Dalle equazioni a Cardano, da Cardano all'Algebra. La lunga storia delle equazioni algebriche
Poco prima della fine del ’500, nella sua Summa de Arithmetica, che a dispetto del titolo si può senz’altro considerare come un testo di Algebra, Luca Pacioli afferma che il problema di trovare una formula algebrica per risolvere le equazioni di terzo grado è altrettanto difficile che la quadratura del cerchio. Mai una profezia scientifica fu disattesa tanto presto. In effetti ormai i tempi erano maturi e, come spesso accade in questi casi, la formula "sbuca" naturalmente: dapprima, all’interno della scuola matematica bolognese, con Scipione dal Ferro, che forse non ne riconosce l’importanza, e comunque decide di non rendere pubblica la scoperta, poi col Tartaglia (Niccolò Fontana) che ne fa uso interno per le disfide pubbliche. Spetterà a Gerolamo Cardano l’onore della pubblicazione, nella Artis Magnae, sive de regulis algebricacis liber unus (1545), con tutto il prestigio che il risultato fornisce nel mondo colto dell’epoca. Quest’opera segna il superamento dell’algebra e il nome di Cardano rimarrà per sempre associato alla scoperta.
La ricerca delle soluzioni delle equazioni algebriche in una incognita, vale a dire di quelle equazioni che si ottengono uguagliando a zero un polinomio in una sola indeterminata, ha una lunga storia che, per molto tempo, si identifica e si intreccia con la storia stessa dell’algebra. Il problema generale è quello di trovare un’espressione, per ogni grado dell’equazione, che a partire dai coefficienti e con l’applicazione di un numero finito di quelle operazioni che saranno dette "algebriche" (le razionali: somma e sottrazione, prodotto e divisione con divisore non nullo, oltre all’estrazione di radici di indice qualsiasi) fornisca per ogni caso dei coefficienti le soluzioni dell’equazione. Il termine "formula risolutiva per radicali" chiarisce l’ambito del problema.
Forse l’algebra ha origine come espressione naturale dell’interesse umano per le quantità. Certamente, è noto che già presso i babilonesi si rintracciano problemi di computo che conducono ad equazioni di primo e di secondo grado, risolte in modo da prefigurare, seppure in termini non simbolici, la formula risolutiva che conosciamo.
Si tratta di problemi numerici, la cui soluzione, descritta anch’essa a parole, consiste in una successione di regole che usano un linguaggio di tipo geometrico e sono peraltro prive di qualunque giustificazione.
In seguito tutta la matematica è geometria o aritmetica e la risoluzione delle equazioni proviene da problemi che sorgono da questi campi. Anche i matematici del periodo classico risolvevano le equazioni di secondo grado (e altre particolari di grado superiore) con metodi geometrici che imponevano limitazioni innaturali dal punto di vista dell’algebra. È il campo che sarà chiamato "algebra geometrica" per significare come il calcolo algebrico fosse comunque subordinato a quello geometrico relativo ad aree e volumi delle forme nel piano e nello spazio. Ma l’algebra stessa è assente come materia in sé. Nei primi secoli della nostra era, il lavoro di Erone di Alessandria segna l’inizio di un periodo in cui i problemi cominciano a trasformarsi dalla forma geometrica a quella analitica e che raggiunge il suo apice con Diofanto nel III secolo. Sono questi i precursori di concezioni propriamente algebriche, grazie all’introduzione di notazioni e simboli utili a denotare unità, costanti, potenze: nei libri della Arithmetica di Diofanto forse per la prima volta non sono presenti riferimenti espliciti alle costruzioni geometriche e, soprattutto, compare in maniera centrale l’idea di "algoritmo", cioè di metodo formale svincolato da ogni interpretazione. La "analisi indeterminata" di Diofanto è la materia che studia i problemi di risolubilità delle equazioni algebriche mediante numeri interi o razionali e, in questo studio, si rivolge a equazioni e sistemi di equazioni con numerose incognite, dipendenti da coefficienti simbolici.
L’affermazione dell’algebra come materia autonoma, comincerà a farsi luce nel mondo arabo, in Persia, nel grande fervore della scuola che si sviluppò a Baghdad a partire dalla seconda metà del IX secolo. È il primo riconoscimento della materia "per sé", dotata di problemi e metodi autonomi. Il termine "Algebra" viene preso da un testo di al-Khuwarizmi al cui nome si fa risalire anche la parola "algoritmo". "Al-jabr" aveva il significato di "completamento" ed era uno dei metodi risolutivi (insieme allo scomparso "al-mukabala", "bilanciamento" col significato che noi oggi diamo di "semplificazione"). Nel suo lavoro vengono studiate sistematicamente le equazioni di secondo grado, classificate nei vari tipi che occorrono a seconda, come diciamo oggi, del membro in cui compaiono i termini (si tenga conto che all’epoca non esistevano numeri negativi e anche lo zero aveva uno statuto, per così dire, incerto), rappresentate graficamente e, quando possibile risolte. Certamente, in al-Khuwarizmi persiste la necessità di presentare in termini geometrici le operazioni algebriche, ma è scomparso l’assillo di doverne giustificare sia l’esistenza che lo studio, il quale viene liberato da qualunque applicazione immediata. Il calcolo delle soluzioni si trasforma progressivamente nel problema generale relativo al metodo risolutivo.
