degli imperativi assoluti per la comprensione scientifico: operazioni sui numeri decimali, legami tra le unità di lunghezza, area e volume, ecc. Vorrei ricordare il fatto - ovvio - che non si impara la lingua materna teorizzando sul senso dei concetti ma ripetendo, in modo più o meno automatico, delle parole e degli spezzoni di frase. La capacità del discorso ragionato si elabora in seguito (o simultaneamente), mentre le parole preesistono come supporto del discorso.
Oggi non si imparano più i concetti fondamentali nell'età che sarebbe a priori più adatta. L'adolescente di 13 anni a cui viene richiesto (finalmente!) di praticare la riduzione delle frazioni allo stesso denominatore forse non è più molto motivato ad apprendere delle tecniche meccaniche che un tempo si facevano qualche anno anni prima. Non si tratta più nemmeno, alle medie, di ridurre "intelligentemente" le frazioni allo stesso denominatore, perché le nozioni di numero primo e di decomposizione in fattori primi saranno fatte più tardi (i miei compagni di scuola- andavamo in una scuola media di una zona rurale un po' depressa - hanno ricevuto questo insegnamento ben prima e io ricordo ancora in modo preciso la scoperta del crivello di Eratostene).
Si può ribattere che le performances della "vecchia" scuola primaria erano ottenute a prezzo di una percentuale di bocciature non trascurabile. Questo è senza dubbio vero, ma il sistema aveva per lo meno il merito di non lasciare senza risposte e senza stimoli una grande parte degli alunni. Oggi il ritmo di progressione dei programmi è ben lontano dall'ottimizzare le capacità di apprendimento dello scolaro medio e non è neppure particolarmente adatto agli studenti più lenti o in difficoltà. La scuola deve diventare molto più elastica e molto più adattabile per rispondere alle diverse esigenze di allievi differenti, preoccupandosi naturalmente di sostenere fortemente quelli che sono più in difficoltà. Per questo, deve cercare di orientare in modo adeguato e di adattare la progressione dei livelli successivi, in funzione del pubblico, proponendo indirizzi diversificati, coerenti, ricchi di contenuti, che siano professionalmente qualificanti o che preparino adeguatamente a studi più lunghi.
C'è quindi solo da preoccuparsi del progetto di riforma della scuola primaria così come sembra essere proposto dal Ministro. Il progetto non fa una analisi chiara e coerente della situazione attuale (confrontandola con la situazione prevalente nel passato) e prefigura piuttosto una stagnazione o delle nuove riduzioni di contenuto a livello dei saperi fondamentali, là dove una analisi obiettiva dei bisogni mostra che occorrerebbe piuttosto una forte rivalorizzazione. In un quadro generale di degrado in molti Paesi occidentali, uno studio recente dell'OCSE ha fatto vedere che la Francia si situa oggi in una posizione intermedia, relativamente mediocre, molto più indietro di un Paese come la Finlandia. Ogni nuova riforma che non prenda di mira i veri problemi è inutile e costituisce un grave disturbo che distoglie le energie da dove dovrebbero concentrarsi. Nel peggiore dei casi (che non mi auguro) e a seconda delle modalità concrete di applicazione, la riforma potrebbe essere l'inizio di un nuovo degrado dei contenuti dell'insegnamento a tutti i livelli. Di conseguenza, invito tutti ad unirsi alla petizione lanciata da Michel Delord "Ne plus apprendre à lire, écrire, compter et calculer". Bisogna richiedere un riesame approfondito del progetto di riforma e non lasciar passare una riforma mal concepita solo perché ci sono motivi di urgenza, più che altro dettati dalle scadenze elettorali. La petizione è stata già firmata da molti insegnanti, professori universitari e accademici ed è attivamente sostenuta anche da molti illustri professori universitari americani che hanno avuto la ventura, se così si può dire, di osservare gli effetti disastrosi ottenuti da riforme analoghe negli Stati Uniti.
Veniamo adesso, più specificatamente, all'insegnamento secondario e quello superiore. Una legge ben conosciuta della Biologia dice che l'uniformizzazione delle condizioni ecologiche porta con sé quasi automaticamente un impoverimento delle specie animali e vegetali, suscettibili di evoluzione. Nello stesso modo, nel sistema educativo, la media unica e le classi successive indifferenziate (fino all'indirizzo scientifico) hanno portato ad un grave indebolimento dell'adattabilità del sistema educativo. L'interpretazione che è stata fatta dello slogan politico: l'80% dei nati di una classe deve arrivare alla maturità è l'esempio tipico di un problema a cui è stata data una risposta irresponsabile: uniformare il livello verso il basso, senza prevedere le modulazioni necessarie. La domanda giusta da farsi avrebbe dovuto essere: "come aumentare il livello delle conoscenze generali della popolazione e quali nuovi indirizzi si possono creare, a fianco dei vecchi, per rispondere ai nuovi bisogni e alle diverse domande di formazione?"
