Il ’68 italiano e la scienza: premesse e contesti
Indice
Alcune immagini di una stagione precedente
Per avvicinarci agli atteggiamenti tenuti dal ’68 italiano nei confronti della scienza e dei suoi molteplici aspetti, prendiamo le mosse da quel paio di decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale che vedono in Italia la ricostruzione e la diffusione poi di un relativo benessere economico.
Nel dopoguerra la scienza italiana può contare su una discreta tradizione e arriva poi a vivere negli anni ’60 una delle stagioni più promettenti in diversi ambiti disciplinari1. Certo, siamo una nazione giovane che non ha alle spalle neppure un secolo di vita e paga inevitabilmente sul fronte scientifico questa relativa maturità con forti discontinuità nel tempo e uno sviluppo a macchia di leopardo, con alcuni settori particolarmente luminosi e molte altre zone invece opache e poco vitali. Ci sono poi le ferite morali e materiali lasciate dalla guerra: non occorrono molte parole per poter immaginare l’improba fatica necessaria per restituire alla ricerca una sua dignità dopo gli errori e gli orrori del fascismo2. Siamo comunque anche il Paese che, in un breve lasso di tempo, ha raggiunto una posizione di rilievo e una diffusa considerazione internazionale in discipline come la Matematica e la Fisica. Siamo il Paese di Volterra, di Marconi, di Fermi. Le vicende dei ragazzi di via Panisperna avevano portato alcuni di loro a svolgere un ruolo di primo piano nel progetto Manhattan e nell’avvio delle istituzioni scientifiche europee. Il premio Nobel attribuito a Emilio Segrè nel 1959 completa, per così dire, quello di Fermi di vent’anni prima. Il riferimento ad un laureato di inizio secolo dell’Accademia svedese, Camillo Golgi, permette di accennare alla qualità dei nostri studi medico-biologici. Dalla scuola torinese di Giuseppe Levi usciranno altri tre premi Nobel come Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini. Non è questa la sede per affrontare il tema dell’influenza del fascismo sulle direzioni intraprese3 dai vari ambiti disciplinari ma è in quegli anni che si avviano alcune pratiche scientifiche e organizzative particolarmente interessanti senza le quali non potremmo comprendere lo sviluppo nel dopoguerra dell’Istituto Superiore di Sanità, del calcolo automatico e della stessa esperienza dell’Olivetti o il successo di Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica4 nel 1963.
Giulio Natta all'assegnazione del Nobel
Da questi ultimi riferimenti capiamo che il buon livello della ricerca italiana coinvolge anche esperienze in cui prevalgono gli aspetti più propriamente applicativi. Sin dall’inizio, nell’Italia della ricostruzione, ci sono personalità e gruppi sociali che comprendono benissimo il valore economico della scienza e inseriscono la diffusione delle sue conoscenze nel novero delle variabili più significative per favorire il progresso del Paese.
Sono personalità e ambienti che si impegnano per sensibilizzare su questo tema il potere politico e un’opinione pubblica che deve ora convincersi dell’importanza di una cultura che non si ispiri alla sola radicata tradizione umanistica.
La guerra è appena finita che Il Corriere d’Informazione5 si sente in dovere di ricordare il discorso del 6 settembre ’45 del presidente americano Truman e la sua constatazione che nessuna nazione può oggi rimanere in una posizione di primo piano se non sviluppa al massimo proprio le risorse scientifiche e tecniche. Ma c’è un altro motivo per seguire l’esempio americano: “le ricerche scientifiche si stanno sviluppando ora negli Stati Uniti come una nuova grande industria a sé stante, un’industria che conta un giro d’affari di miliardi di dollari all’anno e nella quale si prevede un continuo incremento”6. La situazione del nostro Paese è invece preoccupante. Il titolo “La scienza per la rinascita delle industrie” de Il Corriere d’Informazione dell’8 marzo ’46 lascia il posto su Il Nuovo Corriere della Sera del 19 dicembre dello stesso anno al successivo “Abbandonata a se stessa. Deve morire da noi la scienza?”. Le nazioni più evolute “hanno capito che la ricerca scientifica non è un ornamento dello spirito, non è una tradizione onorevole di un Paese, non è un problema di cultura e un dignitoso articolo di esportazione, ma è invece elemento insostituibile per la vita economica di una Nazione”7. Da noi – si comincia a notare sempre sul quotidiano milanese – il governo destina ogni anno alla ricerca quanto viene scommesso in una settimana al totocalcio. Si aprono nuovi cinematografi, ma si chiudono i laboratori scientifici. L’atteggiamento dei parlamentari nei confronti della scienza fa rimpiangere i politici che “operavano al tempo di Quintino Sella o di Giovanni Giolitti”8. Gli articoli di preoccupata denuncia della mancanza di una politica scientifica all’altezza dei tempi sono accompagnati da analoghe riflessioni sulla situazione universitaria. Interviene, tra gli altri, Adolfo Omodeo che richiama l’attenzione dell’opinione pubblica sull’esistenza di troppi Atenei francamente inutili mentre alcuni risultano congestionati. Le lamentele per le insufficienti risorse economiche sono costanti e raggiungono un loro apice nel marzo ’47 quando il ministro Gonella arriva a lanciare un ultimatum e a chiedere 10 miliardi da spendere subito, se si vuole almeno evitare la chiusura delle Università.
Su quello che è il maggiore quotidiano italiano9, gli articoli più politici sul tema dei rapporti tra scienza e società si alternano con altri di carattere divulgativo, ispirati dall’attualità. Si parla di “una nuova cena: gli aminoacidi invece delle bistecche”, di penicillina, di Astronomia e di energia solare, di musei scientifici, di una nuova scienza chiamata Cibernetica ma anche delle prove scientifiche che documentano che la iettatura esiste! Particolare attenzione viene dedicata alla realtà statunitense a partire da un articolo in prima pagina di Guido de Ruggiero sui santuari della scienza moderna e sull’Institute for Advanced Studies descritto come “una specie di pensionato scientifico (…) è là che da anni vive Einstein, il quale, invecchiando, diviene una figura sempre più bizzarra e scontrosa, che sembra uscita fuori dalle illustrazioni di antichi libri scientifici”. Ma degli USA si scrive anche a proposito di Fermi (nominato nella commissione che controllerà gli impianti di fabbricazione della bomba atomica), della realizzazione del sincrotrone, dei nuovi calcolatori elettronici, dei primi robot e degli studi che dovrebbero portare a costruire i primi esemplari di satelliti artificiali. Si intervistano a questo proposito personaggi come Edoardo Amaldi o Emilio Segrè.
Emilio Segrè
L’attenzione nei confronti della scienza e delle sue ricadute sociali non è fenomeno che si riscontri solo nell’immediato dopoguerra ma prosegue nel secondo di quei due decenni che stiamo considerando. Si sviluppa e trova nuovi addentellati nell’Italia che si avvia al boom economico. È indicativo dell’atteggiamento che un certo ceto imprenditoriale vuole diffondere nei confronti del mondo scientifico il fatto che Il Corriere della Sera nel luglio ‘63 arrivi ad inaugurare una pagina settimanale dedicata espressamente alla scienza. Viene pubblicata ogni martedì (qualche volta il mercoledì) alimentata soprattutto dagli interventi di Gino Martinoli10, Luigi Morandi11 e Adriano Buzzati Traverso12 ma tra le firme che compaiono con una certa frequenza si leggono anche i nomi di Piero Caldirola, Stelio Villani, Giulio Maccacaro, Emilio Segrè e di un giovane Giovanni Maria Pace e poi ancora di Vittorio Somenzi, Umberto Colombo, Giovanni Enriques. Soprattutto nei primi 2-3 anni il tono complessivo è molto impegnato. La pagina è costruita con grande equilibrio e non mancano spazi adeguati per gli articoli di carattere divulgativo e le notizie sulle più recenti e sorprendenti scoperte.
Il leitmotiv è comunque costituito dalla consapevolezza del valore economico e sociale della scienza, dal continuo riferimento al modello americano per la stretta correlazione tra sviluppo e formazione culturale, dalla denuncia dell’inadeguatezza italiana e dalla battaglia per l’ammodernamento delle nostre strutture scientifiche e la formazione di un personale all’altezza dei nuovi tempi.
Luigi Morandi apre queste pagine settimanali de Il Corriere della Scienza con un editoriale dal titolo “Più ricerca, più ricchezza”. Quello della settimana successiva è intitolato “Gli altri corrono, noi stiamo fermi” e nell’occhiello spiega: “Sia la Francia, sia la Germania e l’Inghilterra dispongono di cinquanta grandi laboratori per la ricerca industriale. Noi siamo appena agli inizi”. Nell’ottobre dello stesso anno, sempre Luigi Morandi scrive: “quanto si spende in Italia per la ricerca scientifica e tecnica, riferito ad abitante, è, grosso modo, 48 volte meno che negli USA, 14 volte meno che in Gran Bretagna, 7 volte meno che in Francia e nella Germania occidentale, 4 volte meno che in Giappone (…). Costituiscono la nostra realtà un basso reddito per abitante; un numero ancora piccolo di scienziati, ricercatori, tecnici; attrezzature di laboratorio per lo più modeste e disperse in molti centri; una visione prevalentemente accademica o universitaria della ricerca che si contrappone a idee ancora alquanto vaghe nel mondo della produzione, sia industriale sia agricola”. Viene quindi lanciato un appello per una “mobilitazione tecnologica”13 che coinvolga anche le aziende minori, dato che sono le industrie tecnologicamente più avanzate quelle che resistono meglio alle recessioni economiche. L’appello è seguito da una vera e propria inchiesta nazionale con una serie di articoli che danno la parola ai protagonisti dello sviluppo tecnologico delle aziende.