La scoperta di situazioni che si traducono con equazioni di terzo grado e il successo con quelle di secondo, portano alla necessità di una teoria sistematica, al desiderio di trasporre simbolicamente e poi affrontare le equazioni di terzo grado. Sempre alla scuola di Baghdad fra X e XI secolo, al-Karaji (secondo altri autori al-Kharhki) viene a conoscenza dei libri della Arithmetica di Diofanto e ne cerca un adattamento alla matematica araba fino ad allora sviluppata, sulla scorta del lavoro di al-Khuwarizmi. Nel suo trattato di algebra, al-Fakhri, la materia appare esplicitamente come "aritmetica dell’incognita", compaiono accenni a un calcolo formale sui polinomi e forse per la prima volta si fa strada il tentativo di unire aspetti di algebra geometrica con considerazioni di analisi indeterminata. In maniera sempre più esplicita, il lavoro di al-Karaji persegue il tentativo di liberare le operazioni dalle interpretazioni geometriche e quindi di fatto affermare l’autonomia e la specificità dell’algebra.
Con questa accresciuta coscienza, poco più tardi, Omar Khayyam, astronomo e matematico più famoso forse come poeta e filosofo, nella sua opera sull’Algebra ("Trattato sulle dimostrazioni dei problemi di algebra e di almukabala"), affronta la classificazione e lo studio delle equazioni di terzo grado, oltre a presentare la soluzione geometrica di alcune di queste equazioni. Siamo arrivati al XII secolo.
Com’è noto, dopo questo periodo si assiste al risorgere della cultura e della matematica occidentale, in particolare, in questo settore, grazie a numerosi problemi di aritmetica pratica, calcoli commerciali ed altri aspetti, come l’interesse suscitato dal sistema numerico posizionale e dalle cifre arabe, e anche in virtù della traduzione dell’opera di al-Khuwarizmi, avvenuta ben presto. Questo è il contesto in cui si formò Leonardo Fibonacci: nel suo Liber Abbaci (1202), i problemi pratici di calcolo, che facevano soprattutto parte della sfera delle attività commerciali, compaiono fianco a fianco con la classificazione algebrica della scuola araba e non disgiunti dall’intento di esaurire in maniera sistematica tutti i possibili casi. I secoli successivi rimangono sotto l’influsso delle tecniche pratiche di calcolo, ma anche delle considerazioni generali date da Fibonacci. Come espressione della nuova classe di mercanti e con la richiesta precisa di fornire metodi efficienti di calcolo, in Italia nascono le famose "scuole d’abaco", alle cui esigenze continua a rispondere in qualche modo il lavoro di Fibonacci, che pure non era scritto in volgare.
Così, si viene progressivamente affermando una tendenza, di origine pratica, verso le ricerche algebriche che, in qualche modo, anticipa nei fatti le grandi scoperte del ’500.
Ma la problematica generale non si fa sommergere dalle necessità pratiche del calcolo. Nei primi testi matematici in volgare compaiono varie "formule risolutive" delle equazioni di grado superiore al secondo, anche se naturalmente non corrette, a dimostrazione tuttavia del fatto che la loro esigenza non è mai totalmente scomparsa. Progressivamente, in un alternarsi tipico di certe forme dello sviluppo scientifico, diminuisce l’importanza di calcoli di uso pratico e immediato, e riaffiora la necessità di testi più legati alla visione generale del problema.
Si è così tornati al Rinascimento ed a Cardano, che riassume nella sua opera il fervore ideale del tempo. C’è una lunga e nota polemica sulla divulgazione della formula risolutiva delle equazioni di terzo grado, ritrovata in maniera indipendente dal Tartaglia, dopo dal Ferro, e comunicata sotto il vincolo del segreto a Gerolamo Cardano, che tuttavia la pubblicò. Anche la formula delle equazioni di quarto grado, dovuta essenzialmente a Ludovico Ferrari, un allievo di Cardano, venne inserita nella Ars Magna, seppure con un rilievo ben diverso: solo poche righe le vengono dedicate, al confronto dello spazio occupato dai vari casi di equazione cubica ed a riprova del fatto che ancora nel ’500 lo statuto dell’algebra risentiva delle esigenze di carattere geometrico, come nel periodo greco. Cardano era ben cosciente di tutto ciò quando, nell’introduzione alla Ars Magna, ammonisce che sarebbe insensato proseguire oltre la terza dimensione. Com’è noto, tutta la materia venne poi completata e sistemata da un altro matematico bolognese, Rafael Bombelli, nella sua opera su Algebra (1572), e così verso la fine del ’500 i matematici si concentrarono fiduciosi sulle equazioni di grado superiore al quarto.
