Il penoso caso del Signor Silva da Silva e Silva. Storia però di una bella amicizia
Dai "Racconti" di Antonio Tabucchi (Feltrinelli, Milano, 2005) riportiamo alcune ironiche pagine tratte da "Il penoso caso del Signor Silva da Silva e Silva. Storia però di una bella amicizia". È la storia di un malato immaginario, costretto a lunghe sedute piscoanalitiche (dapprima presso il dottor Costa da Costa e Costa nel Portogallo di Salazar, poi a Oxford, presso il Maestro del Costa, il prof. Smith of Smith and Smith). Ogni riferimento è naturalmente solo casuale.
(...) Nel frattempo si era legato di amicizia con un borsista italiano che aspirava a diventare dottore in Filosofia della scienza, e nelle sue lettere al dottor Costa da Costa e Costa, che esigeva di essere informato su tutto, gliene andava fornendo un ragguagliato ritratto, perché in quell'uomo aveva trovato, dicevo, un'affinità elettiva, goethianamente intesa, e non solo umana, ma anche ideologica; e lo descriveva come un uomo sensibilissimo, con una sterminata conoscenza di Jules Verne, e tormentato, come se fosse roso da un senso di colpa di una colpa che non era sua, ma dei costumi del suo paese delle sue leggi repubblicane. Nato in un villaggio rurale della Toscana, di una Toscana però appartata e segreta, talmente segreta da essere rimasta indenne dalle degenerate idee del Rinascimento, e dove neppure le cosiddette idee «illuminate» del duca Leopoldo di Lorena erano riuscite a penetrare, egli sentiva, nell'essersi dedicato a studiare quell'eretico di Galileo, di aver tradito la cultura dei suoi innocenti avi villici, tolemaica per natura, le loro credenze, la loro selvatica bontà, se così si poteva dire, anche se non aveva ancora letto Rousseau, che il signor Silva da Silva e Silva non aveva osato consigliargli perché dietro quella magnifica idea del buon selvaggio il Ginevrino, come è noto, propagandava tutta una serie di idee libertine (ad esempio ingravidava le marchese o le contesse che lo ospitavano nei suoi vagabondaggi di château in château) che avrebbero potuto turbare l'amico italiano e bloccare il suo percorso di revisione che aveva intrapreso sui propri studi scientisti. In effetti, invece che nell'austera biblioteca dell'università, ormai preferiva meditare sul pericoloso relativismo nella calda atmosfera di un pub gestito da un gioviale Italiano del Sud, che con cordialità tutta mediterranea li salutava ogni volta con un'antica espressione probabilmente di origine pre-latina, «my best wishes aa pucchiacchia 'e màmmeta»; e l'idea peccaminosa del relativismo non gli lasciava requie, avendo egli capito che a questo mondo niente è relativo, e lo rendeva insonne. E l'insonnia colpevole senza colpa gli aveva piano piano stravolto le sembianze, provocandogli perfino un leggero gozzo e facendolo sembrare un morto vivente: pallido, allucinato, con due enormi occhiaie bluastre, tipiche di certi fanciulli degenerati che con la mano sfogano nei genitali le proprie concupiscenze e che San Luigi Gonzaga ha riportato sulla retta via. Ma costui non era per niente un fanciullo, anzi, era un uomo maturo e certo le sue occhiaie non erano dovute al toccarsi – ma questo il signor Silva da Silva e Silva non ebbe mai il coraggio dichiederglielo, perché, nonostante avesse affidato se stesso alla più ferrea logica della psicoanalisi, dentro di sé sapeva che le vie del Signore sono infinite, e che un pentimento, una sana revisione della propria vita e della Storia può anche passare attraverso un piccolo vizio segreto, che dopotutto è innocuo, perche non produce embrioni.
