4. Filosofia della mente
In una serie di articoli, a partir dagli inizi degli anni Sessanta, Putnam diede un contributo notevole alla Filosofia della mente sviluppando un nuovo approccio detto funzionalismo. Scopo dell’analisi di Putnam era quello di ottenere l’autonomia della mente ma senza presupporre una sostanza-mente non-fisica: “La questione dell’autonomia della nostra vita mentale non dipende da, e non ha niente a che fare con, tutta quella questione, troppo popolare e vecchia, sulla materia o sulla sostanza-anima. Potremmo anche essere fatti di formaggio svizzero senza che ciò avrebbe alcuna importanza” (Putnam 1973a, p. 291). Ciò che importa, infatti, è l’organizzazione funzionale.
Secondo il funzionalismo gli stati mentali (o psicologici) non sarebbero qualificati da specifiche costituzioni materiali ma da funzioni, cioè da ruoli operazionali o causali. Tali ruoli causali che definiscono un certo stato mentale sono relativi ad altri stati mentali e fisici e a determinati comportamenti. Per esempio: il dolore potrebbe essere definito come quel particolare genere di stato mentale che è causato da eventi come urti, tagli, pugni, i quali sfociano sia in stati mentali quali paura e preoccupazione, sia in stati fisici quali contrazioni di muscoli e aumento della pressione sanguigna, sia in comportamenti quali l’urlare “ahi!”. Tali stati funzionali sono posseduti da organismi biologici, come noi essere umani, ma non c’è ragione che non possano essere posseduti anche da altri enti, per esempio da sistemi intelligenti artificialmente creati.
Assume in tal modo un ruolo centrale, nel funzionalismo, l’analogia mente-computer, vale a dire: gli stati mentali sono visti come stati computazionali, nel senso che la mente, in quanto strumento di manipolazione formale di simboli, sta al cervello come il software di un computer sta all’hardware. La psicologia umana, così, e i suoi stati (per esempio: “credere che il cielo è blu”, “sperare che questo scritto dia una rappresentazione fedele della filosofia di Putnam”, ecc.) compongono “semplicemente” il software del cervello-computer. Le funzioni intelligenti, quindi, non sono intrinsecamente legate a un preciso supporto materiale (come appunto il cervello umano), ma ne sono indipendenti come il software di un computer è indipendente dall’hardware: come diversi hardware possono far funzionare lo stesso software, così la mente, una sorta appunto di programma, è in grado di “girare” su supporti fisico-biologici diversi. Ne consegue che, anche se certe funzioni sono di fatto poste in essere solo da un determinato apparato, ciò non comporta che esse debbano essere identificate, concettualmente, con il modo di funzionare proprio di quell’apparato. L’identità della mente, insomma, va posta a un livello di astrazione superiore a quello neurofisiologico. Risulta così che, per esempio, stati di dolore, o stati di gelosia, sebbene fisicamente differenti in soggetti o specie differenti (esempio: dolore negli umani e dolore nei marziani) possano essere funzionalmente simili, nel senso che ogni stato di dolore, o di gelosia, ha la sua propria realizzazione fisico-chimica, ma non si assume nessuna riduzione del dolore, o della gelosia, a un dato stato fisico-chimico.
È chiaro che il bersaglio principale della teoria di Putnam è la cosiddetta teoria dell’identità dei tipi. Secondo questa teoria l’unica realtà sostanziale è quella fisica, e quindi la mente non può che essere qualcosa di materiale (il cervello), e i suoi stati si identificano con particolari stati o processi neurali: un determinato stato cerebrale è un determinato stato mentale. Per esempio: il dolore è equivalente alla stimolazione delle fibre C. Se questa conclusione fosse vera, critica Putnam in Psychological Predicates (1967), allora lo stato cerebrale del dolore dovrebbe essere identico per tutte le specie animali, ma così non è: i polipi, per esempio, avvertono dolore ma hanno una diversa configurazione neurale rispetto alla specie umana. Lo stesso stato mentale del dolore corrisponde così a stati fisici differenti del sistema nervoso di certi organismi. Il dolore, quindi, non può essere identificato con uno specifico stato cerebrale come vuole la teoria dell’identità, ma corrisponde a un processo funzionale, e, in quanto processo, è formalizzabile ed eseguibile, almeno teoricamente, da altre macchine, a prescindere dal materiale di cui sono costituite. Non è negato, dai funzionalisti, che uno stato mentale di fatto coincida con uno stato fisiologico, ma è negato che esso sia un’identità di principio. Ciò significa che un processo cognitivo non è un tutt’uno col processo fisiologico che lo istanzia nel cervello, ma, a un altro livello di astrazione, è identificato dal tipo di dati elaborati, dalla successione dei passi di elaborazione, ecc., per questo, in linea di principio, esso è eseguibile anche da “macchine”. È l’identità delle occorrenze e non dei tipi.