Qui la storia cambia e si arricchisce ancora. Da una parte, compaiono equazioni di terzo grado che hanno una evidente radice razionale ma che, tuttavia, nell’applicazione della formula, richiedono la radice quadrata di quantità negative (il cosiddetto "caso irriducibile": ad esempio l’equazione x3 - 15 x - 4 = 0, che ammette la x = 4, ma si provi ad applicare la formula...). Se, forse, un tempo si poteva dire che le equazioni di secondo grado a discriminante negativo "non hanno soluzioni", ora questo atteggiamento non è possibile: una soluzione è sotto gli occhi di tutti, ma non è calcolabile mediante quella formula che in altri casi funziona egregiamente. Da qui, in particolare, una potente motivazione per l’introduzione dei numeri immaginari.
Dall’altra parte, i continui insuccessi nella ricerca di una formula risolutiva dell’equazione generale di quinto grado fanno cambiare la natura del problema e permettono di sviluppare relazioni di carattere strutturale che fanno di questo il problema centrale fino a tutto il ’700, quando risulterà chiaro che, per le equazioni di quinto grado, e a maggior ragione per quelle di grado superiore, non esiste una formula risolutiva per radicali.
In questo lungo periodo, gli sviluppi tecnici si accompagnano a quelli concettuali e l’algebra viene precisandosi ulteriormente verso il suo "status" moderno. La tradizionale concezione dell’algebra come scienza delle equazioni e del calcolo delle soluzioni, in seguito all’affermarsi del calcolo simbolico diventa, dapprima in maniera incerta e problematica, la scienza relativa alle quantità generali. Poi, in maniera più sicura, lo studio delle strutture: le radici si collegano ai coefficienti attraverso le funzioni simmetriche, si permutano fra di loro e si distinguono l’una dall’altra grazie a opportune trasformazioni. Le formule risolutive finora note si unificano e mostrano che non sono tanto importanti i valori numerici delle soluzioni quanto il loro comportamento e le loro proprietà.
Nel 1770-71, Joseph-Louis Lagrange collega esplicitamente le soluzioni con quelli che saranno i gruppi di trasformazioni. Nel 1799, Paolo Ruffini per primo annuncia la non esistenza di una formula risolutiva per radicali dell’equazione generale di quinto grado. Se questo è vero per l’equazione generale, che ne è delle equazioni particolari? Il problema rimane per i casi particolari, anzi si precisa: è possibile determinare un criterio di risolubilità per radicali che si possa applicare ad ogni equazione? Nei primi anni dell’800, Gauss e Abel affrontano con successo alcune classi di equazioni particolari (le equazioni binomie e poi, più in generale, quelle che saranno dette "abeliane"), ma saranno le idee di Galois a fornire una teoria che permette di decidere la risolubilità sia delle equazioni particolari che dell’equazione generale, confermando la non risolubilità per radicali quando il grado supera il quarto.
Così, nella prima metà dell’800, la teoria di Galois determina l’ulteriore punto di svolta, il punto nel quale gli aspetti strutturali diventano maturi e predominanti. Come sarà riconosciuto molto dopo la scomparsa del suo autore, la teoria fornisce "anche" un criterio di risolubilità per radicali di tutte le equazioni algebriche ma, osserva lo stesso Galois, il suo intento aveva un carattere generale, non concentrato su una ricetta pratica per la soluzione. Più che la non risolubilità delle equazioni di grado superiore al quarto, dal suo studio emerge la centralità della nozione di "gruppo di sostituzioni", che presto si estenderà a numerosi contesti. La prospettiva teorica muta radicalmente un’altra volta. Il problema della ricerca di una formula risolutiva si trasforma nello studio delle proprietà di un gruppo associato all’equazione, il "gruppo di Galois". La "teoria di Galois" diviene la teoria delle estensioni dei campi numerici e della relazione che lega queste estensioni ai gruppi di automorfismi: quella che per l’appunto oggi si chiama "corrispondenza di Galois". Il problema originario di risolvere per radicali le equazioni algebriche è scomparso oppure rimane ormai a titolo di esempio. Ma nel frattempo sono cambiate le prospettive dell'algebra.