I Montagnana, storia di una famiglia

 

 

Il libro I MONTAGNANA: Una famiglia ebraica piemontese e il movimento operaio (1914-1948)
edito dalla casa editrice fiorentina Giuntina e presentato al pubblico negli ultimi mesi dello scorso anno, ripercorre trent’anni di storia dell’antifascismo e del movimento operaio torinese, attraverso la ricostruzione storica delle vicende di una delle famiglie politicamente più attive nel capoluogo sabaudo: la famiglia Montagnana appunto.
Gli autori Giorgina Arian Levi e Manfredo Montagnana appartengono alla seconda generazione dei
Montagnana, che ha avuto in Mario e in Rita (una delle figure di spicco dell’antifascismo italiano e moglie di Palmiro Togliatti) gli esponenti più noti.
Giorgina Arian Levi, dopo essere stata a lungo docente nei licei torinesi, si è dedicata ad una nota e apprezzata attività di ricerca storiografica, con particolare attenzione per la riscoperta delle vicende degli ebrei in terra piemontese. Nella primavera del 2000 la città, alla presenza di alte cariche dello Stato (tra le quali il Presidente della Camera Luciano Violante) ha festeggiato i 90 anni di questa indomita e vivacissima Signora.
Manfredo Monagnana è invece noto come matematico e docente di Analisi, prima presso le Università di Torino e di Genova e poi, per lunghi anni presso il Politecnico di Torino.
Curiosi di sapere per quale ragione un matematico abbia deciso, ad un certo punto della propria vita, di porre mano alle carte di famiglia e di scriverne addirittura la storia, siamo andati a trovarlo per porgli direttamente la domanda.La conversazione, avvenuta negli storici locali di Palazzo Carignano ove ha sede l’Unione Culturale "Antonicelli" di cui Manfredo è Presidente, si è trasformata in una intervista che riportiamo nel seguito.

Caro Manfredo, innanzitutto, una domanda scontata, ma che non posso non farti: perché?  Perché hai deciso di porre mano alla storia della tua famiglia e di lasciarne memoria in un libro scritto a quattro mani ?

 
Devo dire che l’idea di raccontare le vite di membri della mia famiglia risale a molto tempo fa. Mi è capitato spesso di rammaricarmi per la mancanza di diari o biografie di personaggi famosi (come mia zia Rita) o di uomini che avevano vissuto esperienze drammatiche ma significative (come i miei cugini partigiani Franco e Ugo). Il fatto che Giorgina avesse già pubblicato vent’anni addietro un saggio sulla famiglia Montagnana e la sua disponibilità a riprenderlo in mano insieme a me hanno creato le condizioni per realizzare il mio progetto.

L’uscita del libro è quasi contestuale alla tua decisone di lasciare l’incarico accademico dopo molti anni. Si tratta di una coincidenza ?

 

 

Non proprio. In realtà, questo lavoro era una delle attività che avevo dovuto sempre limitare o rinviare per l’impegno svolto nel Politecnico (altre, non meno importanti per me, erano quella sindacale nella CGIL e quella nell’Unione culturale "Franco Antonicelli"). Come la maggior parte dei docenti del Politecnico lavoravo - come si dice - "a tempo pieno" non solo nel senso previsto dalla legge ma perché dedicavo tutte le mie energie alla didattica, alla ricerca, alla gestione delle strutture, alle attività relative a contratti e convenzioni. E, quando dico a tempo pieno, voglio dire dal mattino alla sera (e talvolta anche dopo cena) per sette giorni alla settimana con poche interruzioni. Capirai che questo libro, pur essendoci già pronto il testo di Giorgina, non sarebbe mai potuto rientrare nel mio programma di attività fino a che continuavo a lavorare al "Poli".

 

Tuo padre aveva conseguito la laurea in Matematica e in Fisica, tu sei un matematico professionista, tutte le tue zie erano in possesso di un diploma di scuola superiore (cosa non comune per l’epoca e per la condizione femminile). Queste riflessioni mi portano a due domande: quali erano i rapporti della tua famiglia con la cultura e quanto il retroterra culturale ha influito sul vostro essere matematici e uomini di scienza ?


