La scomparsa di Ermanno Rea e il suo Mistero napoletano

Lo scorso 13 settembre è morto, all'età di 89 anni, lo scrittore e giornalista Ermanno Rea. Napoletano di nascita, nei suoi libri aveva cominciato a occuparsi del nord con "Il Po si racconta. Uomini donne paesi e città di una Padania sconosciuta" (1990), per passare poi, due anni più tardi, a uno dei grandi misteri della storia italiana, "L'ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato".

Ermanno Rea

 

Tra i suoi libri più celebri ricordiamo "Mistero Napoletano. Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda" (Einaudi, 1995) che racconta, in forma diaristica, la storia complessa e tormentata di Francesca Nobili Strada, giornalista de l'Unità, suicida il venerdì santo del 1961, appena due anni dopo Renato Caccioppoli. E come Renato, grande musicista. In questo libro uno dei protagonisti della Napoli misteriosa descritta da Rea è proprio il matematico Renato Caccioppoli.

Per ricordare lo scrittore scomparso riportiamo alcune pagine del volume che descrivono il "matematico matto" e la sua Napoli:

La sede de "l'Unità" era al quarto piano del maggior palazzo dell'Angiporto Galleria, covo di innocui trasgressivi che fu, centro di attrazione dove la sera convergevano, a ondate, scontenti, curiosi, naufraghi bisognosi di una zattera cui aggrapparsi, giovani e meno giovani "promesse", qualche bella donna, qualche campione del catalogo degli "intelligenti".

La cui stella più brillante si chiamava senz'ombra di dubbio Renato Caccioppoli, l'estroso professore di analisi matematica, anticonformista fino allo struggimento. Anzi fino allo scandalo.

Le serate finivano per lo più all'osteria. Talvolta finivano a casa di Caccioppoli dove lui e Francesca si mettevano a suonare a quattro mani: pezzi per lo più dannatamente romantici, pezzi che non finivano mai, oppure finivano per congiungersi quasi senza soluzione di continuità ad altri pezzi, obbligando incalliti chiacchieroni ad un silenzio forzato, talvolta insopportabile, tanto che il gruppo si sfoltiva progressivamente, per successive defezioni in punta di piedi. (p. 11)

 

Di ciò che gli ardeva dentro, del suo "fuoco", Renato aveva tentato una sorta di compendio iconografico esposto allo sguardo di tutti: aveva piazzato sul proprio scrittoio, in due portaritratti d'argento, il volto di un poeta e quello di un matematico, Rimbaud e Galois, destinati a tenersi diuturna compagnia e a colloquiare tra loro, nonché con lui stesso, nella comune consapevolezza di parlare tutti la medesima lingua, di perseguire tutti, per vie soltanto in apparenza diverse lo stesso scopo: rintracciare lembi di quell'armonia che si nasconde sotto la pesante crosta del caos. Scava, scava, - spiegava spesso al giovane amico [Renzo Lapiccirella] che lo ascoltava incantato, - alla fine che cosa scopre, al di là dei confini del disordine, colui che ha occhi per vedere? Scopre frammenti di armonia, di perfezione. E ce li regala. Questo fa il genio, si tratti di un matematico, di un musicista o di un poeta. (pp. 119-120)

 

Negli anni della guerra fredda, a Napoli, il Pci cercava di mettere su ogni pentola in ebollizione il proprio coperchio, talvolta in maniera felpata, più spesso con arroganza. Con il risultato di far schizzare il brodo da tutte le parti.

Perfino Renato Caccioppoli veniva vissuto con sofferenza, con malcelata sopportazione, a causa della sua naturale vocazione alla trasgressione e all'iconoclastia. Averlo alleato costituiva un grande vantaggio sul piano propagandistico. Ma che peso e che preoccupazione doversi portare appresso un "simpatizzante" simile, genio sin che si vuole, ma così imbevuto di decadentismo, così diverso, così distante. E così pericoloso, per via del grande ascendente che aveva soprattutto sui giovani... Quanto a Renato Caccioppoli, non era affatto inconsapevole d'essere fonte di apprensione e, in qualche caso, anche di fastidio. Stava semplicemente al gioco, replicando a modo suo: con la forza dell'ironia.

Una volta, parlando in teatro assieme ad altri oratori tra cui Giorgio Amendola, notammo che aveva tra le mani un foglietto che mostrava ogni tanto di sbirciare, come chi segua una precisa traccia di discorso. Lui aveva sempre parlato a braccio, improvvisando a seconda delle situazioni e del suo stesso umore alquanto mutevole: come mai d'un tratto si era convertito alla rigidità della scaletta predeterminata se non addirittura concordata?

Il mistero ci fu chiarito dallo stesso Renato poche ore dopo. Poiché da tempo Giorgio Amendola lo tormentava su quel punto ("La scaletta scritta - gli diceva - è segno di rigore intellettuale e di disciplina politica"), lui aveva deciso di zittirlo una volta per tutte. Così, appena gli era stata data la parola, aveva sfilato da una tasca un bel foglietto di carta immacolata. E aveva finto di leggervi, a intervalli, quel che non c'era scritto.

Da parte di Amendola, la polemica sulla scaletta aveva un significato soltanto in apparenza di principio. In realtà, dietro, c'era la costante paura di ciò che lui potesse dire, spinto dalla sua spregiudicatezza e anche dal suo gusto della provocazione. A Bari, dove fu inviato dal Comitato nazionale dei partigiani della pace per tenere ancora una volta un comizio in un teatro, avendo scorto sul palcoscenico un pianoforte si mise a suonare, senza smettere neppure quando cominciò ad affluire il pubblico e neppure quando il teatro fu pieno. Invece di un discorso, tenne un concerto. Soltanto alla fine si giustificò affermando che niente poteva spiegare altrettanto bene come la musica che cosa fosse la pace e che cosa fosse la guerra. Ci fu una grande entusiastica ovazione. Gli unici a prendersela a male furono, pare, i funzionari di partito che avevano organizzato la manifestazione.

Quanti hanno avuto la fortuna di avere maestri così? Attraverso la sua persona pian piano ci parve di intravedere come una possibilità, quasi un sogno che non avevamo neppure osato sognare: quello di un comunismo trasandato, spettinato, stretto in un impermeabile un po' liso, un comunismo insieme tenero e beffardo, divorato dalla passione per tutte le cose belle e giuste che esistono sulla terra, un comunismo privo di pregiudizi, tollerante, nutrito di tutte le linfe presenti nel grande albero della vecchia cultura europea. Soprattutto, un comunismo non separato dalla libertà.

La prima sera che varcai la soglia di casa sua, a Palazzo Cellammare, lo feci in compagnia di Francesca. (pp. 255-256)