Una cosa che tormentava particolarmente il suo amico italiano era la protezione della purezza della razza occidentale, e italica in particolare, che egli vedeva fortemente minacciata; un inconscio allarme per il pericolo che correvano i suoi compaesani, che essendosi sempre sposati tra consanguinei sin dal Neolitico inferiore (pare che neppure i nazisti, quando avevano devastato la Toscana, si fossero accorti dell'esistenza di quel villaggio nascosto tra i monti) erano riusciti a mantenere una razza purissima che più pura non si può dalla quale egli era appunto un inequivocabile esemplare. A pensarci bene, il villaggio dell'amico italiano del signor Silva da Silva e Silva era un luogo davvero protetto da Dio, almeno da quel Dio che ha particolarmente a cuore la razza pura del Neolitico inferiore del nostro Occidente. In effetti quel villaggio più che una comunità, era una famiglia allargata, traendo la sua origine da una prima palafitta di ominidi che, bonificati gli stagni paludosi circostanti, dalla primitiva economia basata sull'allevamento di capre e verri selvatici, erano diventati agricoltori, perché uno zefiro antico, di quelli che spiravano sul mondo ancora vergine, un giorno aveva portato fin là certi pollini, e attorno alla loro palafitta, con loro grande stupore, avevano visto crescere alberi che producevano frutti succosi a forma di pera e che loro immediatamente avevano chiamato «pere». E grazie a quei frutti si erano dati un nome, che fino allora non avevano, chiamandosi sempre spicciativamente «ohe ohe»: i Della Pera. E dalla palafitta la famiglia si era estesa in un villaggio di una decina di capanne trasformate nel corso di millenni in abitazioni di pietra a secco: nel corso principale le quattro case appartenevano alle figlie e ai figli dei Della Pera natii; sottomonte sorgevano le case dei nipoti dei Della Pera, e intorno, qua e là, le abitazioni delle creature risultanti dai vari incroci fra i Della Pera. E, secolo dopo secolo, finalmente, era sorta anche una canonica, con un reverendo Della Pera, figlio di certi Della Pera che erano morti di peste bubbonica, un uomo flaccido ma energico che aveva introdotto la vera religione in quella comunità che adorava le capre e i verri, e che aveva loro rivelato che non si deve desiderare la donna d'altri, cosa peraltro impossibile essendo ogni femmina una Della Pera. Era il milleottocentosessanta e il vecchio e caro suolo italiano dominato dagli Austriaci, dai Borboni e da un Papa che sapeva come trattare la plebaglia, stava per essere consegnato, da un ateo in camicia rossa, a una famiglia reale che parlava francese, a un primo ministro che voleva fare gli Italiani e che aveva la fissa dell'anagrafe e dei censimenti. I Della Pera, ubbidienti, si iscrissero in massa all'anagrafe quali Della Pera e, obbligati a dare un nome al proprio villaggio, lo battezzarono Santa della Pera a Colle, perché era sottomonte e il sole ci batteva fino alle due del pomeriggio, dopo di che illuminava la cima del colle che i Della Pera consideravano un luogo forestiero.
Per il signor Silva da Silva e Silva trovare un modo per comunicare con l'aspirante filosofo della Scienza non era stato facile. Perché costui non parlava il portoghese, e ciò era comprensibile, ma si rifiutava di parlare l'inglese, non per difficoltà intellettiva, come teneva a specificare, ma perché la considerava lingua barbara, e soprattutto protestante. E non aveva mai studiato il francese, ritenendo la favella viziata da quel secolo dei Lumi che aveva prodotto ghigliottina e giacobini, gentaglia che aveva tagliato la testa a un sacco di persone con il cognome dotato di particella; e anche se particelle con la minuscola, sempre di particelle si trattava, e ad essa il Della Pera era sensibile. Ma il signor Silva da Silva e Silva, che si piccava di conoscere qualche presunta parola dell'antico Luso, che qualche presunto archeologo aveva rinvenuto sui cocci degli scavi della presunta Citània, una comunità del Neolitico inferiore, si accorse che l'amico aspirante filosofo, forse perché il neolitichese inferiore era lingua comune della civiltà dell'Occidente (una vera lingua delle radici che avrebbe meritato di figurare nella Costituzione europea al pari di altre radici) cominciò a rispolverare qualche parola che aveva appreso nei suoi fuggevoli anni dell'Università di Coimbra. Quello che più temeva l'amico del signor Silva da Silva e Silva, quale magnifico esemplare di pura razza del Neolitico inferiore, era che la sua stirpe, che egli identificava con il villaggio di Santa della Pera a Colle, quella stirpe felice della pre-favella, precedente all'arrivo dei meticci quali Enea o gli Etruschi, potesse essere inquinata dalla circolazione di razze vagabonde come gli ebrei, gli islamici o i Magrebini, che potevano essere sia ebrei che islamici; i Curdi, e poi gli Africani, quelli proprio neri neri. Razze che volavano via dai loro alveari d'origine a sciami, come api fameliche, per andare a succhiare il nettare dei fiori dei pereti altrui. E allora il signor Silva da Silva e Silva, che per arrivare alla cultura che ormai ne faceva uno dei maggiori storici della scuola di Santa Comba Dão aveva dovuto studiare non solo i più impervi pensatori lusiadi, come il maresciallo Carmona o il cardinale Cerejeira, amicone di Salazar e molto apprezzato da Pio XII, ma