UNA BOTTIGLIA SPECIALE
Parigi è una buona piazza per un matematico, le università situate in centro ed in periferia sono numerose e quasi tutte di ottimo livello, e ad esse si aggiungono alcuni istituti di ricerca, tipo l'IHES e l'Institut Henri Poincarè, che ospitano ogni anno visitatori di prim'ordine. Essere invitati a Parigi quindi è una bella soddisfazione e poi c'è la città, che, come si sa, val bene una messa.
Quella volta in particolare l'invito era, per l'appunto, dell'Institut Henri Poincarè e, come è d'uso, dopo la conferenza, il professore che invita offre una cena in onore dell'ospite. Nel mio caso l'organizzatrice della conferenza era Madame Labourdin, una sorta di “signora della Matematica” o forse una specie di impresario, essendo riuscita per molti anni a mettere in piedi seminari di prestigio.
Questo genere di invito nessuno è così incosciente da prenderlo sottogamba, la propria esibizione bisogna prepararsela bene, curando i minimi dettagli. All'epoca mio figlio Guglielmo era piccolo, aveva quattro anni, e dato che dovevo pur lavorare con tranquillità e non avevo nessuno a cui lasciarlo, me lo ero portato a Parigi assieme ad una governante ghanese di nome Maggie, che girava per casa con un suggestivo osso di seppia infilato tra i capelli e preparava eccellenti cous-cous.
Arrivò il giorno fatidico e mi organizzai per star fuori tutto il giorno, visto che abitavo in un cottage nel bosco a Bures-sur-Yvette ed erano necessari venti minuti di treno per arrivare al centro di Parigi, dove era l'Istituto.
Non ci furono problemi, la conferenza mi riuscì bene. L'aula era sontuosa, foderata da una boiserie magniloquente e seduti qua e là c'erano parecchi russi, tra cui il mio amico Aljiosha, che lavorava a Mosca: se aveva l'aria soddisfatta lui, voleva dire che tutto era andato bene. Quindi il suo volto è stato il primo che ho scrutato alla fine dell'ora.
Madame Labourdin, in un tailleur Chanel blu con scarpe décolleté in tinta, con eleganza, come da copione, mi invitò a cena e mi diede l'indirizzo: Rue St.Louis-en-L'Ile n. 10, alle otto.
La conferenza era finita verso le sei e così girovagai un po' per il centro e feci, tanto per festeggiare con me stessa, una delle mie cose preferite a Parigi, cioè salii all'ultimo piano del grande magazzino La Samaritaine e mi sedetti a guardare il panorama sui tetti bevendo una Perrier con la menta: dopo lo stress della conferenza, una sosta ci voleva. Quando mi fui ripresa, passeggiando di lì all'isola di St. Louis, mi concentrai sugli scorci di Notre Dame e riuscii anche a farmi confezionare un bel bouquet da una fiorista, da portare a Madame Labourdin.
L'Ile St. Louis
Quando faccio fantasticherie di alloggi a Parigi, sogno sempre di entrare miracolosamente in possesso di un attico affacciato sulla Senna, con libri ovunque ed i bateaux-mouches che navigano sotto le mie finestre. La casa di Madame Labourdin era appunto così, anzi, era più bella, perché aveva all'interno un incantevole cortile, da cui si prendeva un ascensore che dava una profonda soddisfazione estetica: in ferro battuto ed ottone, si apriva con grandi cigolii su dei pianerottoli in marmo bianco e nero e nulla rovinava la compostezza e l'eleganza delle porte di ingresso, neanche le cassette della posta, che Madame Labourdin, in un attacco di snobismo totale, aveva sostituito con una busta di plastica del book-shop del Louvre, raffigurante un cielo con nuvolette alla Rubens.
Quando entrai nel salone affacciato sul fiume, mi ci volle qualche minuto per riprendere fiato. Gli ospiti, sei in tutto, erano seduti su degli scranni medievali e un divano tappezzato di velluto verde. Pile di libri erano accatastate alla rinfusa ovunque, a volte fino al soffitto, intervallate da statue lignee di cavalieri in armi.