Fino alla primavera-estate del ’66, su Il Corriere della Scienza si leggono anche ripetuti interventi sugli strascichi14 del caso Ippolito15, su Mezzogiorno e scienza, sull’arretratezza del nostro sistema scolastico e universitario16, sulla necessità di sviluppare Istituti di ricerca extra-universitari, sulle vicende del ministero della ricerca scientifica passato sempre “senza portafoglio” da Carlo Arnaudi al democristiano Leopoldo Rubinacci17, sulla risposta in atto in altri Paesi nei confronti della rivoluzione tecnologica18, sui provvedimenti migliori per frenare la fuga dei cervelli all’estero, sulle modalità di una corretta divulgazione scientifica19. Poi, progressivamente, le pagine de Il Corriere della Scienza vengono ad acquisire un tono più pacato. Non mancano articoli su questioni di rilievo come il contributo italiano all’Euratom e alle imprese spaziali o sulle prospettive aperte dalla diffusione dei nuovi calcolatori elettronici ma nel complesso l’inserto scientifico tende ora a privilegiare articoli divulgativi, certamente curati e arricchiti da firme prestigiose, di sicuro meno “rischiosi”. Il clima politico si è surriscaldato e Il Corriere della Sera è in prima linea nel rappresentare le posizioni conservatrici. D’altra parte, nei promotori della pagina scientifica serpeggia un po’ di stanchezza per battaglie che non hanno prodotto grandi esiti e di delusione per le mancate realizzazioni del centro-sinistra. Sembra che una (breve) stagione si stia concludendo. Si fanno scelte personali diverse, si cambia pagina, decollano nuove iniziative. Buzzati Traverso va a dirigere la nuova serie di Sapere20nel ’68 comincia le sue pubblicazioni Le Scienze, diretta da Felice Ippolito. Proprio nell’editoriale di questa rivista dell’ottobre ’69 si legge della brevissima stagione in cui “l’opinione pubblica è stata martellata da discorsi sul ruolo che scienza e ricerca insieme avrebbero svolto nel futuro per il progresso economico del Paese” e si parla del tradimento della classe politica, “perché era stata proprio la classe politica, una volta impadronitasi dello slogan della ricerca, a dare le più ampie aperture di credito a un settore che di credito nel nostro Pese era assetato”. Qualche mese prima, Carlo Arnaudi aveva ribadito che “nonostante l’apporto della stampa quotidiana e settimanale, oltre a quella tecnica, la nostra classe dirigente e politica è ben lungi dal dimostrare l’interesse e la sensibilità che è ormai patrimonio comune dei paesi più avanzati”21.
L’impegno personale dei vari Arnaudi, Martinoli, Morandi ecc. non è privo di riscontri nelle iniziative e nell’atteggiamento assunto pubblicamente da partiti, associazioni, istituzioni scientifiche e industriali. Nel 1956 il CNR organizza il Convegno su Ricerca scientifica e progresso economico e nello stesso anno istituisce una commissione speciale per la ricerca industriale. Per quanto riguarda i partiti, abbiamo già avuto modo di accennare al PSI con Carlo Arnaudi e le vicende del ministero per la ricerca scientifica. L’attenzione della DC si manifesta con il Convegno Una politica per la ricerca scientifica che si svolge a Roma nel ’61. È soprattutto la sinistra democristiana che regge le fila del discorso e non nasconde la sua scelta a favore di una programmazione che coinvolga anche scuola, educazione, ricerca, applicazioni industriali: “Quale è una prima conclusione che si può trarre da questo stato di fatto? Che la pianificazione scolastica diviene un elemento della pianificazione economica, o, se si preferisce, che la realtà impone di porre in essere la pianificazione economica, di cui parte integrante diviene la pianificazione scolastica, od infine che non si può dare pianificazione scolastica senza pianificazione economica né vi può essere pianificazione economica senza pianificazione scolastica”22.
I partiti e le correnti riformiste parlano di valore economico dell’istruzione, della necessità di una politica per la scienza, dell’opportunità di una seria programmazione della ricerca. Sono anche concordi nel denunciare la pigrizia della borghesia e di ampi settori del ceto imprenditoriale che non praticano alcun sostegno all’innovazione tecnologica e si adagiano sul più tranquillo acquisto di brevetti dall’estero. È una politica che “ha permesso di ottenere risultati brillanti e sicuri con il rafforzamento però della convinzione che sia possibile fare a meno della ricerca”23. È una politica a medio-lungo periodo miope perché “le industrie che più si sono affermate oggi in Italia sono quelle che hanno avuto la costanza e l’audacia di svilupparsi in modo autonomo, creando pazientemente i propri uffici di studio e progettazione”24. È una politica, ancora, che mina la stessa autonomia della nazione: “la borghesia non è più in condizione di decidere l’acquisto di questo o quel brevetto, ma accoglie soddisfatta il trapianto di imprese straniere nel nostro Paese e si sottomette alla direzione dei ceti dirigenti americani”25. Se questa risultasse la tendenza prevalente all’interno della Confindustria, occorrerebbe che fosse lo Stato ad assumersi il compito di provvedere esplicitamente all’organizzazione della ricerca scientifica. È una prospettiva – come si può immaginare – drasticamente rigettata dal mondo industriale che nel suo Convegno di Ischia del 1960 (convocato proprio su questi temi) chiede comunque al governo aiuti e precisi impegni per favorire l’innovazione tecnologica.
Come si è visto anche nel precedente paragrafo, il decennio 1955- 1965 è insomma un periodo di vivace dibattito. Alcune esperienze di valore arricchiscono quello sulle due culture e lo stesso nodo dei rapporti tra scienza e società è approfondito da molteplici iniziative. Nel ’59 il Governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, introduce per la prima volta il tema della ricerca nella sua relazione annuale. Ai Convegni già citati bisogna aggiungere almeno quello indetto dagli Amici del Mondo su “Atomo ed Elettricità”, quello promosso a Milano nel ’65 sulla ricerca nelle aziende di Stato o a partecipazione statale e i numerosi meeting organizzati dalla FAST. Sono anche gli anni della serie diretta da Leonardo Sinisgalli di Civiltà delle Macchine, periodico della Finmeccanica.
A questa stagione, con le sue speranze e anche la delusione per i magri risultati ottenuti, il PCI e i suoi intellettuali partecipano con un profilo decisamente inferiore. Il fatto è che la fine della guerra aveva visto l’impegno del Partito comunista orientarsi diversamente. I binari su cui corre sono altri. Churchill ha lanciato lo slogan della cortina di ferro e il mondo (e l’Italia) sono spaccati in due. Non è ancora tempo di “pensiero unico” e il punto di riferimento del Partito comunista italiano è ancora costituito dall’URSS. Non si tratta di migliorare il sistema capitalistico quanto di cambiarlo. Il cambiamento di prospettiva sarà un processo lento che si avvierà poi con la morte di Stalin, il XX Congresso del PCUS, i fatti d’Ungheria.
Nello specifico delle problematiche riconducibili ai rapporti tra scienza, società e politica, il decennio successivo alla fine della guerra vede l’attenzione del PCI e delle forze politiche e culturali della estrema sinistra italiana catturata pressoché interamente dal caso Lysenko. Non assistiamo affatto ad un dibattito per così dire accademico quanto ad uno scontro duro e lacerante tra diverse posizioni, tra partito e intellettuali, per di più su temi che verranno coinvolti direttamente in alcune delle riflessioni del ’68.
Trofim D. Lysenko (1898 – 1976) era un agronomo, nato in Ucraina da una famiglia di contadini. Diventa noto già alla fine degli anni Venti quando, in un periodo di gravi difficoltà per l’agricoltura sovietica, il padre ottiene raccolti strabilianti seguendo la tecnica di vernalizzazione elaborata dal figlio. Il processo di congelamento e umidificazione del seme permetteva di accelerarne il ciclo biologico e di seminare le varietà invernali di cereali e di alcuni vegetali in primavera, anziché in autunno, evitando la pericolosa realtà delle gelate invernali. Lysenko non si ferma qui. La generalizzazione dei suoi principi agronomici lo porta ad elaborare una teoria biologica che arriva a contestare le assunzioni basilari della Genetica. Per Lysenko, l’ereditarietà dei caratteri non è legata solo ai cromosomi delle cellule germinali ma ad ogni parte dell’organismo e al modo con cui interagisce con l’ambiente. Altro che casualità delle mutazioni genetiche! La collocazione dell’organismo, durante alcune fasi del suo ciclo biologico, in condizioni ambientali drasticamente diverse può produrre modificazioni anche dell’assetto ereditario. La capacità dell’uomo di plasmare la natura è un’ulteriore conferma delle verità del materialismo dialettico.