Aggiungo che anche mia madre era laureata (in lettere) e possedeva una notevole cultura nel campo dei classici greci e latini. Ma, come viene ben raccontato nel libro, la più colta in realtà era "nona cita", che sapeva a memoria molte opere letterarie tra cui la Divina Commedia. Certo, anche se non vorrei fare il marxista a tutti i costi, sono convinto che le condizioni materiali e ideali in cui sono cresciuto abbiano influenzato in modo decisivo le mie scelte di vita.
In particolare, le idee comuniste dei miei genitori hanno creato in me la certezza che non solo la mia militanza politica, ma anche i miei studi e la mia stessa crescita culturale facessero parte di un più generale movimento per l’emancipazione delle classi più deboli, degli operai e dei contadini, in cui erano coinvolti milioni di donne e di uomini di tutto il mondo.
Naturalmente, ha giocato anche il fatto che mia madre e mio padre avessero uno spiccato interesse per ogni tipo di avvenimento culturale: la lirica, la musica classica, i musei e le mostre d’arte, il cinema impegnato, le opere letterarie di valore, il confronto fra "le due culture"; e ne parlavano spessissimo con noi trasmettendoci il loro amore per la cultura. Mi ricordo con affetto delle serate trascorse in famiglia fin oltre i 25 anni: terminata la cena verso le sette e mezza (abitudine contratta in Australia, ma adottata allora da molti torinesi), stavamo tutti e quattro insieme a leggere libri ed ascoltare musica classica o opere teatrali alla radio per un paio d’ore.
Di tanto in tanto qualcuno interrompeva la lettura o l’ascolto con un commento che apriva una discussione più o meno animata.
Per quanto riguarda "l’essere matematico" di mio padre, va detto che si laureò prima in Fisica e solo dopo in Matematica; è probabile che la scelta di laurearsi in una materia scientifica derivasse, oltre che dalla generale atmosfera culturale che regnava in casa Montagnana, soprattutto dalla formazione ricevuta nell’Istituto Tecnico, unica scuola allora per chi non intendeva entrare nel Ginnasio. Si interessò attivamente alle mie ricerche dopo la laurea, ma restò sempre un fisico con una forte curiosità per i fenomeni reali e per la loro rappresentazione mediante modelli matematici. La decisione di iscrivermi al corso di laurea in Matematica non è stata tutta merito mio: dopo la maturità, ero in dubbio fra Matematica e Fisica e fu mio padre a consigliarmi, soprattutto in base alle ampie possibilità di inserimento nel mondo universitario per un laureato in Matematica.

 

Tutti i membri della tua famiglia hanno pagato con l’esilio la loro militanza politica. I tuoi genitori, seguiti da te e da tuo fratello bambini, hanno raggiunto l’Australia alla fine degli anni trenta per rimanervi alcuni anni. In un colloquio a quattr’occhi mi hai fatto capire quanto quest’esperienza ti abbia formato e influenzato. Puoi parlarcene brevemente ?

 

Stavo per accennarne in risposta alla domanda precedente. E’ vero, gli otto anni della mia infanzia trascorsi in Australia hanno segnato pesantemente la mia vita. Si capisce che, vista dalla parte di chi era rimasto in Italia durante la guerra e le persecuzioni razziali, la nostra vita appare idilliaca: niente bombe, niente soldati che combattono, niente passo pesante delle SS che cercano antifascisti ed ebrei, niente guerra partigiana. E soprattutto, forse, niente fame: in Australia il cibo non è mai mancato. Però . . . quanta sofferenza per i miei genitori! Per molti mesi privi di notizie dai loro cari, costretti a fare i lavori più diversi per sopravvivere, obbligati a vendere le poche cose preziose portate da Torino, considerati come nemici dagli australiani. Ma a segnarmi non è stata tanto la nostra condizione di rifugiati politici e razziali, con tutte le sue conseguenza sulla vita quotidiana, quanto una caratteristica peculiare della mentalità australiana: il rapporto che storicamente si era creato in quel paese fra esseri umani sempre soli a combattere contro le difficoltà naturali. E’ un sentimento che essi chiamano "mateship", qualcosa di più dell’amicizia: la certezza di reciproca stima, correttezza e solidarietà.Forse è proprio questo sentimento che trasforma il "fair play" australiano in qualcosa di meno formale di quello originale. Credo di avere acquisito in Australia la consapevolezza che per me conta andare fino in fondo alla realizzazione di un mio progetto, al di là di chi si appropria poi dei meriti; non mi interessa apparire come protagonista, ma fare ciò che credo utile (in senso lato) per raggiungere una maggiore giustizia sociale.

Tuo padre si è formato ed ha iniziato ad insegnare in anni bui per la nostra storia, dai quali la Matematica e la scienza italiana sono uscite tragicamente ridimensionate. Che cosa ti ha raccontato della sua esperienza di uomo di scienza, antifascista e ebreo, nell’Italia delle leggi razziali?