Da qui nasce il concetto putnamiano della realizzabilità multipla, ossia la tesi che un dato stato mentale umano (come il dolore) può essere realizzato non solo da stati cerebrali diversi ma anche da specie fisiche diverse, con modalità e tecniche diverse: sistemi nervosi centrali nel caso dei mammiferi, stati elettronici (programmi) nel caso di computer digitali propriamente programmati, o, ancora, reti neurali, hardware elettronici riconfigurabili, sistemi di melma verde nel caso di extraterrestri!, ecc. Insomma, un certo stato psicologico può stare in relazione con molti generi fisici distinti.
Ma la critica di Putnam è rivolta anche al comportamentismo. A suo parere, infatti, il dolore non è nemmeno l’insieme delle sue manifestazioni comportamentali, e, più in genere, non è necessariamente vero che gli stati mentali si manifestino nelle forme di comportamenti verificabili intersoggettivamente, e che quindi essi siano “esterni”, come vuole il comportamentismo (che egli critica a partire dal saggio Brains and Behavior, del 1963). Il legame tra stato mentale e comportamento non è così stretto: la manifestazione di un dolore non necessariamente ricalca lo stesso standard di comportamento (gemiti, urla), e quindi la stimolazione delle fibre C, per una certa persona per esempio allevata in una cultura che porta a reprimere qualsiasi manifestazione esterna legata al dolore, non può essere identificata con il dolore, nel senso che l’output di quella stimolazione non è riconducibile alla categoria che il comportamentista valuta come “dolore”.
Putnam ha difeso il funzionalismo fino agli inizi degli anni Settanta, cambiando poi drasticamente al punto da considerarlo come un progetto scientista e utopico. A partire da Representation and Reality (1988), egli sostiene che una tale caratterizzazione, “interna” agli individui, degli stati mentali, non consente di tener conto di quegli stati mentali che implicano essenzialmente riferimenti a cose nel mondo esterno (si veda il suo esternalismo semantico del par. 3). In altre parole, una conseguenza del fatto che il “significato non è nella testa” è che non è possibile individuare concetti o credenze, e altri atteggiamenti proposizionali, senza riferimento all’ambiente (includendo quello sociale) dell’agente cognitivo. Non potendo quindi essere identificati con stati individuali di un soggetto, appunto perché il loro contenuto è determinato dall’ambiente fisico e sociale, non possono essere neanche stati funzionali. Anche un semplice concetto quale quello di “vacanza” – a cui corrisponderebbe un certo stato mentale – se considerato alla luce di determinanti esterni del suo significato, assume un significato che non può essere identificato con stati computazionali interni. Putnam considera allora mal concepita l’intera strategia di cercare qualche caratterizzazione non-intenzionale del mentale, e ingenuo il tentativo di assegnare un tipo di stato computazionale a ogni tipo di “attitudine proposizionale”.
Nonostante il rifiuto di Putnam, il funzionalismo è presupposto da molta della ricerca contemporanea in scienza cognitiva, anzi, esso ha avuto un ruolo determinante nella nascita di questa scienza, e ha continuato a prosperare in altre versioni, elaborate e discusse da personalità del calibro di Jerry Fodor, Daniel Dennett, David Marr, David Lewis, Zenon Pylyshyn, e altri. Il funzionalismo è insomma la teoria dominante nella Filosofia della mente odierna.