3. Filosofia del linguaggio
A differenza di quanto visto per il realismo, nell’ambito che ora andiamo ad analizzare il contributo di Putnam non verrà da lui stesso rivisto, negli anni, così fortemente.
A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, Putnam divenne noto per aver proposto il cosiddetto esternalismo semantico, più precisamente la teoria causale del riferimento, detta anche nuova teoria del riferimento, o teoria del riferimento diretto, teoria che oggi è abbracciata da molti filosofi e scienziati. Questa teoria (sviluppata indipendentemente anche da Saul Kripke) si opponeva alla concezione tradizionale del significato. Secondo quest’ultima possiamo distinguere fra significato come estensione (o riferimento) – l’estensione di un termine è l’insieme delle cose di cui quel termine è vero – e significato come intensione, dove l’intensione di un termine è il concetto a questo associato. Tradizionalmente, essendo i concetti qualcosa di mentale, anche il significato, come intensione, lo è. Allora, secondo la concezione tradizionale, conoscere il significato, come intensione, di un termine equivale a trovarsi in un certo stato psicologico (o interiore, o mentale); inoltre, è l’intensione a determinare l’estensione di un termine, ossia sono gli stati mentali individuali dei parlanti a determinare il riferimento di un termine. L’idea base di questo approccio è che il significato di termini di generi naturali (come “limone”, “oro”, “tigre”, ecc.) può essere specificato per mezzo di una congiunzione di proprietà (per il limone, ad esempio: gusto aspro, colore giallo, una certa dimensione, ecc.), quindi mediante descrizioni. In altre parole, conoscere il significato di un termine equivale a denotare le proprietà dell’oggetto in questione, e il nome datogli viene così a “sintetizzare” la “somma” di tali proprietà.
Senza entrare nello specifico delle critiche che Putnam solleva a questa posizione, egli costruisce la sua su un caposaldo ben diverso: l’estensione dei nostri termini dipende dalla realtà circostante – intesa sia come realtà naturale che come realtà sociale – e quindi, acquisire un certo termine non necessariamente equivale ad acquisire (nel proprio stato mentale) una qualche proprietà che ne fissi l’estensione. Il nocciolo dell’approccio di Putnam sta nella critica che egli porta a una conseguenza della concezione tradizionale del significato, cioè il fatto che se due termini hanno lo stesso significato, nel senso di intensione, allora hanno necessariamente lo stesso riferimento. Ebbene, scopo di Putnam è di mostrare proprio una risultanza opposta, ossia che due parlanti con gli stessi stati psicologico-mentali riguardo all’intensione di un certo termine, possano poi non avere lo stesso riferimento.
A tal fine elabora il famoso esperimento mentale della “Terra gemella” (Putnam 1973b; 1975a). In questo pianeta, tutto è identico alla Terra (espressioni linguistiche incluse), tranne il fatto che la formula chimica di ciò che è chiamato “acqua” non è H2O ma XYZ, anche se i due liquidi sono del tutto indistinguibili sia per aspetto che per qualità. Ora, un moderno astronauta che visitasse quel pianeta si renderebbe conto che l’“acqua” ivi trovata non è uguale a quella terrestre solo dopo un’analisi chimica, concludendo così che il termine “acqua”, sulla Terra gemella, ha un significato diverso, cioè si riferisce a (ha come estensione) XYZ. Immaginiamo, invece, un visitatore terrestre privo di nozioni di chimica: egli non si accorgerebbe che l’“acqua” della Terra gemella è diversa dall’acqua terrestre, quindi sia lui che gli abitanti della Terra gemella userebbero la stessa parola “acqua” (avendo anche gli stessi stati mentali, visto che tutto è identico sui due pianeti) ma riferendosi, inconsapevolmente, a due sostanze diverse. Insomma, entrambi, pur partendo dallo stesso stato psicologico-cognitivo (stesse credenze sull’“acqua”: liquido inodore, dissetante, incolore, che riempie gli oceani, ecc.) avrebbero finito in realtà per riferirsi non alla stessa sostanza. La morale è racchiusa nella famosissima frase di Putnam: “I ‘significati’ semplicemente non sono nella testa!” (1975a, p. 227), ossia non sono le conoscenze dei parlanti, i loro stati mentali, a determinare le estensioni dei loro termini; in altre parole, i riferimenti non sono funzione esclusiva degli aspetti cognitivi.
Che cosa è, allora, che determina il riferimento del termine “acqua”, o di termini dello stesso genere? Inizialmente, sostiene Putnam, a fissare il riferimento di un termine è l’“evento introduttivo”, vale a dire: per una qualche ragione, una certa sostanza – o meglio: un suo campione paradigmatico – viene chiamata, nel nostro caso, “acqua”. In pratica c’è un “battesimo iniziale” (è l’idea anche di Kripke) nel quale viene dato un nome a un oggetto. A partire da quell’evento, quel termine continuerà a riferirsi a ogni sostanza avente la stessa natura chimica di quel campione paradigmatico (a prescindere dalla effettiva conoscenza dei parlanti di tale composizione). Grazie poi a quella che Putnam (e anche Kripke) chiama catena causale, tutti gli usi successivi di quello stesso termine restano “collegati”, ossia continuano a riferirsi alla stessa estensione, quindi la catena causale è composta dalla successione delle intenzioni dei parlanti di continuare a indicare la stessa estensione dei loro “progenitori”. Si comprende, ora, perché l’estensione chiamata “acqua” sul pianeta gemello non corrisponde a quella della Terra: in breve, sui due pianeti il battesimo iniziale ha fissato due estensioni differenti, entrambe tramandate poi, nel termine “acqua”, dai rispettivi parlanti. È quindi, almeno in parte, la realtà stessa a fissare il riferimento di termini “naturali” come appunto “acqua”, “gatto”, “oro”, ossia l’estensione è determinata dalla natura stessi degli “oggetti” a cui quei termini si riferiscono, indipendentemente da ciò che conoscono i parlanti. Sulla Terra, così, “acqua” si riferirà all’estensione H2O, sulla Terra gemella a XYZ.