Ancora non si trova traccia di una analisi affidabile e ufficialmente riconosciuta delle conseguenze che le riforme degli ultimi 15 anni a livello di scuola media e di Liceo hanno avuto, in particolare, sul reclutamento degli studenti delle Facoltà scientifiche. Mancano completamente delle agenzie di rilevamento affidabili, che siano autonome nei confronti dell'amministrazione e del potere politico. Anche qui, comunque, ci troviamo in una situazione molto degradata e questo degrado ha avuto delle conseguenze gravi sull'insegnamento superiore, in particolare sulla formazione degli insegnanti.
Il problema essenziale dell'Università è la mancanza di mezzi: chi ha fatto delle esercitazioni a piccoli gruppi di studenti sa come questa pratica didattica sia più efficace che le lezioni in Aula Magna, davanti a studenti smarriti. La qualità del lavoro svolto è gravemente inquinata da regole amministrative incoerenti o inadatte (frammentazione degli insegnamenti in piccoli moduli, riduzione della durata dell'anno accademico, tendenza alla riduzione degli orari annuali). Il tempo degli studi disponibile è oggi drammaticamente insufficiente per colmare le molteplici lacune degli studenti, così come escono dalla scuola secondaria.
Un esempio tipico in Matematica è l'insegnamento della Geometria attraverso l'Algebra lineare. Per essere compreso, ha bisogno di molte "mani di pittura" successive, da punti di vista diversi che concorrono ad arricchirsi a vicenda.
Un tempo, gli studenti delle medie e del Liceo ricevevano una solida formazione di Geometria euclidea tradizionale, che era loro molto utile in seguito per l'acquisizione dell'Algebra lineare all'Università.In un'epoca più recente (1972-1978, circa) l'insegnamento dell'Algebra lineare è stato anticipato al Liceo (con un certo numero di problemi dovuti ad un insegnamento talvolta un po' troppo formale e una perdita del senso geometrico a partire dal momento in cui la scuola media non dava più una preparazione sufficiente). La prima "mano" veniva comunque stesa già presto, con l'introduzione dei concetti essenziali di linearità, dipendenza lineare, spazio vettoriale, applicazione lineare, ecc. Mani successive venivano applicate fino al momento della laurea e la maggior parte degli studenti di allora - anche quelli mediocri - arrivavano in fin dei conti ad acquisire una buona comprensione dei concetti. Oggi, la prima mano viene sempre più rimandata e non c'è più il tempo necessario di maturazione.
L'esempio precedente non è l'unico. Si potrebbe dire lo stesso dei principali concetti dell'Algebra (la nozione di gruppo), dell'Analisi (la continuità, la convergenza, le questioni di uniformità). Al Liceo, le briciole di Matematica, che sono insegnate, il più delle volte vengono presentate senza filo conduttore, perché il linguaggio matematico di base è diventato estraneo ed è impossibile mettere in pratica il metodo deduttivo, visto che l'acquisizione dei saperi di base è stata continuamente indebolita e rimandata.
Negli IUFM (Istituti Universitari per la Formazione degli Insegnanti) la formazione degli insegnanti della scuola secondaria non è molto approfondita ed è troppo staccata dalle Università e dalle discipline fondamentali, come conseguenza anche del fatto che la durata della formazione è divenuta insufficiente. Ne risulta che gli studenti e i giovani insegnanti sono formati a un livello di competenze insufficienti per poter svolgere adeguatamente il loro mestiere.