anche pensatori stranieri quali Gobineau, Giovanni Gentile e Maurice Barrès, un giorno decise che era venuto il momento di ragguagliare l'amico italiano sulle profonde tematiche del filosofo francese. E gli parlò della famosa conferenza che l'esimio pensatore, sotto gli auspici dell'Association pour la Patrie, aveva tenuto il dieci marzo del milleottocentonovanta, intitolata La terre et les morts, dove dimostrava senza ombra di dubbio che la terra appartiene a chi, là sotto, ci ha sepolto i propri morti: do you understand? Non era facile far capire all'Italico il significato della parola francese «terre», che in portoghese si dice «terra», finché un giorno, nel pub gestito dal gentile signore che porgeva sempre loro i suoi best wishes a pucchiacchia 'e màmmeta, forse aiutato da tre o quattro pinte di birra rossa, l'aspirante filosofo della Scienza ebbe una rivelazione, e come in un'epifania joyciana esclamò: «Ah, la tèra!», che è come al suo villaggio si pronuncia da milioni di anni la parola che indica le zolle e quello che ci sta sotto, sia del caolino o del basalto. E con tèra disse: «La guèra!», perche l'idea della propria tèra gli aveva fatto correre il pensiero alla guèra: per difendere la propria tèra, come è logico. Solo che non capiva ancora bene cosa c'entrassero i morti, gli sfuggiva il nesso. E così il signor Silva da Silva e Silva, con alcune parole in neolitico occidentale, e soprattutto a gesti, che sono un linguaggio universale, pazientemente spiegò: «Os mortos, les morts, los defuntos, the deads si mettono sotto la tèra, do you understand?». L'aspirante filosofo della Scienza era in difficoltà. «Il morto in tèra», ripeteva con flemma il signor Silva da Silva e Silva, «morto in tèra, percebe?». L'Italico aveva sul volto l'antica espressione della sua stirpe che aveva evitato per secoli ogni meticciato, quell'espressione originaria, purissima del Neolitico inferiore. E allora il signor Silva da Silva e Silva, facendo il gesto di uno a cui gli prende un coccolone e crolla, mentre con la mano destra a punta indicava il pavimento, disse: «You pataleta», che è come si dice «coccolone» in portoghese, «you soto tèra, do you understand?». A quel punto l'aspirante filosofo della Scienza capì il legame che c'è fra il morto e la terra, e il signor Silva da Silva e Silva, un po' in portoghese e un po' in neolitico occidentale, intanto spiegava: «E cosa nutre, per esempio, il pero che cresce sulla nostra terra? Il morto, il nostro morto. Questa è la forza dell' autoctonia, capisce la parola?, l'autoctonia è la linfa che i nostri morti danno ai nostri peri e alle nostre pere, il loro è un sacro concime fatto delle stesse cellule della nostra razza rendendo la nostra terra un prodotto di origine controllata, pensi alle pere williams austriache, che gli Austriaci fanno crescere addirittura nelle bottiglie di grappa: sa perché sono di una qualità ineguagliabile? Perché sono ariane purissime, perché i Serbi fermarono i Saraceni alle porte di Vienna. Non c'è neppure un Turco sotto quei peri, caro amico, neppure un Turco, do you capire oppure no?».
L'aspirante filosofo della Scienza, a sentir parlare di quei peri e pereti, anche se al suo villaggio non crescevano williams ma le cosiddette pere-cosce, capì eccome. Perché una pera è pur sempre una pera, anzi, come avrebbe detto Gertrude Stein, una pera è una pera è una pera.
Fu davvero una bella amicizia, basata sul cameratismo e sull'autoctonia, parola che 1'aspirante filosofo decifrava male essendo di origine greca, ma che capì meglio quando il signor Silva da Silva e Silva gli rivelò che la parola latina corrispondente a autoctoni era «terrigenes», cioè terragni. Un cameratismo che purtroppo durò solo tre mesi, perché l'aspirante filosofo aveva una borsa trimestrale pagatagli dai Sanperesi a Colle che avevano dovuto emigrare nei luoghi più lontani del globo, perché a Santa della Pera a Colle le pere non bastavano per tutti. E il presidente della comunità emigrata, gente che si trovava a San Paolo piuttosto che a Canberra, quando lesse la relazione che il borsista gli inviò per avere il rinnovo, radunò l'assemblea dei soci di New York (la sede era a New York, città meticcia quant'altre poche) e disse: «Care socie e cari soci, abbiamo un Sanperese a Colle al quale abbiamo dato i nostri risparmi per tre mesi per farlo studiare in Inghilterra, che ci manda a dire che la terra appartiene ai morti che ci stanno sotto. I nostri nonni e i nostri padri, per non morire di fame in quel buco, sono andati a morire nei quattro angoli del mondo. Sarà meglio rimandare il borsista al suo paese, e che crepi sotto un pero». E così gli tolsero la borsa, ad alzata di mano. Ma intanto 1'aspirante filosofo, dopo la grande esperienza culturale che aveva fatto con il signor Silva da Silva e Silva, che gli consigliava di abbandonare la filosofia e di dedicarsi alla politica («abbia il coraggio di farlo, Lei che ha la fortuna di vivere in quel grande paese dove il pensiero di Pio XII, di Mussolini e del maresciallo Graziani sono ancora vivi!») si apprestava a diventare uno dei politici più in vista della prima o seconda o terza Repubblica italiana, ma questo non ha importanza. Insomma, quel breve cameratismo trimestrale favorì una lunga amicizia nel tempo, e un carteggio che forse un giorno avremo la fortuna di vedere pubblicato. (...)