Qui Olivetti ELEA, 1961
Borgolombardo era una striscia di case lunga qualche centinaio di metri, parallela alla via Emilia, fra il canale scolmatore detto Redefossi (che di fatto, più che un Re, sembrava in tutto e per tutto una fogna a cielo aperto) e la ferrovia. A me sembrava che il suo unico scopo fosse quello di dare continuità urbana ai due centri popolosi di san Donato e san Giuliano, nella periferia sud est di Milano. Spesso accade che gli spazi verdi, lungo le grandi vie di comunicazione, si riempiano quasi spontaneamente di case e fabbricati. Nessuna dignità comunale insomma. Nessuna autonomia amministrativa. Una zona che, come quelle limitrofe, riforniva tutti i giorni la città di lavoratori assonnati e dal canto suo riceveva un minor numero di persone, altrettanto assonnate, per le sue officine, i magazzini e le piccole società commerciali.
Fra quei lavoratori che uscivano quotidianamente dalla città, nei primi anni ‘60, c’ero anch’io. Ricordo nettamente l’eclissi totale di sole del febbraio 1961 che ho ammirato in tutto il suo sviluppo dal ponte sul Redefossi, avendo alle spalle il luogo del mio lavoro. A Borgolombardo per l’appunto, verso le 8 del mattino, con quella nebbiolina tipica delle belle giornate dell’inverno milanese a favorire la vista (dell’eclissi). A occhio nudo e diretto, senza fastidiosi intermediari per vedere la luce del sole che si spenge. Poi mi dirigo verso il Laboratorio di Ricerche Elettroniche dell’Olivetti. Altro che un’officina o una piccola società commerciale.
Nel 1960 Milano, con la sua struttura urbana a cerchi concentrici, mi appariva anche dotata di una struttura sociale quasi elementare. Molto semplice. In questo contesto, la collocazione di un prestigioso Laboratorio in quella zona, di qualche chilometro esterna al grande centro dell’Eni di san Donato, sembrava un corpo estraneo, un’anomalia.
Non so perché Adriano Olivetti avesse scelto proprio Borgolombardo per installare un Laboratorio in cui continuare in termini industriali l’esperienza di ricerca cominciata qualche anno prima nei dintorni di Pisa. Forse la vicinanza alla via Emilia, forse l’edificio si prestava allo scopo e per altro Ivrea risultava troppo isolata per il progetto che aveva in mente. Di fatto, Adriano Olivetti scomparve solo un anno dopo la nascita del Laboratorio, all’inizio del 1960, lasciando come è noto “orfani” tutti i suoi dipendenti: negli anni seguenti si parlava ancora sottovoce, quasi con riluttanza, di lui e della sua improvvisa scomparsa.
Ma aveva lasciato i piani per un’espansione grandiosa. Al Laboratorio, parlavamo con orgoglio e un po’ di incredulità della nascita del futuro polo dell’elettronica italiana, al quale partecipavamo. Anzi, del quale eravamo gli artefici – un po’ di spavalderia non guasta. Effettivamente, alla fine del 1962, il Laboratorio verrà trasferito in una zona che lo stesso Adriano Olivetti aveva scelto con cura: vicino a Milano -la capitale industriale- ma anche facilmente raggiungibile da Ivrea, praticamente lungo l’autostrada Milano – Torino. Si favoleggiava di grattacieli i cui piani alti sarebbero stati occupati da noi, i programmatori, la nuova élite scientifica. Si dava per scontato un giardino e lo svincolo autostradale autonomo. Il progetto, si diceva, era addirittura firmato da Le Corbusier e l’ambiente e lo stile di lavoro e di vita sarebbero stati quelli ben noti di Adriano.
Non c’è da stupirsi: in fondo, la linea della macchina che si trovava al piano di sotto, il primo calcolatore interamente italiano per progetto e costruzione, con le unità di calcolo, gli ingombranti armadi delle periferiche a nastro e la console operativa non erano forse dovuti al più famoso dei designer italiani, Ettore Sottsass? Una bellezza.
Poi, com’è noto, l’elettronica italiana non è decollata –come si dice– e, al posto dei grattacieli di Le Corbusier, l’anno seguente il Laboratorio si trasferirà sì nella zona prevista, a Pregnana Milanese, vicino all’autostrada Milano – Torino, ma in due capannoni (uno open space, con dentro tutti, l’altro per la mensa).
Ma per ora rimaniamo nel 1961. Certamente, lo stile di lavoro che aveva reso famoso nel mondo Adriano Olivetti si percepiva ancora. Stipendi più alti della media del tempo, nessun cartellino da timbrare, ambiente luminoso, biblioteca, corsi di addestramento. Lo stipendio ad esempio: un neodiplomato entrava –questo lo ricordo bene perché si trattava del mio primo introito sistematico– con 76 mila lire nette (per le solite tredici mensilità). E a quel tempo, a parità di funzione, fuori da lì un diplomato esperto non superava certo le 60 mila lire. Una vera soddisfazione, tenuto conto anche del lavoro, di sicuro non ripetitivo o noioso, e degli aumenti annuali che potevano anche essere cospicui. Oppure si prenda l’orario, che anticipava di qualche decennio il cosiddetto orario flessibile. Permetteva a ciascuno di prendersi quella mezz’ora in più o in meno ed eventualmente di recuperarla a fine giornata o nel corso del mese. Compilando da solo, ogni giorno, un foglietto con l’ora di entrata e di uscita.