Trofim D. Lysenko
Ci sono tutti i presupposti perché l’approccio lysenkista si inserisca a pieno titolo nella stretta ideologica impressa da Stalin con la proclamazione che contenuti e forme della conoscenza scientifica non sono separabili dai rapporti di produzione, la distinzione tra scienza proletaria e scienza borghese e l’estensione del principio della lotta di classe alle controversie scientifiche26. Lysenko, figlio di contadini, appare come l’espressione del movimento colcosiano e di quei nuovi ceti sociali che non intendono rimanere confinati in un ruolo puramente esecutivo e invadono la scena scientifica per affermare il loro diritto ad essere protagonisti della storia. Rappresenta una scienza che pensa di superare la separazione tra teoria e prassi decidendo di mettersi al servizio delle masse popolari per il soddisfacimento delle loro necessità pratiche. Esprime il soggettivismo rivoluzionario che aggredisce la realtà per trasformarla, pensando addirittura di poter intervenire sui caratteri ereditari.
La consonanza con il clima politico presto trasforma le idee di Lysenko nella dottrina ufficiale dell’agricoltura sovietica e in uno dei più significativi manifesti ideologici alla base della nuova scienza proletaria. Progressivamente i genetisti “tradizionali” vengono allontanati da centri di potere e posti di responsabilità. Nikolai I. Vavilov, la figura più importante della Genetica sovietica, direttore dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle Scienze, viene arrestato nel 1940 e Lysenko prende il suo posto. Vavilov – accusato di cospirazione controrivoluzionaria, spionaggio e sabotaggio dell’agricoltura – verrà condannato a morte con una sentenza commutata poi in dieci anni di prigione. Morirà in carcere nel 1943.
La fama di Lysenko raggiunge l’apogeo nel ’48 quando il Comitato Centrale del PCUS esplicita il proprio diritto di fissare le linee della ricerca scientifica e in particolare approva e fa sua la relazione presentata dall’agronomo ucraino. Da questo momento, il lysenkoismo è un testo ufficiale del comunismo sovietico con cui si trovano a dover fare i conti tutti gli scienziati dell’URSS, dei Paesi satelliti e dei “partiti fratelli”. Dopo la morte di Stalin, Lysenko comincerà la sua parabola discendente e nel ’65 sarà rimosso dalla direzione dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle Scienze. Da tempo i suoi risultati, teorici e pratici, erano stati messi in discussione e coperti da un imbarazzato silenzio. Ma per 5-6 anni, dopo il pronunciamento del Comitato Centrale del PCUS, il lysenkoismo era stato un termometro dell’ortodossia rivoluzionaria, terreno di duro scontro e di divisione a livello scientifico, ideologico e politico. Per il mondo intellettuale occidentale era stata la prima richiesta di applicazione – precedente i fatti di Ungheria – del principio per cui si sta sempre con la propria parte politica, anche quando questa sbaglia.
In Italia il dibattito su Lysenko si apre negli ultimi mesi del ’48 con una serie di articoli ospitati soprattutto su L’Unità e Rinascita27, gli organi di informazione del PCI28. Sono i mesi immediatamente successivi alla sconfitta elettorale delle sinistre, che segnano l’inizio della contrapposizione frontale con i partiti conservatori. L’ortodossia comunista presenta l’agronomo ucraino come il campione della Genetica marxista. Sottolinea il ruolo svolto dai lavoratori sovietici per trasformare i propri luoghi di lavoro in grandi e concreti laboratori. Liberi dall’ideologia borghese e dalle astruserie della scienza idealistica29, favoriscono l’avanzata del vero progresso scientifico affrontando e risolvendo i problemi del popolo e della sua rivoluzione. Il lysenkoismo è la prova che c’è uno specifico modo marxista di intendere e praticare la ricerca nelle varie discipline – c’è una Genetica marxista contrapposta a una Genetica borghese – e che ovviamente tocca al partito l’ultima parola sulla corretta applicazione dei principi del materialismo dialettico. Per la sua formazione culturale e il ruolo di responsabile della Commissione culturale del partito, Emilio Sereni è il dirigente comunista più impegnato a presentare e a difendere la linea di ortodossa obbedienza alle direttive che provengono da Mosca. Il suo Scienza, marxismo, cultura del 1949 si apre con un imbarazzante omaggio a Stalin e a Zhdanov senza i quali “non si saprebbe intendere a fondo Gramsci”. Lysenko viene presentato come il miglior prodotto della nuova Biologia sovietica – la stessa Matematica e Fisica non hanno raggiunto in URSS un analogo stadio di liberazione dall’ideologia borghese – che ha saputo trasformarsi da un discorso “degli scienziati per gli scienziati” in una scienza “degli uomini per gli uomini”. Il suo è il trionfo “della scienza degli uomini, della scienza del popolo per il popolo sulla scienza degli specialisti per gli specialisti, sulla cosiddetta «scienza pura»”. Il suo è il trionfo di chi non crede che quel che è sempre stato sempre sarà: “la natura non largisce favori; bisogna prenderseli”. Ma non c’è solo Sereni a difendere Lysenko. Tutta la dirigenza comunista è compatta in questi anni nel respingere gli attacchi della scienza e della stampa borghese. Non manca un intervento dello stesso segretario del PCI, Palmiro Togliatti, che ancora nel ’57 tenderà a ridurre il dibattito creato attorno al caso Lysenko ad una forma di mistificante propaganda anticomunista. Neppure mancano le prese di posizione, a favore di Lysenko e della rivoluzionaria scienza sovietica, di prestigiosi intellettuali comunisti di formazione umanistica quali Italo Calvino30, Giulio Preti, Valentino Gerratana31, Mario Spinella32. Il confronto con il mondo scientifico più direttamente coinvolto dalle argomentazioni di Lysenko è però duro e l’autorevolezza e la stessa credibilità del PCI fortemente messe in discussione da studiosi che è molto difficile etichettare come reazionari. Le voci più critiche sono quelle di Adriano Buzzati Traverso e di Giuseppe Montalenti ma non vanno dimenticate le decise prese di posizione che compaiono su Il Mondo e Critica Sociale. Rimproverano a Lysenko l’assurdità delle tesi scientifiche e l’assenza di ogni trasparenza nella comunicazione dei dati su cui le stesse tesi si baserebbero. Al PCUS rimproverano il clima politico che ha favorito l’ascesa di un “ciarlatano” quale Lysenko e l’adozione della politica staliniana di eliminazione fisica degli oppositori. Al PCI l’acquiescenza nei confronti di Mosca, della sua politica culturale e della tesi della partiticità della scienza che ricorda troppo da vicino analoghi torpidi episodi della recente storia del nazismo e del fascismo. All’interno del PCI non mancano tentativi di mediazione e di dialogo con il mondo scientifico, principalmente grazie alle posizioni assunte da Massimo Aloisi e da altri (pochi) biologi marxisti che si confermano critici nei confronti del lysenkoismo ma non al punto da abbandonare il partito33. Il clima generale è comunque quello di una profonda lacerazione culturale. L’istantanea vede un partito sulla difensiva e i suoi intellettuali ricorrere in ultima analisi al principio per cui si rimane con la parte politica “giusta”, anche se questa sta sbagliando, mentre i legami con il mondo culturale (scientifico e non) democratico e tendenzialmente orientato a sinistra diventano molto problematici.
La polemica termina di fatto a metà degli anni ’50. Accade un po’ come in Unione Sovietica dove la stella di Lysenko declina lentamente con la sua progressiva scomparsa dalle trionfalistiche celebrazioni di partito. Sulla Pravda si leggono le prime critiche al suo modo di gestire la ricerca, ma per la rimozione ufficiale bisognerà attendere ancora una decina di anni. In Italia il PCI sostituisce Emilio Sereni con Carlo Salinari alla guida della Commissione culturale e per il resto aspetta che le novità sovietiche – la morte di Stalin e il cambio di clima politico che sarà percepito nettamente nel ’56 con il XX congresso del PCUS – dispieghino tutte le loro potenzialità. Preferisce una linea morbida che evita le rigidità precedentemente assunte nella difesa di Lysenko, parla di disguidi e fraintendimenti, cerca di riallacciare il dialogo con il mondo scientifico democratico34 attraverso doverose chiarificazioni ma non avanza mai nessuna esplicita autocritica. Mai ammetterà di essersi sbagliato nelle sue valutazioni. Mai in questi anni parlerà del ridicolo a cui la linea sovietica ha rischiato di esporlo, del silenzio subito dai biologi marxisti e della distruzione della scuola genetica russa operata dalla politica staliniana. Arriverà a rettificare la propria posizione quando ormai “i buoi erano scappati”, comunque sempre cercando in precedenti documenti, nei “testi sacri” del marxismo e nel contesto internazionale appigli e giustificazioni per la propria condotta35.