Il marito di Madame Labourdin, che aveva all'epoca una settantina d'anni, prese a riempire degli inquietanti calici di oro e cristallo con uno champagne di prim'ordine. Non c'erano tartine e quindi dopo qualche minuto, stanca com'ero, mi afflosciai in uno degli scranni e cercai disperatamente di concentrarmi sulla conversazione degli ospiti. Questi non erano da meno dell'arredo, eleganti e raffinati, non sembravano essere dei matematici, ma la cosa non mi dispiaceva, almeno non saremmo entrati in qualche stressante conversazione tecnica. Certo, ben altra tenuta dalla mia ci sarebbe voluta in un contesto del genere: predicare l' understatement è un vezzo tipico dei matematici, che riescono ad indossare con grande disinvoltura completi in principe di Galles a consegne di premi enormemente importanti, ma quella sera ci sarebbe voluta qualche “mise” etnica in seta di colore sgargiante o un bel vestito di velluto dal taglio perfetto. Ma una donna matematico mai indosserebbe qualcosa del genere per fare una conferenza. Io stessa avevo recentemente pensato il peggio di una giovane algebrista rampante che si era presentata al seminario di algebra del mio dipartimento indossando un top viola attillatissimo ed un paio di jeans. Non so bene quale sia la tenuta perfetta in queste occasioni, ma sicuramente è meglio essere sobri, scrivere uno strafalcione sulla lavagna vestite da educande è meglio che farlo con abiti dai colori chiassosi, è come se lo strafalcione diventasse più atroce e visibile.
Quando fu il momento di sedersi a tavola, ci spostammo in un angolo della sala, dove mi si parò davanti una apparecchiatura davvero speciale. Ogni sottopiatto era in argento, ogni stoviglia o contenitore sistemato sulla bella tovaglia era finemente cesellato. Il sale ad esempio era stato sistemato in una conchiglia sorretta da due putti alati, e non stonava affatto. Tuttavia questa meravigliosa argenteria sembrava non essere stata lucidata da decenni e la casa stessa, che un tempo doveva aver avuto le pareti bianche, non era mai stata ritinteggiata, era come se del fumo l'avesse lentamente scurita.
Comunque a quel punto avevo una gran fame e dato che ero anche un po' ebbra, guardavo senza ritegno in direzione della cucina. Con mio grande disappunto arrivò un roast-beef insipido ed un vassoio enorme anch'esso meravigliosamente cesellato in argento, pieno di asparagi sbiaditi e senza condimento, né si intravedeva un'oliera tra quei capolavori. A quel punto accadde qualcosa di straordinario: Monsieur Labourdin portò in tavola una bottiglia di vino rosso visibilmente d'annata e riempì a metà il mio bicchiere. Io cercai di mettere a fuoco l'etichetta e vidi distintamente che era uno Chateau Margaux. Monsieur Labourdin era nonchalante, versava calmo da bere agli ospiti, con l'eleganza di un sommelier provetto. Loro assaggiavano soddisfatti il vino, ma non credo che nessuno avesse visto bene l'etichetta, non era possible che reagissero così sorseggiando quell'ineguagliabile vino rosso, non mi era mai riuscito neanche di vederne una bottiglia in una enoteca, vini del genere li tengono nei caveaux. Per quanto mi sforzassi, proprio non riuscivo a restare indifferente, sicché mi feci coraggio e, guardando con gli occhi lucidi di commozione i coniugi Labourdin, esclamai: “Questo vino è meraviglioso!” Lei fece un sorriso di circostanza e lui rimase impassibile.
