Il mio punto di vista
Durante gli ultimi quindici anni ho visto molte persone, di cui alcune veramente talentuose, convertirsi a lavori finanziari. Inizialmente indirizzate verso la carriera matematica, non avevano mai avuto nessun interesse per la finanza ma ugualmente sono finite a lavorare per le banche. Per molti, il punto di svolta è arrivato quando, appena laureati, si sono dovuti misurare con la realtà del mercato del lavoro. Le banche stanno così ricavando molto talento dalla società, assumendo matematici che avrebbero potuto impiegare il loro talento in altri campi. Visto il danno che l’industria finanziaria ha inflitto alla società, verrebbe da pensare che si sia fatto un cattivo uso di quel talento.
Nel suo articolo, Marc Rogalski ricorda che l’industria finanziaria è la parte del meccanismo della “lotta di classe per la suddivisione del plusvalore” designata a incrementare i profitti degli azionisti a spese della classe lavoratrice. La lezione della recente crisi, che la società debba essere protetta dalle istituzioni finanziarie, non è nuova. Oggi si tende a ridurre tutto alla richiesta di maggiori e più precise regole ma Rogalski ci chiede anche di tenere a mente che la costante pretesa di enormi profitti da parte dei banchieri li mette in conflitto con la società. Le regole possono rallentare il loro attacco ma non rimuoveranno la minaccia. Il problema fondamentale non può essere ridotto scaricando la colpa su “poche mele marce”. L’attuale crisi finanziaria ha portato questo stato di cose alla coscienza dell’opinione pubblica. Ora è tempo di farsi delle domande.
Non è certo una novità il fatto che ci si trovi a mettere in dubbio un ambito della nostra scienza – la Matematica finanziaria – esaminando le implicazioni etiche del suo lavoro. Durante la guerra fredda, i centri di pianificazione e controllo sono stati spesso oggetto di critiche e così i “maledetti” fisici che, durante la seconda Guerra mondiale, avevano lavorato al Progetto Manhattan. I matematici puri si sono sempre salvati da queste discussioni etiche, essendo i loro studi proverbialmente separati dalla realtà da un gran numero di strati di astrazione. Rogalski sostiene che l’interesse dell’industria finanziaria ad arricchire una piccola minoranza dovrebbe mettere in dubbio il finanziamento pubblico adoperato per formare i suoi professionisti. Io vorrei esaminare in particolare il ruolo giocato dai Dipartimenti di Matematica.
Non mi occuperò dell’industria finanziaria e nemmeno della ricerca accademica e dell’insegnamento che riesce a generare, ma solo del perché molti studenti, laureatisi con tutt’altre motivazioni, finiscano per convergere verso carriere finanziarie. Il fenomeno è molto ampio. Non so dare dei numeri complessivi, ma ho studiato l’impiego attuale di 76 dottori di ricerca in Matematica dell’Università di Toronto tra il 2002 e il 2009. Di 18 ex-studenti impiegati nel settore privato, 14 lavorano nell’industria finanziaria. Dei 18, soltanto 4 da studenti si erano specializzati in Matematica finanziaria. Quindi, su 14 laureati in materie non finanziarie che hanno intrapreso una carriera non accademica, 10 (il 71%) lavorano nell’industria finanziaria (e qualcuno di quelli che hanno inizialmente scelto una carriera accademica potrebbe poi aumentare questa percentuale). La mia impressione è che in molte altre Università la situazione sia simile: un’alta percentuale di Ph.D in Matematica che scelgono una carriera extra-accademica finiscono a lavorare per le banche.
Gli interessi dei Dipartimenti
Negli ultimi 30 anni, molte Università si sono sempre più trasformate in linee di produzione per affari. Nel momento in cui i Dipartimenti di Matematica accettano questa ridefinizione, devono rivedere i loro obiettivi garantendo un grande flusso di studenti laureati e, per questo, ricorreranno a una consistente scorta di insegnanti a buon mercato, mirando ad ottenere un notevole flusso di fondi (governativi). Questa scala di valori non li spingerà certo a preoccuparsi troppo di cosa accadrà ai loro studenti una volta laureati.
Insider e outsider
Come molti altri gruppi di persone con interessi in comune, i Dipartimenti di Matematica hanno una mentalità che può essere definita settaria: si preoccupano molto degli “interni” – i matematici accademici – e poco degli “esterni”, quelli non accademici.
Gli interni guardano gli esterni come gente che contribuisce poco al reale sviluppo della disciplina e dunque sono poco interessati a cosa fanno. Danno per scontato che la Matematica sia un’attività nobile di per sé. La tacita inferenza che ne segue è che, più matematici ci sono, meglio è per la Matematica e quindi per l’intera società. Gli interni tendono a pensare che le cose che fanno siano “importanti”, “belle”, “innovative” ma anche “benefiche” o per lo meno “innocue”. Dato che quelli che prendono decisioni e stabiliscono la politica nella comunità matematica sono tutti membri interni, si presta poca attenzione agli esterni e al loro impatto sulla società. Come risultato, vi è una certa cecità sistematica verso il fenomeno che sto cercando di discutere in questo articolo. Gli studenti che si convertono a carriere finanziarie, o ad altri lavori applicativi, diventano invisibili agli occhi di molti accademici.