Da un punto di vista politico, questa “linea morbida” ha probabilmente rappresentato la scelta più accorta per disinnescare la miccia della conflittualità con il mondo della cultura ma d’altra parte questa esploderà, da lì a non molto, con i fatti di Ungheria. La mancanza di un serio e pubblico approfondimento del caso Lysenko peserà anche sul ’68 italiano e il suo atteggiamento nei confronti del mondo scientifico. Molti sono i temi comuni che ritroveremo infatti una ventina di anni dopo: la consapevolezza delle grandi potenzialità delle conquiste scientifiche nell’opera di trasformazione della natura; la conseguente acquisizione della valenza politica della cultura (anche quella scientifica) e dei suoi rapporti con il potere politico; la legittimazione di quest’ultimo a intervenire sulla sfera culturale e il dibattito sulle modalità di questo intervento; l’esistenza dunque di una scienza caratterizzata dai suoi aggettivi (scienza borghese, scienza marxista ecc.); il legame tra teoria e prassi.
Verso la Luna (e riflessi sulla Terra)
Le vicende del PCI sono particolarmente importanti perché è a questo ambiente politico e culturale che faranno riferimento, spesso in polemica con le posizioni ufficiali del partito o i suoi silenzi, molte delle riflessioni del ’68 italiano. Sul tema della scienza, con il naturale esaurirsi del caso sollevato dall’agronomo ucraino a metà degli anni ’50, troviamo il PCI impegnato a fare i conti con la (dis)avventura del lysenkoismo e a ritessere la trama di nuove convergenze con gli “scienziati democratici”. L’episodio de Il Politecnico di Vittorini e le reazioni all’insurrezione di Budapest testimoniano come il rapporto con gli intellettuali, su cui pure il PCI aveva molto investito, non sia affatto esente da criticità.
Continua l’impegno pacifista, sviluppatosi subito dopo la guerra e il lancio delle atomiche sul Giappone, con il dibattito sulle conquiste della scienza e il loro impiego a scopi civili. Sono gli anni dei partigiani per la pace e dello slancio conseguente alle imponenti assisi internazionali di Wroclaw, di Parigi e di Varsavia. Con le manifestazioni per il disarmo nucleare, contro le minacce e le aggressioni dell’imperialismo, ci si schiera di nuovo a fianco dell’URSS e si testimonia come le masse e l’intellighenzia occidentali siano ben lontane dal condividere la politica di guerra fredda abbracciata dai governi. L’obiettivo del PCI è di contribuire a bucare la cortina di ferro e a riunire le comunità degli studiosi dei due blocchi. La ricomposizione favorirà un corretto sviluppo scientifico e sarà elemento di progresso e di avvicinamento alla realizzazione del socialismo: “si doveva operare a livello internazionale per la ricomposizione di una comunità scientifica che, al di sopra di una contingente spaccatura derivante dall’appartenenza dei suoi membri ai due blocchi, trovasse nella neutralità e universalità della scienza un terreno di intesa che fosse garanzia di una comune aspirazione umanitaria e pacifista”36. Arrivano poi i primi segnali di “disgelo” ma l’impegno a favore della pace trova purtroppo sulla propria strada altri focolai di guerra e altri motivi che suggeriscono di non abbassare la guardia37. La crisi di Cuba del ‘62 è lo snodo che rappresenta emblematicamente il passaggio di testimone ad una nuova generazione di militanti e di scienziati ugualmente determinati ad usare la propria autorevolezza per evitare una catastrofe nucleare38.
Dicevamo che nei confronti del caso Lysenko non c’era stata da parte del PCI nessuna autocritica ufficiale ed esplicita. Così, assieme al lysenkoismo e al materialismo dialettico nella versione del Diamat, cala progressivamente il sipario su tutte le ricerche che intendevano riflettere sui rapporti tra lo sviluppo scientifico e il contesto sociale e culturale che lo accompagna. Il dibattito diventa meno ideologico e il Partito comunista sviluppa una maggiore attenzione per la dimensione nazionale e una collocazione e una crescita autonoma della ricerca scientifica in Italia. Nel decennio 1955 – 1965 il PCI volta pagina ma questo cambiamento ineludibile – gli argomenti e i toni usati da Sereni, per limitarci ad una precedente citazione, vengono via via percepiti come testimonianze residuali di un’epoca ormai passata39 – è particolarmente lento.
Questo è il primo elemento che emerge: sul tema dei rapporti tra scienza e società, i pochi “quadri” e intellettuali comunisti di formazione scientifica si trovano ad affrontare problematiche nuove per il gruppo dirigente e sulle quali il partito sconta un inevitabile ritardo40. Per la scuola il suo impegno si concentra su quella che nel frattempo diventa la scuola media unica, anche qui con tempi non sempre in sintonia con l’importanza della questione41. In merito ai problemi della ricerca prevale l’interesse per gli aspetti sindacali e i problemi dei lavoratori del comparto, senza una chiara indicazione di politica scientifica.
La linea che le prime cronache de L’Unità e gli interventi parlamentari esprimono a proposito del caso Marotta verrà corretta solo più tardi e a fatica. Di fatto il primo Convegno nazionale del PCI sulla ricerca scientifica42 si terrà nel marzo ’70, unicamente preceduto da un incontro preparatorio svoltosi all’Istituto Gramsci nel dicembre ’68. Presenterà tutti gli elementi che nel frattempo sono diventati ricorrenti nell’analisi del partito – la lotta contro una collocazione subalterna dell’Italia, la critica dell’uso capitalistico della scienza come strumento di oppressione, la polemica contro quegli scienziati (anche “democratici”) che pensano di potersi autoproclamare nuova élite del Paese, la denuncia delle scarse risorse destinate dal governo alla ricerca, il sostegno alle lotte per una maggiore democrazia negli Istituti e nei centri di studio – ma parlerà anche di nuova committenza e ammetterà che, diversamente da quanto poteva prevedere Gramsci, è più difficile “distinguere oggi la nozione dall’ipotesi, e la scienza dall’ideologia”43. È una delle prime aperture “ufficiali” a quello che vedremo come uno dei tratti caratteristici del ’68 nei confronti della scienza : l’opposizione alla sua “santificazione” con la denuncia degli aspetti ideologici ben presenti anche al suo interno.
Il secondo elemento che caratterizza nel decennio 1955-1965 l’atteggiamento del PCI verso la ricerca è invece proprio la fede nei confronti della scienza come oggettivo fattore di progresso, di democrazia, di avvicinamento alla meta del socialismo. È un atteggiamento che abbiamo già incontrato a proposito dell’impegno pacifista e che è sicuramente comprensibile alla luce della precedente stagione lysenkoista e della sua aggettivazione tesa a distinguere una scienza proletaria da quella borghese e capitalistica. C’è una bella differenza – si sottolinea adesso – tra la storia, la politica, l’analisi della società e lo studio della natura. Ad un’unica realtà naturale non può che corrispondere un’unica scienza e l’avanzamento delle sue frontiere consente di supportare le ragioni della conoscenza laica e razionale nella battaglia contro una cultura oscurantista e una visione reazionaria del mondo. I ricercatori esprimono una oggettiva posizione progressista, indipendentemente dalle loro posizioni politiche. Le loro rivendicazioni vanno sempre appoggiate. Il partito si deve impegnare per riunire i settori più dinamici del mondo scientifico e con loro avanzare una forte richiesta di deciso potenziamento delle strutture scientifiche del Paese. Marcello Cini commenta: “di qui l’impegno prioritario dello scienziato marxista nell’ambito specifico del proprio campo di ricerca. Impegno che, fallito il tentativo staliniano di fondare sulle leggi della “dialettica materialistica” lo sviluppo di una scienza “socialista” della natura più valida e penetrante di quella “borghese”, non poteva che ridursi – finché questa dicotomia non fosse stata rimessa in discussione - all’accettazione incondizionata di quest’ultima, anzi alla sua giustificazione – apparentemente a posteriori ma in realtà a priori – nei suoi metodi e nei suoi fini, nelle sue motivazioni e nei suoi risultati”44.
Rispetto a questo quadro post-lysenkoista, l’articolo dello stesso Cini del luglio ’69 che commenta su L’Unità lo sbarco americano sulla Luna provoca una vera e propria deflagrazione. Naturalmente non è che le sue posizioni maturino all’improvviso e siano del tutto estranee al dibattito politico di quella che ancora veniva chiamata l’estrema sinistra dello schieramento politico italiano. Nei primi anni ’60 al suo interno, ancorché minoritaria, comincia ad avanzare la consapevolezza che per la ricerca non basta chiedere più soldi e più posti in organico. La scienza è quella irripetibile avventura che consente all’uomo di realizzare grandi conquiste ma è anche lo strumento che rende sempre più disastrose le guerre e ugualmente permette lo sfruttamento imperialista. Si distingue insomma tra il valore positivo della conoscenza scientifica e il suo utilizzo, spesso caratterizzato da un segno opposto. Un matematico come Lucio Lombardo Radice arriva a parlare criticamente della “formazione di una massa, anche numericamente notevole, di scienziati specialisti di tipo americano, e non di scienziati nel senso pieno della parola, e cioè uomini di ragione, di pensiero e di cultura”45. La critica dell’uso capitalistico della scienza46 si estende al modo in cui è organizzata la sua produzione, si salda con le “vecchie” battaglie sindacali e porta a nuove molteplici richieste nella direzione di una gestione più democratica dei centri di ricerca e di una programmazione della loro attività in cui vengano coinvolti tutti i lavoratori47.
