La bomba che parla italiano

80 anni fa, la mattina del 6 agosto 1945 il bombardiere Enola Gay dell’aeronautica militare statunitense sganciava sulla città giapponese di Hiroshima la bomba atomica Little Boy, a cui faceva seguito tre giorni dopo, lo sgancio della bomba atomica Fat Man su Nagasaki. Le due missioni causavano un numero di vittime dirette stimato fra le 150.000 e le 220.000 persone, quasi esclusivamente civili.
Ma come si è arrivati all’ordigno nucleare che ha sconvolto il mondo e che ancora oggi è lo spauracchio in ogni conflitto militare? Bisogna fare un salto nel 1934, a Roma, presso il Regio Istituto di Fisica dove Enrico Fermi e gli altri giovani fisici del gruppo – detti “i ragazzi di via Panisperna” dal nome della via dove aveva sede l’Istituto – coordinato da Orso Maria Corbino, proseguivano gli esperimenti sulla radioattività indotta di Frédéric e Irène Joliot-Curie. Ma, a differenza di quanto fatto dai Curie, il gruppo di fisici italiani aveva deciso di bombardare i nuclei con neutroni e non con particelle alpha.
(da sinistra) Oscar D'Agostino, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti ed Enrico Fermi. Foto scattata da Bruno Pontecorvo
La “pistola” a neutroni non era altro che un piccolo tubo di vetro che conteneva una polvere di berillio mescolata a radon; il berillio emetteva i neutroni a seguito dell’assorbimento di particelle alpha emesse dal radon. Gli elementi venivano colpiti con questi neutroni e dopo il bombardamento, misurando la radioattività degli elementi con un contatore Geiger, scoprivano che gli elementi diventavano radioattivi, cioè si creavano degli isotopi (delle varianti dello stesso elemento con stesso numero di protoni nel nucleo ma diverso di neutroni) che emettevano radiazioni che prima non emettevano.
Nel ripetere il procedimento con l’uranio accaddeva qualcosa di diverso. Il gruppo di fisici si aspettava che, come per altri elementi, l’uranio assorbisse i neutroni e diventasse un nuovo isotopo radioattivo. Ma osservarono che dopo il bombardamento si formavano sostanze radioattive nuove che non corrispondevano agli isotopi dell’uranio conosciuti. Fermi ipotizzava che si erano formati artificialmente nuovi elementi più pesanti dell’uranio, chiamati transuranici, che battezza Ausonio ed Esperio (antichi nomi dell’Italia, secondo le consuetudini della propaganda fascista).
Si tratta però di un errore. Già nel settembre del ‘34 la chimica tedesca Ida Noddack smentisce Fermi, ma nessuno le presta ascolto. Bisogna aspettare il 1938, quando gli scienziati Otto Hahn e Lise Meitner capiscono cosa era davvero successo: l’uranio colpito dai neutroni non generava nuovi elementi, ma si scindeva in due elementi leggeri liberando altra energia e altri neutroni che spaccavano altri nuclei, dando vita alla reazione a catena di fissione nucleare che si interrompe solo quando non ci sono più nuclei da spezzare.
Nel 1938 Fermi riceve il Premio Nobel per la Fisica per questa scoperta e dopo la cerimonia fugge da Stoccolma agli Stati Uniti a causa delle leggi razziali che avrebbero colpito sua moglie Laura.
La scoperta della fissione nucleare è una svolta: da un piccolo sasso di uranio si può liberare una quantità di energia sufficiente a demolire una città. Nasce così il Progetto Manhattan, che porta alla costruzione della bomba atomica e, il 2 maggio 1945, il presidente Truman approva la formazione di un comitato ad interim per riferire sull’uso della bomba atomica. Il comitato è composto da otto persone, consigliate da un gruppo scientifico composto da Robert Oppenheimer, Ernest Lawrence, Arthur Compton ed Enrico Fermi. In un rapporto del 1 giugno, il comitato conclude che la bomba debba essere utilizzata il prima possibile. Così il 6 e 9 agosto 1945 vengono sganciate le due bombe. La seconda guerra mondiale finisce con gli Stati Uniti vincitori ma da lì sarebbe partita una gara all’arma nucleare che ancora oggi coinvolge il mondo intero.