E poi eravamo tutti giovani e alle prese con un compito unico in Italia. Si può sentire questa specie di orgoglio anche se in realtà si svolge una mansione semplice all’interno del gruppo? Anche questo era lo stile Olivetti. I dirigenti avevano trenta/quaranta anni e il capo, Mario Tchou, con la sua aria orientale, sembrava il più giovane di tutti.
Di lui sapevamo che era figlio dell’ex ambasciatore della Cina imperiale presso il Vaticano, che aveva studiato in Italia per poi laurearsi in Ingegneria negli Stati Uniti e che, giovane brillantissimo, era stato fortemente voluto da Adriano Olivetti. La sua presenza, si diceva, era stata una condizione posta dal vecchio imprenditore – vecchio d’esperienza – per partecipare all’impresa elettronica. Tchou aveva personalmente selezionato ciascuno di noi e plasmato il gruppo – rifiutandosi solo di dare ascolto ai “raccomandati” che lasciava ad altri. Anche gli amministrativi, ci si domandava, passeranno sotto di lui? Altro non si sapeva o non si diceva, lasciando avvolto in un velo di doveroso mistero la figura del direttore, che si muoveva svelto nei corridoi e salutava tutti con un sorriso attraverso le tramezze di vetro. Stile Olivetti, in salsa cinese.
Ricordo il colloquio/selezione che mi fece, direi nel luglio del 1960, nella sede milanese dell’Olivetti (che allora era in via Clerici). Ricordo l’ambiente, la persona, ma non i particolari. Una stanza in penombra e la sua estrema gentilezza, la mia impressione che non gli interessasse affatto quello che avevo imparato e che sapevo, ma quello che potevo imparare a fare. Lo stupore di un colloquio così lungo, ma non pesante.
Ricordo qualche domanda: lei ha nel cavo della mano dieci sferette di acciaio, di quelle che si usano nei cuscinetti, ciascuna del diametro di un millimetro. Quanto pesano in tutto? Una valutazione senza fare conti. Credo di avere sbagliato clamorosamente –provate ora voi a rispondere d’istinto– ma, un attimo dopo la risposta, di avere impostato così velocemente il conto – volume della sfera, peso specifico eccetera, ecc.– da riuscire a correggere al volo la mia valutazione “spontanea”. E lui, l’orientale, sorrideva.
Di altre cose mi faceva discutere, piuttosto che imbarazzarmi con domande. Mi spiegò le classi di resti e mi chiese di fare qualche conto modulo n; mi spiegò il calcolo binario e mi chiese di rappresentare qualche numero. Non gli interessava proprio niente di quello che sapevo già. E di fatto, come scoprii in seguito, le persone che superavano la prova e con le quali ebbi contatto al Laboratorio erano tutte in qualche modo originali – direi speciali, se non ci fossi anch’io. Fra l’altro, non importava per niente che non avessero seguito un corso ufficiale di studio, oppure che l’avessero interrotto per qualche motivo.
E ricordo lo sgomento che prese tutti al Laboratorio quando arrivò la terribile notizia dell’incidente, nel novembre del 1961, la scomparsa di Tchou, a trentasette anni, e dell’autista, un ragazzo anche lui. Questa volta eravamo orfani davvero. Chissà quanto ha influito la sua scomparsa sulle vicende successive, amare se non grottesche, del Laboratorio?
Nello sbandamento e nell’incertezza emerse fra tutti il capo del software, Giorgio Sacerdoti, una figura attiva e serena, nonostante la personale menomazione dovuta alla poliomielite. Giorgio Sacerdoti è scomparso in questo 2005, pochi mesi fa. Anche se le nostre vicende scientifiche e di lavoro si sono divise pochi anni dopo, continuava a ricordarsi di me ed a salutarmi con simpatia nelle rare occasioni di incontro. E anch’io lo ricordo con affetto.
Sotto la sua direzione il gruppo continua a lavorare, a produrre le macchine Elea 9003 che vengono consegnate in pompa magna alle grandi imprese: Marzotto, la Fiat – a qualcosa come 500 milioni di lire, impensabile, fuori dalla nostra immaginazione – una macchina va a finire perfino al Ministero del Tesoro. Ed, allo stesso tempo, continua lo sviluppo della necessaria dotazione di programmi e dei primi compilatori – allora tutto il lavoro avveniva in “linguaggio macchina” – e prosegue la sperimentazione di nuove soluzioni per nuovi progetti. Fra gli altri, c’era in ballo quello della 6001, una macchina di calcolo scientifico che in seguito conoscerà buona fortuna di mercato, e di una più potente Elea 9004 alla cui “microprogrammazione” molti di noi lavoravano ma che, per quanto ne so, non arriverà mai neppure al prototipo.
Tutto avveniva lì, in quell’edificio a mattoni di Borgolombardo. In quanti eravamo? Nel 1961, credo che fossimo sui quattrocento.