Si estende in modo provocatorio alla scienza sovietica accusata di essere troppo simile a quella statunitense nel suo tecnicismo, proprio mentre le voci che giungono dalla Cina e dalla sua rivoluzione culturale riportano lo slogan “rossi ed esperti” teso ad assicurare la presenza e il primato della politica anche all’interno dello sviluppo scientifico e tecnologico48. La “lezione” cinese porta con sé i dubbi che il contesto sociale e i rapporti di produzione capitalista influenzino il tessuto stesso della scienza – non solo le modalità della sua applicazione – e che non sia sempre possibile distinguere nettamente giudizi di fatto e giudizi di valore. Se la parola “natura indica tutto ciò che esiste: quindi non solo ciò che preesiste, cioè il materiale su cui si opera – come è proprio di ogni materialismo storicamente esistito – ma anche chi compie trasformazioni, la legge che ne permette il compiersi e il loro prodotto”, allora “la natura è inscindibilmente dato e fatto e nessuno dei due elementi può mai essere omesso in ogni definizione rigorosa di essa”49. La scienza è un’attività umana e diventa pienamente comprensibile solo se contestualizzata: “non è soltanto un processo di soluzione di problemi determinati, ma soprattutto una continua formulazione e posizione di problemi da risolvere, e pertanto in questa fase essenziale dello sviluppo scientifico entrano non solo fattori intrinseci, ma anche fattori esterni alla scienza stessa”50.
Marcello Cini
È insomma il ’68 (italiano) della scienza. È quella che veniva chiamata la demistificazione dello scientismo. Ripercorriamone le prime tappe tornando all’articolo di Marcello Cini a proposito dello sbarco americano sulla Luna. Il 20 luglio 1969 anche L’Unità annuncia l’imminente evento con toni epici: “un giorno che entra nella storia dell’umanità”. Nel suo editoriale, Emilio Sereni ricorda doverosamente che la via è quella aperta dal primo volo sovietico di Yuri Gagarin ma per il resto si associa al coinvolgimento e all’emozione del momento: “un solo cammino, una sola direttrice di marcia per l’uomo, sulle vie della terra come su quelle della Luna e del cosmo”. E, a scanso di equivoci, aggiunge: “soltanto un crescente impegno in investimenti del genere, anzi, potrà assicurare l’enorme massa di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche”. Il suo editoriale è naturalmente seguito da molti altri interventi e commenti. Achille Occhetto sottolinea le contraddizioni della superpotenza americana, associando la Luna e il Vietnam, e ribadisce la funzione strategica e progressista dello sviluppo scientifico anche dal punto di vista politico: “ancora una volta, lo sviluppo della scienza e delle forze produttive mette a nudo la contraddizione di fondo della società capitalistica”. Sempre nell’edizione di sabato 26 compare la lettera/articolo di Cini. Il tono è pesantemente ironico: “in questi giorni il miracolo dell’affratellamento universale si è compiuto nel nome del nuovo dio Apollo, e gli uomini, senza più distinzione tra ricchi e poveri, padroni e servitori, aguzzini e perseguitati, ne cantano le lodi e le magnifiche promesse di felicità extraterrena. Che cosa contano le disuguaglianze e le ingiustizie quaggiù, sulla terra, se tutti abbiamo potuto, con le lacrime agli occhi, partecipare al rito che i sommi sacerdoti hanno celebrato, lassù in cielo, nei loro paramenti di plastica, sollevando attorno al simulacro del dio, in nome dell’umanità intera?”. Né l’ironia risparmia l’editoriale di Sereni (prodigo di acritiche lodi alla rivoluzione scientifico-tecnologica in atto) e L’Unità, particolarmente impegnatasi “nell’esaltazione di quella che io ritengo la più perfetta speculazione che la società capitalistica (…) sia riuscita ad organizzare ai danni degli oppressi e degli sfruttati” (in tempi in cui la critica al partito e al suo giornale doveva ancora svolgersi con canoni controllati e non era esente da una persistente ritualità). Nel merito, Cini ricorda che “la conquista della Luna è stata anzitutto un colossale colpo propagandistico, il più fantastico spettacolo di circenses che sia mai stato regalato alla plebe dai tempi di Nerone (…) ai danni di miliardi di uomini che patiscono la fame, che subiscono le ingiustizie più inumane, che vivono nella paura, nell’ignoranza e nella miseria accreditando l’idea che questo progresso risolverà o per lo meno avvierà a soluzione i loro problemi.” L’articolo di Cini apre un vivace dibattito che si sviluppa a più voci. Lo chiude ufficialmente quella autorevole di Giorgio Napolitano che ribadisce la linea espressa dall’editoriale di Sereni – “non deve in nessun modo oscurarsi il fatto fondamentale, e cioè che l’attuale rivoluzione scientifica e tecnologica è destinata ad acuire la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti capitalistici di produzione” – e non risparmia critiche e punzecchiature a Cini (e a chi l’ha difeso come il pittore Renato Guttuso) accusato di “aristocratico disprezzo” per il coinvolgimento emotivo delle masse popolari e di inosservanza di quel “dovere di ponderazione e di misura nella polemica interna di partito” che ogni “compagno” dovrebbe avere ben presente.
Nella sua risposta, Cini insiste nel “mettere in evidenza alcune cose. Anzitutto che l’interesse puramente scientifico del programma è meno rilevante che non sembri. In secondo luogo che gli obiettivi politici e militari sono, per lo meno nella fase attuale, dominanti. In terzo luogo che, anche per quanto riguarda l’utilità delle applicazioni e dei risultati indiretti, dubbi seri vengono sollevati da settori consistenti dell’ambiente scientifico”. È chiaro che la decisione di avviare l’esplorazione spaziale riflette, da parte di USA e URSS, una precisa comune priorità nelle scelte e questa, a sua volta, “comporta l’accettazione di una scala di valori nell’importanza relativa dei beni, dei settori produttivi, dei diversi rami della scienza, e nella valutazione del lavoro e quindi degli uomini”.
Questa replica viene pubblicata su una rivista “indisciplinata” e in forte odore di eresia quale Il Manifesto. È un altro segnale che, anche per la scienza, il ’68 è ormai cominciato. Da lì a non molto, nel ’71, verrà pubblicato il volume51 che raccoglie gli interventi della delegazione sovietica al Congresso internazionale di Storia della scienza e della tecnologia di Londra del 1931 e che ripropone le riflessioni di una particolare corrente del materialismo dialettico su questioni come la non neutralità della scienza, l’analisi del rapporto tra scienza e società, la presenza di un aspetto progettuale e soggettivo all’interno delle teorie scientifiche. In uno dei saggi del volume, N. Bucharin precisa che “il «soggettivismo di classe» delle forme di conoscenza non esclude in alcun modo il significato «oggettivo» della conoscenza: in una certa misura la conoscenza del mondo esterno e delle leggi sociali è posseduta da ogni classe, ma gli specifici metodi di concettualizzazione, nel loro progresso storico, condizionano in vario modo il processo di sviluppo dell’adeguatezza della conoscenza”52. Gli Atti di Londra vengono tradotti e pubblicati in Italia nel 1977. Nel ’76 era uscito L’Ape e l’architetto che abbiamo più volte citato.
È noto come il mondo cattolico sia stato profondamente toccato dal movimento del ’68. Le sue caratteristiche palingenetiche e le sue aspirazioni rivoluzionarie – velleitarie o meno che fossero – trovano un naturale e attento ascolto in chi era stato educato a coltivare grandi ideali e prospettive escatologiche. I cattolici entrano nel movimento, fino a costituirne parte rilevante, non in quanto tali ma a prescindere dalle proprie convinzioni religiose. Da lì a non molto ci sarà poi il referendum sul divorzio e il tema del superamento dell’unità politica dei cattolici non costituirà più oggetto solo di discussioni accademiche. Per altri versi la presenza cattolica sviluppa delle problematiche specifiche dando luogo al fenomeno dei gruppi spontanei, delle comunità ecclesiali, dei cattolici del dissenso, della Chiesa di base ecc.
Il mondo cattolico è anche uno dei canali che arreca alla scena politica uno dei flussi maggiori di nuovi protagonisti. È naturale che il loro interesse nei confronti delle tematiche scientifiche, quando è presente, non si orienti verso sofisticate costruzioni di riforma dei centri di ricerca. Gli alti ideali e l’impazienza rivoluzionaria colgono subito, della scienza e delle sue applicazioni, gli aspetti negativi e distruttivi – è il grande tema della guerra e della pace – e spingono con altrettanta forza perché le sue potenzialità vengano messe a disposizione di tutti, quasi per un immediato superamento delle situazioni di oppressione, sfruttamento e fame. È un atteggiamento che, opportunamente rimodulato, troviamo in particolare nel dibattito sull’istituzione della scuola media dell’obbligo vista come primo passo di un’effettiva scuola per tutti. Il caso più eclatante è quello di don Lorenzo Milani (1923 – 1967), priore di Barbiana nel Mugello, noto anche per una lettera aperta inviata nel ’65 ai cappellani militari toscani in favore dell’obiezione di coscienza. Con i ragazzi della scuola di Barbiana – una scuola popolare post-elementare a tempo pieno, dichiaratamente antiborghese e basata sul lavoro di gruppo – nel ’67 pubblica Lettera a una professoressa che si presenta come “opera contro il sistema della selezione scolastica” e che inizia proprio rivolgendosi ad una delle tante professoresse d’Italia: “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate”.