Va bene, mi ero prodigata molto durante la conferenza, ma addirittura una bottiglia di Chateau Margaux… Quando sarei tornata a casa lo avrei raccontato a destra e a manca, di come trattano bene i visitatori a Parigi, altro che le tavolate che organizzo in circostanze analoghe a Roma dal Matriciano a Via dei Gracchi, carbonara e vino dei castelli, c'era da sotterrarsi. Naturalmente a quel punto la stanchezza era un problema serio, non riuscivo neanche più ad apprezzare i battelli che navigavano imperterriti sotto le finestre e gli alberi del lungosenna che sembravano d'argento per i riflessi delle luci della città. |
Mancavano pochi giorni alla Pasqua e con la stessa eleganza e compostezza con cui aveva servito il vino, Monsieur Labourdin portò personalmente dalla cucina una torta semifredda di Bertillon, il miglior gelataio di Parigi. Questa consisteva di una meravigliosa composizione in giallo ed arancio di gusti di gelato alla frutta, decorata con dei piccoli pulcini di zucchero. Anche a quel punto non riuscii a trattenere la sorpresa, ma questa volta Monsieur Labourdin reagì e mi confessò che l'aveva ordinata personalmente a Bertillon, e che quest'ultimo era in procinto di partire per una vacanza nella quale si sarebbe dedicato a mettere a punto un nuovo gusto di gelato: il butterscotch. Ogni volta che ero andata in precedenza a Parigi, avevo sempre fatto dei pellegrinaggi alla mitica sorbetteria proprio sull'Ile St. Louis e mi sembrava che il sorbetto alla pera fosse proprio un miracolo a temperatura ridotta. Ma da lì alla torta semifredda pasquale con i pulcini ne correva.
Il benessere a quel punto era totale, sia il mio palato che la mia anima si beavano del dessert ed ero assolutamente consapevole che a colpire nel segno più che altro era stata Parigi stessa, con la sua suprema eleganza. Monsieur Labourdin doveva avere percepito questo mio stato di beatitudine, perché all'improvviso abbandonò il suo a-plomb e mi disse: “Ma perché non ti comperi una casa a Parigi?”
Ed io gli risposi prontamente: “Non mi pare che sia una cosa elementare, intanto il budget necessario…”
Ma lui mi guardò incoraggiante e si alzò, sparì in un corridoio e dopo qualche secondo tornò con una rivista in mano. Cosa poteva essere? “House and Garden”? No, era la rivista dell'Ordine dei Notai di Parigi ed era piena di fotografie di abitazioni che sarebbero state messe all'asta il mese successivo. Prese a sfogliarla con un sorriso sornione e mi sottopose un quartierino a Rue de Seine composto da saloncino con caminetto, due stanze da letto, sistemato all'ultimo piano di un delizioso caseggiato.
“Perfetto!” dissi io, tanto per stare al gioco, ma anche perché era vero che era perfetto.
Eppure lo avevo sottovalutato, perché mi disse con un tono da imbonitore che se versavo alla Cassa dell'Ordine dei Notai di Parigi un congruo deposito pari alla metà della base d'asta, che comunque non era alta, quella poteva rivelarsi la mia grande occasione immobiliare. Come dicevo, ero brilla. Feci un po' di conti e probabilmente sommando ogni genere di risparmio da me posseduto all'epoca, se l'asta non avesse fatto lievitare troppo il prezzo di partenza, ce l'avrei fatta. O perlomeno così mi sembrava per colpa dello Chateau Margaux.
Per fortuna era quasi mezzanotte e riuscii ad impedirgli di telefonare alla Cassa dell'Ordine dei Notai per dare il mio nome ed iniziare le pratiche per partecipare all'asta. Mezz'ora più tardi, in salvo da devastanti operazioni finanziarie, ero sul treno per Bures-sur-Yvette. Il sonno mi annebbiava la mente e per poco non mi addormentai, ma, nonostante l'ora tarda, un violinista salì a bordo e prese a suonare, tenendomi sveglia. E così mi trovai a riflettere che certamente è una professione singolare quella del matematico, sempre in giro per il mondo a “vendere” i nostri prodotti, come piazzisti di lusso, ma la varietà di situazioni in cui per forza di cose ci troviamo nell'arco di una vita è formidabile, infinite sorprese in cambio di assortimenti di formule.