2.1 Realismo metafisico
Anche se educato nella tradizione del positivismo logico, specialmente da Rudolph Carnap, successivamente Putnam cadde sotto l’influenza di filosofi del calibro di W.V.O. Quine, Ludwig Wittgenstein, Nelson Goodman, divenendo poi un severo critico degli elementi di base del positivismo logico, quali il convenzionalismo, la teoria verificazionista del significato, il riduzionismo, propendendo invece per un approccio realista alle teorie scientifiche, e sostenendo che non esiste alcun principio di verificabilità, né una fondazione privilegiata (per esempio, basata sui dati sensoriali) alla nostra conoscenza, nessuna distinzione fatto/valore (ci torneremo nell’ultimo paragrafo), né che le nostre asserzioni e credenze possano essere valutate vere o false individualmente (è l’olismo, e non l’atomismo, a essere corretto).
Nei confronti del convenzionalismo, in particolare della concezione di Reichenbach e Grünbaum riguardo alla transizione dalla Meccanica newtoniana a quella relativistica – secondo la quale il cuore di tale transizione è in fondo solo una nuova definizione della metrica spaziotemporale, definizione scelta per una questione di convenienza e non di verità –, Putnam replica (si veda Putnam 1963a e 1975c) che il cambiamento del significato è solo parte della questione; i concetti teorici, infatti, hanno rilevanza esplicativa, e devono essere ancorati a una teoria che comunque deve soddisfare certi vincoli, empirici e non. Insomma, si ha molta meno “libertà d’azione” nella definizione di tali concetti di quella che i convenzionalisti vorrebbero.
Putnam è stato, almeno fino a metà degli anni Settanta, un difensore di una forma di realismo scientifico – che in seguito lui stesso chiamò, criticandolo, realismo metafisico – dato dalla combinazione di queste tre istanze:
1) “il mondo consiste di una certa totalità fissa di oggetti indipendenti dalla nostra mente”;
2) “esiste esattamente una sola descrizione vera e completa di come è il mondo”;
3) “la verità comporta una relazione di corrispondenza di qualche genere tra le parole, o i segni del pensiero, e le cose esterne, o insieme di cose” (1981a, p. 57).
In breve, quindi, c’è un mondo unico e ben determinato, che consiste di una totalità di oggetti esistenti indipendentemente dalla mente e dal linguaggio; in linea di principio c’è una e una sola rappresentazione completa (presumibilmente un’ideale teoria scientifica) di questo mondo, e quindi in definitiva c’è una sola teoria “vera” del mondo, trovare la quale è lo scopo dell’indagine scientifica; e infine, in questa teoria, la verità risiede in una qualche corrispondenza fra le descrizioni della teoria e il mondo, ossia la verità è una nozione non-epistemica di corrispondenza fra elementi linguistici (come teorie, enunciati) e gli oggetti, gli stati di cose, che esistono nel mondo. La teoria della verità che ne consegue è quindi “corrispondentistica”: la nostra descrizione del mondo, se vuol essere vera, deve ricalcare quella configurazione unica del mondo. È questo, complessivamente, un approccio che Putnam definisce non-epistemico – in quanto, sia, appunto, la nozione di verità, sia quella di mondo, prescindono dal soggetto conoscente e dalle categorie da lui impiegate –, ed esterno – poiché la realtà non è considerata dal punto di vista soggettivo umano ma da un punto di vista neutrale, oggettivo, esterno all’uomo, quale potrebbe essere l’“occhio di Dio”.
Risulta così che le nostre teorie scientifiche meglio sviluppate, e i loro termini teorici (ad esempio, gli elettroni), si riferiscono a caratteristiche reali del mondo; se così non fosse, infatti, il successo della scienza non sarebbe altro che una sorta di “miracolo”. E questo lo si può evitare perché il riferimento dei termini teorici delle teorie non dipende, per il realismo metafisico, dalle teorie nei quali essi compaiono, cosicché la scienza avanza nella sua conoscenza perché le sue teorie spiegano, via via in modo migliore, le stesse cose del mondo. Ne consegue, inoltre, che le asserzioni della scienza sono vere o false del tutto indipendentemente dalla mente umana.
Il punto di partenza della difesa del realismo metafisico di Putnam è una difesa del realismo empirico, la tesi cioè secondo la quale l’esistenza del mondo esterno è sostenuta dall’esperienza in gran parte nello stesso modo in cui qualsiasi teoria scientifica è sostenuta dai dati osservativi (Putnam 1975d, p. 342). Sono gli innumerevoli esperimenti di laboratorio, egli sostiene, sono le varie esperienze quotidiane che in qualche modo ci dicono che la realtà là fuori, indipendentemente da noi, esiste, in tal modo “incaricandosi” di rendere veri o falsi i nostri enunciati. Quindi, meglio di altri approcci, quali il verificazionismo positivistico, è l’assunzione realistica a indirizzarci verso la miglior spiegazione del perché la scienza “funziona” (un po’ come i geni e gli atomi forniscono la miglior spiegazione di certi fenomeni osservabili). Con questo ragionamento, appunto con un’inferenza alla miglior spiegazione di secondo grado, Putnam presenta il suo credo – in polemica, lo ripetiamo, con il positivismo logico – che solo un realismo metafisico può evitare al successo della scienza “derive miracolistiche”.