Ambiguità morale
Nella sua replica a Rogalski, Ivar Ekeland dice che “se le cose vanno a rotoli, la Matematica non può essere d’aiuto,ma i governi sì”. Qual è la ratio di questa affermazione? Vuol dire che, se i nostri studenti vanno di buon grado a lavorare per istituzioni note per saccheggiare i soldi pubblici e il governo non ha fatto nulla per regolamentare, allora non vi è nessuna implicazione etica? Vuol forse dire che un’eventuale regolamentazione potrebbe trasformare le banche in una forza positiva ma che comunque studenti e consulenti devono aspettare passivamente che questo avvenga? Una persona che lavora per le banche magari è disperata per il lavoro e non ha altra scelta oppure lo fa perché desidera diventare ricca. Molte persone che lavorano per le banche sicuramente non si fanno il minimo scrupolo etico. Dal mio punto di vista, questi lavori sono moralmente ingiustificabili.
Nella sua famosa analisi sulla banalità del male, Hannah Arendt aveva osservato che Adolf Eichmann era incapace di riflettere sulle conseguenze morali delle sue azioni. Era moralmente cieco e vedeva quanto aveva fatto nei campi di concentramento solo da un punto di vista logistico. Lo abbiamo giustamente ritenuto responsabile dei suoi crimini, ma anche il sistema in cui aveva operato ha avuto il suo ruolo. Una vasta organizzazione – come il governo o un’istituzione – può favorire o meno una simile cecità morale. Le banche sono corporazioni ed è facile per un matematico che vi lavora non sentire il bisogno di giustificare la sua scelta, circondato com’è dal vuoto morale.
Una regolamentazione governativa potrebbe effettivamente provare a contenere il danno provocato dalle istituzioni finanziarie. Ma anche gli individui hanno una loro responsabilità, sia verso se stessi che verso gli altri. Anche quando le forze esterne sembrano schiaccianti, gli individui possono scegliere il loro livello di partecipazione più o meno liberamente. Questo ragionamento vale per tutti, non solo per i matematici: fino a che punto gli psicologi intendono partecipare a un sistema di torture? Fino a che punto i cittadini rimarranno fermi mentre l’ambiente viene distrutto? Fino a che punto i matematici ci tengono a partecipare a un’industria finanziaria distruttiva?
Ugualmente non è onesto scaricare il peso solo sull’individuo, quando vi è un sistema che lo ha intrappolato. Ed è qui che i Dipartimenti di Matematica vengono meno al loro dovere: sono complici nella preparazione della trappola formando gli studenti in aree di ricerca in cui nessuno poi li assumerà, lasciandoli quindi senza spazio di manovra quando sarà il momento di cercare lavoro: i Dipartimenti stanno consegnando gli studenti alle banche.
Assenza di discussione
Una discussione sul ruolo della Matematica nella società non fa parte della coscienza generale e non è certo incoraggiata dai Dipartimenti. La loro predisposizione a catapultare gli studenti nel sistema, senza minimamente chiedersi cosa ne sarà di loro e senza incoraggiarli a riflettere sulle implicazioni delle loro scelte (riflessione rimandata ad un altro livello), finisce per consolidare lo status quo. I Dipartimenti dovrebbero invece considerare come proprio compito la preparazione degli studenti alla vita non accademica incoraggiandoli a riflettere sul loro ruolo nella società. Dovrebbero informarli sulle tendenze del momento, incoraggiare le loro discussioni e magari stimolarli a immaginare nuove possibilità.
Un esempio di sfida allo status quo
In Beyond the disciplines: art without borders, Suzi Gablik parla di un gruppo di graphic designers che stanno provando a dare un orientamento più interessante ed etico alle loro abilità. Scrive: “Recentemente ho letto su The Structuralist (una rivista pubblicata in Canada) che dei graphic designers si sono sollevati contro lo sterile capitalismo delle corporazioni e dei consumatori e stanno cercando altri modi per praticare il loro mestiere, modi che vadano oltre il disegnare un logo di marchi commerciali e il promuovere fenomeni destinati a diventare in breve obsoleti. D’accordo con Kalle Lasn, fondatore ed editore del giornale canadese Adbusters, questi grafici metteranno il loro talento a disposizione di qualcosa di più utile ed etico del marketing commerciale. Invece di provare a diventare i nuovi grandi “it” nel modo del design, questi designer rinnegati si sono uniti al movimento antiglobalizzazione, hanno scritto un manifesto (“First Things First” pubblicato su Adbusters nel 1999) e hanno dichiarato la loro intenzione di fare qualcosa di ben più interessante della velocizzazione del ciclo venditore-compratore”.
Ecco un esempio che ci copre di vergogna! I matematici sono sicuramente meglio organizzati di artisti e designer. Hanno a disposizione delle società professionali, sono parte di un sistema universitario e quasi tutti lavorano nei Dipartimenti di Matematica. Dovrebbe essere più facile per loro, rispetto ai graphic designers, pensare e comportarsi in modo da indirizzare il loro talento verso un uso migliore. Non è solo un problema di giovani studenti: anche i Dipartimenti devono svegliarsi e fare la loro parte.