Ancora oggi, a distanza di più di 40 anni, si rimane colpiti e quasi emozionati dalla tensione etica, egualitaria, che pervade questo scritto di don Milani e dei suoi ragazzi, che ha rivestito un ruolo particolarmente importante nella maturazione civile di più di una generazione53. Lo stile è volutamente asciutto e nette sono le parole usate nei confronti dell’insegnamento scientifico (nella scuola media) e in particolare di quello matematico: “Il problema di geometria faceva pensare a una scultura della Biennale: «Un solido è formato da una semisfera sovrapposta a un cilindro la cui superficie è tre settimi di quella…». Non esiste uno strumento che misuri le superfici. Dunque nella vita non può accadere mai di conoscere le superfici e non le dimensioni. Un problema così può nascere solo nella mente di un malato. Nella Nuova Media queste cose non si vedranno più. I problemi partiranno «da considerazioni di carattere concreto». Di fatti la Carla quest’anno alla licenza ha avuto un problema moderno a base di caldaie: «Una caldaia ha la forma di una semisfera sovrapposta…». E di nuovo si parte dalle superfici. Meglio un professore all’antica, d’uno che crede di essere moderno perché ha mutato le etichette”. Ancora: “ Del resto sulla matematica si può fare un discorso come quello che è stato fatto alle Camere per il latino. Quali sono i calcoli che ognuno deve saper fare per le necessità immediate di casa di un lavoro qualsiasi o della lettura d’un giornale? In altre parole: quale parte della matematica ricorda un uomo colto non specializzato?”. E infine: “La seconda materia sbagliata è matematica. Per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari. Chi ha fatto terza media ne ha tre anni di troppo. Nel programma delle magistrali si può dunque abolire. Piuttosto bisognerà imparare il modo di insegnarla, ma questo non è matematica. Riguarda il tirocinio o la pedagogia. In quanto alla matematica superiore come arte della cultura generale si può provvedere in altro modo. Due o tre conferenze d’uno specialista che sappia dire a parole in che consiste. Se domani verrà affidata ai maestri tutta la scuola dell’obbligo il problema non cambia. Non è vero che occorra la laurea per insegnare matematica alle medie. È una bugia inventata dalla casta che ha i figlioli laureati. Ha messo la zampa su 20.478 posti di lavoro un po’ speciali. È la cattedra dove si lavora meno (16 ore settimanali). È quella in cui non occorre aggiornarsi. Basta ripetere per anni le stesse cretinate che sa ogni bravo ragazzino di terza media. La correzione dei compiti si fa in un quarto d’ora. Quelli che non son giusti son sbagliati”.
Dicevamo dell’emozione che si prova ancor oggi rileggendo queste pagine. Si rimane ugualmente colpiti, in altro verso, per gli accenti che accompagnano l’esposizione dei problemi dell’insegnamento matematico sia pure – non va dimenticato – in un testo fortemente provocatorio. Abbiamo citato i tre passi che lo riguardano. Il primo coglie un aspetto oggettivamente presente, allora come adesso, nell’artificiosità di molti dei quesiti assegnati agli studenti e accenna con ironia alle troppe riforme gattopardesche che cambiano la forma, senza cambiare nulla. Le semplificazioni introdotte nella seconda e soprattutto nella terza citazione sembrano però davvero eccessive54. È comunque in questo modo che una parte del movimento del ’68 comincia ad affrontare i problemi scientifici!
Don Lorenzo Milani con i suoi studenti
Attorno alla Lettera a una professoressa e alle sue provocazioni si raccoglie comunque un significativo nucleo di studenti e studiosi. Su un numero di Testimonianze, la rivista fiorentina diretta da padre Ernesto Balducci, interviene anche un matematico dell’Università di Pisa. È Vittorio Checcucci (1918 – 1991), laureatosi in Normale con Leonida Tonelli e docente di Didattica della matematica. Nell’articolo “Matematica moderna per una società moderna”, del 1967, ricorda di aver “conosciuto don Milani un giorno prima della sua morte, appena il tempo per stringergli la mano. Ma da lui e i suoi ragazzi avevo imparato in poco tempo quanto non avevo né visto, né imparato in tanti anni”. Di Lettera a una professoressa scrive che “vi è denunciato violentemente l’aspetto grottesco della matematica e della scienza”, che è stata “una frustata che ha colpito noi tutti, insegnanti dalle elementari all’università” e che “questo libro è il manuale della rivoluzione culturale”. Apprezza in particolare la lotta per il diritto allo studio, contro la selezione e le bocciature, e una pedagogia fatta su misura di ciascun ragazzo (non per blandire l’inerzia dei professori) per insegnare a ragionare e non ad imparare stupidamente a memoria formule preconfezionate: “agli allievi sia consentita la massima capacità di espressione, che si riducano al massimo le differenze individuali (…) ragazzi di capacità diverse procedano ciascuno con la propria velocità (…). Altro che fasce di livello per imparare la regola del tre semplice, o le grandezze direttamente e inversamente proporzionali”.
Checcucci si impegnerà poi generosamente nell’esperienza dei doposcuola spontanei, in particolare presso la scuola media sperimentale “N. Pistelli” del quartiere Corea di Livorno. Sorto nel ’53, in concomitanza con la guerra di Corea, il quartiere viveva la difficile realtà sociale del sottoproletariato: disoccupazione e sotto-occupazione, analfabetismo, sfruttamento del lavoro minorile, evasione dell’obbligo scolastico. È in questo contesto che un gruppo di sacerdoti fiorentini comincia a realizzare, a partire dal ’62, il cosiddetto Villaggio Scolastico con l’obiettivo di una promozione culturale da raggiungersi attraverso la “scuola di tutti e per tutti”. Con l’aiuto di gruppi di studenti universitari, degli operai del vicino deposito delle ferrovie e di un nucleo di intellettuali vengono realizzati l’asilo (che diventerà una “scuola per l’infanzia sperimentale”) e una scuola media, sperimentale e a tempo pieno, donata poi al Comune e resa pubblica. Per raccontare queste esperienze nascono i Quaderni di Corea su cui Checcucci interviene più di una volta sviluppando il tema dell’apprendimento cooperativo in cui un ruolo specifico assumono i giochi matematici. Ritiene che la spontaneità, che aveva caratterizzato una prima fase, non basti. Occorre ora rinforzarla predisponendo del materiale adeguato. È ben lontano dal pensare che in una “scuola per tutti” l’insegnamento della Matematica si debba limitare alla presentazione di quei pochi strumenti di calcolo che servono subito, praticamente, nella vita quotidiana. Dalle esperienze della vita di tutti i giorni si deve partire, per procedere in modo euristico e induttivo verso una generalità più soddisfacente. Occorre trasmettere “il gusto a scoprire una nuova matematica, con carta e matita, e con un aggancio continuo alla realtà” ma anche fornire “ambienti particolarmente idonei per i processi di astrazione necessari alla conquista dei concetti astratti della matematica che interessano la cultura di base”55. Checcucci così scrive nei Quaderni di Corea di trasformazioni geometriche, di numeri reali, di grandezze, degli aspetti assiomatici della geometria dello spazio: è desiderabile che “si lavori in un ambiente geometrico «logicamente sistemato» senza dover rinunciare alla ricerca spontanea e creativa degli strumenti più idonei”56.
Se potessimo dare un valore di generalità al percorso che in pochi anni conduce dalla denuncia di don Milani alle intuizioni propositive di Vittorio Checcucci57, vi troveremmo le tracce di una significativa evoluzione. Il ’68 è stato sicuramente un fenomeno multiforme, anche nei confronti della scienza. Senza nessuna pretesa di completezza, abbiamo ricordato alcuni di questi atteggiamenti e le vicende attraverso cui sono maturati. Il percorso che idealmente collega don Milani a Vittorio Checcucci testimonia come “il ’68 italiano e la scienza” sia opera anche di nuovi protagonisti che irrompono sul palcoscenico sociale: studenti, tecnici, giovani studiosi, docenti magari già affermati ma che scoprono adesso le ragioni di un impegno politico58. Sono veicolo di una grande tensione ideale, che si esprime attraverso un’altrettanto grande radicalità. Hanno nei confronti della scienza (e della cultura “ufficiale”) un atteggiamento di opposizione o quanto meno di forte diffidenza. La vedono come espressione e sostegno di quel mondo da cui si sentono esclusi e che vogliono cambiare. Qui comincia il loro viaggio. Tra le diverse direzioni intraprese c’è anche quella della scoperta della complessità dei problemi posti dal rapporto scienza-società, dell’impegno ad approfondirli, del progressivo abbandono delle semplificazioni iniziali ma anche della fedeltà allo spirito critico e alla radicalità del ’68.