Ma approfondiamo meglio la questione prendendo stavolta “oro” come esempio: imparare a usare questo termine non significa necessariamente acquisire il metodo scientifico per stabilire in ultima analisi se di fatto un oggetto è oro (e infatti, per stabilirlo, andiamo da un orefice), ma significa acquisire quelle caratteristiche che i membri appartenenti all’estensione del termine “oro” normalmente possiedono (colore giallo, durezza, ecc) e per mezzo delle quali vengono normalmente identificati dai parlanti. Insomma, significa acquisire lo stereotipo – appunto la descrizione dell’“oro” nei termini delle sue presunte caratteristiche identificanti – che la nostra comunità linguistica di appartenenza associa a quel termine, stereotipo che solitamente è meno ricco, preciso ed esaustivo dell’insieme di conoscenze desumibili scientificamente, e addirittura può essere anche in parte sbagliato (l’oro chimicamente puro, infatti, è quasi bianco) senza per questo intaccare la comunicazione sociale. L’estensione del termine “oro”, allora, non è fissata individualmente, cioè dallo stato psicologico dell’individuo che acquisisce quel termine, ma socialmente, dal corpo linguistico collettivo. Si realizza, in tal modo, quella che Putnam chiama divisione del lavoro linguistico e che contribuisce alla determinazione del riferimento: all’interno di una comunità vi sono persone dalle competenze superiori riguardo a un certo campo, risulta così naturale che siano loro a fissare, nel “battesimo iniziale” a cui prima si accennava, i riferimenti per certi termini (Sacchetto 2002, p. 1303), riferimenti che verranno poi “passati”, come operazione sociale, a tutti i parlanti nelle forme “più leggere” degli stereotipi, i quali comunque consentiranno la corretta identificazione dei rispettivi oggetti. Accade, in realtà, che tale battesimo non è necessariamente fatto da esperti: nel caso dell’oro, per esempio, è stato fatto da gente priva delle nostre conoscenze chimiche (Mario Alai, comunicazione personale). L’identificazione del riferimento è, comunque, un’impresa sociale piuttosto che individuale.
Si pensi ancora agli “elettroni”: ben pochi esperti conoscono le loro proprietà fisiche, eppure è un termine usato anche nel linguaggio ordinario. Il punto è che il significato è comunque indipendente dalle credenze, ossia dagli stereotipi, e quindi, anche se un giorno scoprissimo che i gatti sono robot telecomandati dai marziani dovremmo, afferma Putnam, continuare a chiamarli gatti. Ciò che conta è che il riferimento venga mantenuto costante, a prescindere dalle credenze. È questo il fondamentale concetto dell’identità del riferimento che Putnam sottolinea a partire dal saggio del 1975 The Meaning of ‘Meaning’, vera pietra miliare del suo lavoro sulla filosofia del linguaggio: l’identità del riferimento è l’elemento costante del significato, vale a dire tale elemento si mantiene anche se un termine specifico viene usato in teorie diverse. Questo permette alle parole di conservare in ogni caso lo stesso significato. Putnam qui usa il concetto di designatore rigido di Saul Kripke, un’espressione, cioè, che conserva lo stesso riferimento in tutti i mondi possibili (per esempio: il nome proprio “Kripke” lo è, in quanto indica proprio quell’individuo, mentre l’espressione “l’autore di Naming and Necessity” non lo è). Così il termine naturale “oro” designa rigidamente un particolare metallo, con una certa struttura molecolare, in tutti i mondi possibili, anche se poi vari stereotipi possono portare a travisamenti del suo riferimento, o diverse teorie possono offrirne descrizioni più o meno giuste o sbagliate. Stessa situazione per l’acqua.
Quindi, in questa posizione esternalista sulla semantica a cui Putnam giunge, il mondo esterno gioca un ruolo cruciale nel fissare i riferimenti delle nostre espressioni linguistiche. In tal modo, Putnam non solo supera quelle posizioni che cercano di ridurre il significato agli stati mentali o ai processi interiori, ma risponde anche a quella sfida del relativismo che vede, nell’incommensurabilità di teorie differenti, l’impossibilità di un dialogo inter-teoretico. Infatti, nella sua teoria causale del riferimento, questo risulta relativamente “insensibile” alle variazioni teoriche, appunto perché il mondo esterno gli “fa da sponda”, cosicché la continuità e la razionalità della scienza e della comunicazione sono sorrette.