Vorrei ritornare in dettaglio sulla questione della diversificazione degli indirizzi, che è un punto veramente cruciale. Nelle Scienze, e in particolare in Matematica, è possibile insegnare determinate conoscenze da punti di vista molto differenti. Così, possiamo insegnare la Statistica da un punto di vista che mette in evidenza solo le tecniche di calcolo e i metodi di trattamento dei dati oppure possiamo veder la Statistica come una applicazione del Calcolo delle probabilità, che a sua volta è un frutto dell'Analisi combinatorica, del linguaggio insiemistico (logica elementare, teoria elementare degli insiemi, eventi), dell'Analisi (integrali), ecc. Se il primo punto di vista può essere conveniente per allievi che hanno solo una finalità professionale a breve termine, o che pensano di fare delle scienze molto applicate senza bisogno di prerequisiti concettuali elevati, è naturalmente il secondo punto di vista che bisogna prendere in considerazione per i futuri scienziati, anche nel campo delle scienze "dure".
La struttura attuale, poco diversificata, degli indirizzi rende impossibile mettere in pratica i differenti punti di vista che sarebbe necessario adottare in funzione degli obiettivi degli studenti, che sono, in maniera legittima, molto diversi da una persona all'altra. Gli orari del Liceo, in particolare quelli di Scienze, sono troppo ridotti per permettere di raggiungere un solido livello di formazione e l'acquisizione degli strumenti concettuali pertinenti. Anche qui - se non vogliamo mettere in piedi orari troppo "carichi" - bisogna fare delle scelte e offrire degli indirizzi diversificati. Bisogna, dunque, con fermezza, rimettere in discussione il modello che prevale attualmente nell'indirizzo scientifico del Liceo, assieme ad un riesame (probabilmente) ineluttabile, del modello della media unificata.
Il sistema educativo deve ritrovare un alto livello. Non è certo attraverso l'(n+1)-esimo alleggerimento dei programmi di Matematica (o qualunque altra trovata) che si combatteranno i fallimenti scolastici o che si risolverà il problema delle macchine bruciate nelle periferie. Lo Stato deve assumersi le sue responsabilità e trattare il problema con lungimiranza, in un'epoca in cui i giovani hanno più che mai bisogno di punti di riferimento solidi. Voglio dire che bisogna assolutamente ritornare a una situazione in cui l'obiettivo non è il raggiungimento di diplomi di dubbio valore, ma l'acquisizione di conoscenze garantite e qualificanti di per sé. Questo suppone che i diplomi non misurino delle conoscenze fittizie, ma garantiscano realmente la buona padronanza e la buona comprensione degli insegnamenti seguiti.
Un ultimo aspetto - legato indirettamente a quello che ho detto in precedenza - mi sembra essenziale. La conoscenza scientifica e l'educazione sono oggi minacciate da una commercializzazione sfrenata (brevetti informatici, tentativi di controllo dell'editoria, Internet e la e - formazione in situazione di monopolio in mano a qualche grande società, ecc.). La comunità scientifica deve impegnarsi attivamente, per evitare queste derive che potrebbero rivelarsi molto gravi. Le nuove tecnologie fanno comparire nuovi bisogni collettivi come, ad esempio, le riviste elettroniche a libero accesso, i siti di documentazione pedagogica, i software scientifici ecc. È cruciale che la conoscenza fondamentale e le risorse corrispondenti, che sono beni comuni dell'umanità, siano liberamente accessibili a tutti. Soprattutto nella misura in cui la loro produzione è il risultato del lavoro della comunità accademica, pagata istituzionalmente per fare tale lavoro e nella misura in cui il costo attuale del supporto elettronico è quasi nullo. I diritti di diffusione devono permettere la riproduzione e lo sfruttamento ripetuto dei documenti senza limiti, preservando allo stesso tempo la legittima proprietà intellettuale degli autori.
La percorribilità di queste strade è ampiamente dimostrata dai notevoli risultati ottenuti dalla comunità dei software liberi, che è riuscita in qualche anno a realizzare numerosi progetti di grande risonanza internazionale e la cui tecnologia porta oggi benefici sia all'industria che ai privati o agli insegnanti. Altrimenti, c'è da temere che queste risorse siano sempre più accaparrate da interessi privati che non hanno necessariamente fini umanitari e che si pongono in contraddizione con lo sviluppo della scienza e dell'educazione.
In conclusione, vorrei invitare gli insegnanti, la comunità scientifica e le associazioni culturali a unire la loro azione per rivendicare, di fronte allo Stato, un ruolo reale per l'insegnamento scientifico, all'interno di un sistema educativo rinvigorito, diversificato, che abbia come priorità gli obiettivi di insegnamento e la cura della qualità. Saranno necessari molti mezzi. Lo Stato e i suoi rappresentanti devono essere informati delle gravi difficoltà che esistono e messi di fronte ai loro doveri e alle loro responsabilità.