Note
1 Si possono vedere a questo proposito gli ultimi capitoli di A. Guerraggio – P. Nastasi, L’Italia degli scienziati (Bruno Mondadori, Milano, 2010), dove vengono presentati i casi di Domenico Marotta, Felice Ippolito, Adriano Olivetti.
2 Valga per tutte la seguente citazione tratta dalla rivista Sapere (a cui avremo modo di accennare anche più avanti): “il presente fascicolo, datato 31 gennaio 1947, esce con ritardo poiché a Milano le industrie grafiche dispongono di soli due giorni settimanali di corrente, e dal 20 al 26 gennaio la distribuzione dell’energia fu totalmente sospesa”.
3 Mi sia permesso di rimandare al già citato L’Italia degli scienziati (cap. 11 e 12).
4 Per la storia della Chimica italiana cfr. L. Cerruti, Bella e potente, Editori Riuniti, Roma, 2003.
5 È il nome con cui viene pubblicato “Il Corriere della Sera” dopo la guerra e la sospensione imposta dal CLN. Nel ’46 (ancora con una forte impronta “azionista”) esce come Il Nuovo Corriere della Sera, mentre la testata de Il Corriere d’Informazione passa all’edizione del pomeriggio che si avvale comunque di una propria redazione.
6 C.R. “L’industria e la ricerca scientifica”, Il Corriere d’Informazione, 30 gennaio 1946.
7 T. “Abbandonata a se stessa. Deve morire da noi la scienza?”, Il Nuovo Corriere della Sera, 19 dicembre 1946.
8 La citazione è tratta da La ricerca scientifica in Italia (1956) di Carlo Arnaudi, uomo politico socialista e direttore a Milano dell’Istituto di Microbiologia Generale Agraria e Tecnica.
9 Il Corriere della Sera torna in questi anni a superare le 400.000 copie vendute ogni giorno.
10 Gino Martinoli Levi, figlio del medico e istologo Giuseppe Levi, laureato in Ingegneria al Politecnico di Torino, sviluppa la sua carriera professionale in ambito industriale ricoprendo incarichi di responsabilità all’Olivetti, alla Necchi, all’Agip nucleare ecc. . Nel 1964 è tra i fondatori del CENSIS. Il cognome Martinoli è un nome di fantasia, assunto nel periodo delle leggi razziali (cfr. l’intervista di M. Chierici ad Adriana Enriques De Benedetti publicato su Il Corriere della Sera del 10 e del 16 aprile 1992).
11 Luigi Morandi (1898 – 1981), fratello di Rodolfo (esponente socialista di primo piano nel dopoguerra), si era laureato in Chimica a Padova. Lavorerà poi nell’industria fino al 1969, divenendo anche vicepresidente della Montecatini.
12 Adriano Buzzati Traverso (1913 – 1983), fratello dello scrittore Dino, è stato uno dei primi docenti italiani di Genetica. Nel 1962 Fonderà a Napoli il Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica (LIGB).
13 È un linguaggio che si ritrova in altri interventi. A proposito della opportunità di una istruzione di massa, Gino Levi Martinoli scrive: “ci sembra che solo ricorrendo ad una forte spinta emozionale (…) si potrebbe tentare un movimento, che per le dimensioni che dovrebbe assumere, avrebbe gli aspetti di una crociata” (“La ricerca scientifica nell’industria” in Una politica per la ricerca scientifica, edizioni 5 Lune, Roma, 1962).
14 Il 21 aprile ’64, L. Morandi annota che “i rapporti tra l’industria e l’università, per quanto riguarda la ricerca, si svolgono in Francia, come in Italia, nei margini e al di fuori della legalità”.
15 Non è privo di significato che Il Corriere della Sera, che aveva prima assunto una posizione decisamente colpevolista, in occasione dell’apertura del nuovo processo a Felice Ippolito scriva che la sentenza di primo grado “suscitò perplessità anche tra i magistrati”.
16 A proposito del modo estremamente elementare con cui l’Università italiana risponde all’articolazione del mondo del lavoro, si comincia a proporre l’introduzione di una laurea su tre livelli!
17 Il Corriere della Sera registra con delusione il fatto che anche Rubinacci è un ministro “dimezzato”. Nell’articolo “Il divorzio tra politici e ricercatori” (8 marzo ’66), A. Sensini non perde l’occasione di accusare i socialisti di scarso interessamento alla questione e di avere alla fine preferito il più “redditizio” ministero del commercio con l’estero.
18 In queste inchieste si distingue A. Buzzati Traverso che si occupa anche della Cina e della rivoluzione industriale e si chiede quale potrà essere l’esito della glorificazione da parte delle guardie rosse dell’esperto non intellettuale (con riferimento al caso Lysenko di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo).
19 Particolare attenzione viene dedicata all’attività di ricerca e di divulgazione promossa dalla FAST (Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche). Sempre in quegli anni la Mondadori pubblica l’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica.
20 Con il numero del gennaio-febbraio ’68, la rivista passa da Hoepli alla casa editrice Dedalo.
21 Dalla prefazione del libro di D. Dinelli, Introduzione alla ricerca industriale, Etas Kompass, Milano, 1967.
22 G. Giacomello e F.M. Malfatti, “La ricerca scientifica, lo sviluppo economico e l’insegnamento superiore” in Una politica per la ricerca scientifica, op. cit.
23 F. Gatto, “Organizzazione e sviluppo della ricerca scientifica in Italia” in Atti del Congresso internazionale di studio sul progresso tecnologico e la società italiana, Giuffré, Milano, 1962.
24 G. Martinoli, “La ricerca scientifica nell’industria” in Una politica per la ricerca scientifica, op. cit.
25 C. Arnaudi, La ricerca scientifica in Italia, op. cit.
26 Il caso Lysenko non nasce dal nulla. Un’accurata ricostruzione del dibattito filosofico-scientifico che lo precede e ne accompagna lo sviluppo si può trovare nell’ottavo capitolo (a cura di S. Tagliagambe) del volume VII della Storia del pensiero filosofico e scientifico di L. Geymonat (Garzanti, Milano, 1976) e nella successiva opera di S. Tagliagambe, Scienza, filosofia, politica in Unione Sovietica. 1924- 1939 (Feltrinelli, Milano, 1978).
27 Le vicende di una possibile pubblicazione dal ’48 al ’56 degli scritti di Lysenko da parte di una casa editrice vicina al PCI, come l’Einaudi, sono raccontate in G. Boringhieri, Per un umanesimo scientifico, Einaudi, Torino, 2010.
28 Secondo la testimonianza di Massimo Aloisi raccolta da N. Ajello (Intellettuali e PCI 1944 – 1958, Laterza, Roma-Bari, 1979), le prime notizie sulle teorie di Lysenko si diffondono in Italia nell’estate del ’48 dopo il Congresso internazionale per la pace di Wroclaw, in Polonia, cui partecipa anche una delegazione del PCI.
29 L’ideologia borghese implicita nelle pieghe della scienza sarebbe talmente pericolosa che è quasi preferibile essere un pittore per capire la “vera” biologia (o essere un biologo per capire la “vera” pittura): “Il compagno Aloisi è uno scienziato molto serio e non vi è nulla di straordinario che, di fronte all’impostazione della biologia sovietica, abbia bisogno di documentazione e abbia anche maggiore difficoltà a capire di quanto non ne possano avere altri compagni. Io credo che il compagno Guttuso abbia capito, per quello che ha letto su problemi di Lysenko, molto più facilmente di quanto abbia capito il compagno Aloisi il quale, invece, avrà capito molto di più di Guttuso per quanto si riferisce ai problemi della pittura e della scultura sovietica. È un fatto, questo, che si spiega in maniera estremamente facile: credete che la influenza ideologica della borghesia sia un fatto metafisico?” (da un intervento di E. Sereni del giugno ’49 alla Commissione culturale del PCI, citato in F. Cassata, Le due scienze, Bollati Boringhieri, Torino, 2008).
30 “Bisogna che lo scienziato non si proponga «la scienza per la scienza», bensì i suoi obiettivi coincidano con gli obiettivi generali della società. In un tutto che ha come ragione di vita la trasformazione in una data direzione (prima la costruzione del socialismo attraverso i piani quinquennali, per l’industrializzazione del paese, poi il passaggio dal socialismo al comunismo mediante un enorme aumento delle capacità produttive) ogni sforzo va teso in quella direzione; non può essere sprecato né un pensiero né un gesto; il primo criterio deve essere: serve o non serve allo sviluppo della rivoluzione?” (I. Calvino, “La verità sul dibattito Lysenko”, L’Unità, 31.12.1948 citato in Le due scienze, op. cit.).