Mio padre amava molto sia l’insegnamento che la ricerca scientifica. L’essere stato tagliato fuori da entrambe le attività, per motivi prima politici e poi razziali, lo aveva molto addolorato; forse per questa ragione, non ne parlava volentieri. Oltre tutto, la persecuzione politica gli rendeva difficile contribuire al mantenimento della famiglia, anche prima che le leggi razziali escludessero gli ebrei dal pubblico impiego. Un fatto ci raccontava spesso con orgoglio: l’estrema esiguità numerica dei docenti italiani che non presero la tessera del Partito Fascista. Fra questi pochi citava un suo buon amico, che avrei poi incontrato durante i miei studi universitari: Ludovico Geymonat.
Mio padre si sentiva soprattutto un perseguitato politico, per lui l’antisemitismo si aggiungeva ad un quadro già fortemente segnato dall’ingiustizia. L’unico effetto rilevante delle leggi razziali fu la decisione di espatriare il più rapidamente possibile, poiché si rendeva conto che la sua condizione di ebreo comunista avrebbe posto tutta la famiglia in gravissimo pericolo. Comunque, non perse mai il grande amore per lo studio e per la ricerca, che coltivò fino agli ultimi giorni: insieme abbiamo scritto un articolo di storia della matematica mentre si trovava in ospedale, pochi mesi prima della sua scomparsa.

Come ben sai ero presente la sera in cui tu e Giorgina avete presentato il libro nei locali della Sinagoga di Torino. Sono stato molto colpito dalle tue parole volte a ricordare lo spirito di sacrificio, la militanza politica vissuta come servizio, la passione civile intesa come un dovere verso la nazione, che ha contraddistinto un’intera generazione di intellettuali, operai, attivisti e antifascisti torinesi. Possono esistere oggi una Matematica e una scienza militanti e civilmente impegnate ?  In quali ambiti e in quali termini?

Se guardo al mondo dei giovani scienziati che ho conosciuto in Italia ed all’estero (escluso te, ovviamente! e pochi altri), mi sembra che ci sia poco da stare allegri. Se penso alle diverse realtà in cui mi sono trovato ad operare (organi di gestione universitari, strutture sindacali e di partito), mi accorgo che la maggior parte delle persone impegnate avevano più di quarant’anni e solo pochissime erano sotto i trent’anni. La maggior parte di coloro che lavorano oggi nelle Università e negli enti di ricerca ha come obiettivo principale la "carriera" ed eventualmente la partecipazione a contratti o prove conto terzi.
Non vorrei che questo sembrasse un giudizio morale: non lo è. È piuttosto una constatazione che colloca anche il mondo della ricerca all’interno di un processo di "privatizzazione" presente in tutti i paesi industrializzati: porre come obiettivi principali della società moderna la produttività e la competitività dell’impresa, senza preoccuparsi della limitatezza delle risorse e dell’esistenza di una priorità nei bisogni degli uomini, significa assumere il massimo consumo e quindi il massimo guadagno come criteri di comportamento dei singoli individui. E questo esclude, ovviamente qualsiasi interesse alla solidarietà con chi sta peggio.
Parlare oggi di solidarietà è, nella migliore delle ipotesi, una stranezza e, nella peggiore, un modo per nascondere interessi singoli o nazionali. Chi può dimenticare i richiami alla solidarietà internazionale con cui i paesi occidentali hanno cercato di giustificare i loro interventi militari di questi ultimi decenni, cause di infinite sofferenze soprattutto per le popolazioni civili? Come non stupirsi quando l’uomo più ricco del nostro paese pubblicizza la propria solidarietà con i lavoratori presentandosi come uno di loro, un "operaio"?
La comunità scientifica potrebbe, forse, incidere in modo positivo sulla evoluzione della società moderna se si mettesse al servizio di una grande operazione di innalzamento culturale di tutte le donne e di tutti gli uomini. Lo propongo in contrapposizione con la strategia dell’impoverimento culturale delle grandi masse: ad esse si offrono solo slogan telegrafici, urlati sui giornali ed alla televisione, insieme ad una formazione professionale spendibile sul mercato del lavoro, strumenti assolutamente inadeguati ad affrontare una realtà sempre più complessa. Gli scienziati dovrebbero impegnarsi a difendere il diritto/dovere di tutti i cittadini ad accedere ai massimi livelli della conoscenza consentiti dalle capacità di ciascuno: non quanto basta delle materie scientifiche per inserirsi sul mercato del lavoro, ma tutto quanto vi è di insegnamento critico nelle scienze naturali e ancor più nelle arti e nelle discipline umanistiche.
Non voglio dimenticare le grandi organizzazioni di volontariato: mi vengono subito in mente "Medici senza frontiere" e "Scienziati per la pace", ma ve ne sono altre ugualmente meritevoli e spesso vi si incontrano molti giovani. L’impegno di questi colleghi ha un inestimabile valore di testimonianza e di solidarietà umana che non può essere dimenticata, soprattutto in tempi di crescenti egoismi. Sarò influenzato dalla mia formazione marxista, ma temo che i loro sforzi non riescano ad incidere davvero sull’avvenire dell’umanità fino a quando non coinvolgeranno settori significativi delle società industrializzate in un progetto che dovrà inevitabilmente possedere non solo risposte ai bisogni contingenti dei cittadini ma anche una forte carica ideale.