31 “Quando si vede che qui non solo la scienza sa parlare il linguaggio del popolo e contribuisce senza posa al crescente suo benessere, ma che un intiero popolo si interessa e partecipa con slancio ai progressi della scienza, non si può fare a meno di essere trascinati dall’entusiasmo e si ha finalmente l’impressione di toccare quasi con mano quel nuovo mondo che in altri tempi poteva essere soltanto sognato” (V. Gerratana, recensione a “Terra in fiore”, Rinascita, novembre 1951, citato in Le due scienze, op. cit.).
32 “I biologi sovietici veramente operano con milioni di mani e di cervelli, i loro campi sperimentali coprono milioni di ettari, i loro allevamenti sperimentali ammontano a milioni di capi” (M. Spinella, L’Unità, 30.01.1952, citato in Le due scienze, op. cit.).
33 L’unica eccezione di rilievo è costituita dal microbiologo Luigi Silvestri, radiato dal PCI per avere disobbedito all’ordine di non discutere il caso Lysenko nelle sezioni di partito.
34 È Massimo Aloisi, a partire da un articolo pubblicato nel ’54 sulla rivista Società, il più impegnato in questa revisione critica.
35 Diversa è naturalmente la valutazione data di Lysenko alla sua morte – sono passati più di 20 anni dai momenti più aspri della polemica – anche se l’analisi del comportamento del partito è ugualmente accompagnata da diplomatici silenzi. Su L’Unità del 4 dicembre 1976, G.
Angeloni parla di un “fenomeno di dogmatismo che investì per circa un trentennio interi settori scientifici e produttivi dell’Unione Sovietica” e del “dramma che colpì un’intera generazione di scienziati, con metodi di condanna ideologica e di pesanti persecuzioni personali che giunsero anche all’eliminazione di eminenti figure di studiosi ch si erano impegnati nell’opera di costruzione del socialismo”.
36 G. Ciccotti, M. Cini, M. de Maria, G. Jona-Lasinio, L’ape e l’architetto, Feltrinelli, Milano, 1976.
37 A livello internazionale, nel 1955 viene diffuso il cosiddetto Manifesto Russell-Einstein. Nel ’57 nasce il Movimento Pugwash e nel ’65 la sua annuale Conferenza si svolge in Italia, a Venezia.
38 “Mi convinsi allora che il rischio di un conflitto nucleare era concreto e implicava conseguenze catastrofiche e che avevo una qualche responsabilità di occuparmene, se non altro nella misura in cui – in quanto fisico - ero in grado di capire meglio dell’uomo della strada alcuni aspetti di tale problematica. Avevo il dovere di aiutare le opinioni pubbliche a meglio capire questi aspetti e di esplorare cosa si potesse fare per diminuire la probabilità che si verificassero quelle catastrofi nucleari che erano oramai divenute possibili e forse probabili” (F.Calogero, “Reminescenze personali e attività pacifiste di scienziati italiani, prevalentemente negli anni ’60 e ‘70”, PRISTEM/Storia. Note di Storia, Matematica e Cultura, n. 16- 7, 2006).
39 Il complessivo cambiamento di pelle che il partito comunista comincia ad operare è sinteticamente, ma con immediatezza, così descritto da P. Pavolini nell’articolo “Comunismo 1956” pubblicato su Il Mondo (e citato da N. Ajello, Intellettuali e PCI 1944-1958, op. cit.): “ogni giorno un intellettuale esce dalla vita del partito, smette di fare il funzionario, inizia o riprende la professione di avvocato, di professore, di scrittore, di impiegato: abbiamo resistito per dieci anni, oggi cominciamo a mollare. Perché? Perché la rivoluzione non si fa più”.
40 All’inizio del decennio che stiamo considerando, sulle colonne di Rinascita si sviluppa un vivace dibattito sull’importanza della cultura scientifica. È avviato da un intervento di Alberto Caracciolo che osserva che “sfogliando per esempio le nostre riviste, appare subito in esse una grande povertà di dibattito scientifico (…). Non abbiamo fatto finora uno sforzo continuo, coerente, di direzione nel campo della cultura scientifica”.
41 Sono significative le parole con cui M. Alicata introduce la discussione del Comitato centrale del PCI nel novembre ’55, quasi sentendosi in obbligo di giustificare “la decisione della Direzione del partito comunista di mettere all’ordine del giorno del Comitato centrale un problema che può apparire così particolare, specialistico, come il problema della scuola” (M. Alicata, La riforma della scuola, Editori Riuniti, Roma, 1956). G. Berlinguer commenterà: “per iniziativa di Mario Alicata, che dirigeva allora la sezione culturale, fu affermato che questo doveva essere il terreno principale del ‘lavoro culturale’. Prima di allora, anche se può apparire strano, non era così”. (Dieci anni dopo, De Donato, Bari, 1978).
42 Il Convegno su “La ricerca scientifica e la società italiana” si conclude con l’intervento di Giorgio Napolitano. Nella sua relazione introduttiva, Giovanni Berlinguer ammette che “l’attuale Convegno è il primo, di questa ampiezza, promosso dal P.C.I. sulla politica della scienza”.
43 G. Berlinguer in Atti del Convegno “La ricerca scientifica e la società italiana”, Roma, 1970.
44 L’ape e l’architetto, op. cit.
45 L’intervento di L. Lombardo Radice in una riunione della Commissione culturale del PCI è in parte riportato in L’ape e l’architetto, op. cit.
46 Sulla critica al “modello americano” torna anche G. Berlinguer nella relazione introduttiva al citato Convegno del PCI del 1970 : “negli ultimi anni era prevalsa nei gruppi dominanti l’ipotesi di un inseguimento del «modello americano» (…) e nessuno si chiedeva se quelle linee di sviluppo e di utilizzazione della scienza rispondessero ai bisogni reali del nostro Paese”.
47 Sulle novità presenti nella contestazione dei ricercatori scientifici, raccontate quasi “in diretta”, si può ad esempio vedere il cap. 8 di G.B. Zorzoli, La ricerca scientifica in Italia, Angeli ed., Milano, 1970.
48 “Solo un elevato livello di coscienza politica può dar luogo a un lavoro scientifico fruttuoso” (Tsien Tche Hao, L’insegnamento scientifico in Cina, Guaraldi, Firenze, 1973).
49 M. Cini, Introduzione a L’ape e l’architetto, op. cit.
50 Ibidem.
51 AA.VV., Science at the Cross Roads, London, 1971; trad. it. : Scienza al bivio, De Donato, Bari, 1977.
52 Sono anni di grande e appassionato dibattito e le polemiche non risparmiano naturalmente neppure la pubblicazione di Scienza al bivio. Su Critica Marxista, nel 1977, Enrico Bellone (“Scienza al bivio? Nota sul marxismo come metodologia normativa”) presenta tutta una serie di perplessità per l’edizione italiana “curiosamente acritica”, come se fosse “una sorta di premessa ad un recupero” delle posizioni buchariniane. Per Bellone, la principale responsabilità dell’edizione italiana è di “istituire nuove forme di separazione tra ricerca scientifica e riflessione filosofica, promuovendo atteggiamenti di indifferenza teorica verso la scienza che non dovrebbe trovare sede nell’ambito del pensiero marxista”. La polemica tra la scuola di Ludovico Geymonat e i fisici e storici della Fisica vicini alle posizioni di Marcello Cini è alimentata in quegli anni dalla pubblicazione tra l’altro di Attualità del materialismo dialettico (a cura di E. Bellone, L. Geymonat, G. Giorello, S. Tagliagambe; Editori Riuniti, Roma, 1974) e di vari articoli su Critica Marxista, che dedica anche un intero “quaderno” al tema dei rapporti tra marxismo e scienze.
53 Scrive Giovanni Prodi (nel ricordo di Vittorio Checcucci, di cui tra poco parleremo, pubblicato nel ’93 su L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate): “è difficile per chi non ha vissuto quei momenti rendersi conto dell’impatto che questo piccolo libro ebbe sulla società e sulla cultura italiana, dei problemi di coscienza che esso sucitò, fino al limite dell’autoflagellazione”.
54 È un atteggiamento che ritroviamo nel dibattito sulle “150 ore”. A proposito dell’insegnamento della Matematica, una parte del movimento sosteneva che, agli operai che tornavano sui banchi di scuola, bisognava impartire solo nozioni pratiche e utili per la vita (proletaria) di tutti i giorni: quegli strumenti – ad esempio, le percentuali – che permettessero loro di capire la composizione della busta paga.
55 V. Checcucci, “La geometria delle trasformazioni, ambiente di base per l’apprendimento della matematica”, Quaderni di Corea, 1971.
56 V. Checcucci, Ibidem.
57 Nel già citato ricordo, di lui G. Prodi scrive che “ero portato a considerarlo come uomo spontaneamente cristiano, anche se lui, in quel periodo, avrebbe risolutamente allontanato da sè questo attributo”.
58 Con questo non vogliamo affatto sostenere che il ’68 rappresentò un idilliaco abbraccio tra le diverse generazioni. Tra i tanti episodi che si potrebbero raccontare a questo proposito, citiamo quello descritto da Carlo Bernardini (Fisica vissuta, Codice edizioni, Torino, 2006) che ricorda la figura di Bruno Touschek a cui uno studente rozzo e ignorante diede del “barone nazista”.