La struttura dell’edificio era funzionale agli scopi diversi del Laboratorio: un palazzo a pianta quadrata, di due piani, con ampio accesso dalla strada al cortile interno. Al piano terreno la produzione, o almeno quella parte della produzione – l’unità centrale, la memoria – che era indipendente da Ivrea, dove si occupavano essenzialmente delle “periferiche”. Al primo piano la macchina, la mitica Elea 9003, familiarmente detta “Uno T” per distinguerla dal prototipo a valvole, la “Uno V” situata in via Clerici, e ricordare con la sigla che era completamente a transistor. Accanto, gli uffici della “manutenzione”, che interveniva la mattina perché quasi tutte le notti c’era un guasto e la macchina andava riparata “in proprio”. Al secondo piano i laboratori, divisi fra i cosiddetti “spelafili” che si occupavano dell’hardware, fieramente contrapposti ai “forabande”, coinvolti nel nascente campo del software, il cui appellativo era dovuto al fatto che la “banda perforata” era allora il principale sistema di input.
Ma allora non si usava certamente la terminologia americana: noi ci occupavamo semplicemente di “programmazione” e loro della “tecnica” e la distinzione era puramente operativa. Di fatto, ho il ricordo –più impressione che memoria– di grande amicizia, solo mascherata da un antagonismo di maniera. E nell’intervallo di pranzo, non più di un’ora, occupavamo insieme e in allegria le poche, e squallide, trattorie dei dintorni o ci spingevamo fino alla mensa dell’Eni.
Piuttosto, di un’altra distinzione ho un ricordo di fastidio: l’antipatica consuetudine, con rarissime eccezioni che destavano sorpresa, di rivolgersi con il tu soltanto all’interno della propria categoria. Così le tre fasce sociali che popolavano il Laboratorio –operai, diplomati e laureati– erano in questo di fatto separate dal muro della convenzione. Forse era solo una questione di tempi, anche se a volte questa pratica resiste ancora in certi ambienti.
Ma la solidarietà era grande. I colleghi, di tutte le estrazioni sociali e provenienti da tutte le parti d’Italia, dovevano abituarsi presto a vivere fuori casa. Con loro si restava in compagnia anche oltre l’orario di lavoro, la sera. E qualche volta, se uno di noi era in macchina di notte, a cercare di mettere a punto un programma, lo si andava a trovare, per compiangerlo scherzosamente, senza dimenticare di lasciargli qualche genere alimentare di conforto prima di andarsene.
Fra le persone che mi erano più vicine, ho il ricordo ancora vivo di un fantasioso romano, curioso del mondo e intellettualmente vivace, che accennava alle soluzioni più originali e ardite per i fondamentali problemi della vita che si dibattono da giovani. E di un aspirante filosofo, proveniente dalla provincia di Alessandria, il quale impostava con grande serietà le questioni per me più impensate e cercava di inquadrare tutto alla luce della speculazione teorica, imponendo il massimo rispetto per i grandi pensatori del passato. Immaginate un po’ se, fra i due, che dominavano nelle discussioni e nelle scelte, uno non si sentiva schiacciato come il famoso vaso di coccio. Una grande scuola pratica, in ogni caso. Con pochi altri sono tuttora in contatto da quegli anni. Uno è attualmente un collega all’Università di Lecce, la sua città di origine; un altro, grande e grosso, ci stupiva di continuo –e ci sorprende ancora oggi– con la curiosità e la vivacità senza limiti che, a sua detta, suscitando in questo l’ilarità dei numerosi torinesi, sono prerogative della provincia di Cuneo dalla quale proveniva. Di un terzo, ligure, posso solo dire che apparteneva al gruppo dei pensatori “puri”, quelli che nel Laboratorio venivano ammessi a discutere i problemi astratti del calcolo, delle macchine intelligenti e di quant’altro veniva percepito da noi, che pure lavoravamo nel settore, come una proiezione fantastica del mondo dell’elaborazione. Del tipo: in quanti milioni di anni una formica che riceve dal cosmo una sequenza di bit riuscirà a organizzarli? Oppure: cosa c’è nella conoscenza oltre l’associazione di segnali? (Niente, risponde lui, che ancora adesso continua ad occuparsi degli stessi problemi).
Ecco, al Laboratorio c’era anche questo. Non solo produzione e ricerca. L’ambiente forniva stimoli di continuo. Docenti di chiara fama venivano invitati a fare incomprensibili conferenze, matematici americani pubblicavano nella collana interna (non senza la sorpresa di scoprire, una volta, che si trattava di articoli copiati di sana pianta); a giovani, non ancora ventenni si chiedeva la propria opinione sui fondamentali problemi della conoscenza.
In quegli anni, l’elaborazione elettronica, o comunque automatica, era estranea non solo alla pratica, ma soprattutto alla mentalità delle persone. Forse solo i progettisti avevano sviluppato una sufficiente sensibilità sull’argomento e qualche dirigente illuminato ne aveva capito le potenzialità commerciali. Ma non tutti, come ben dimostreranno le vicende successive del Laboratorio, quando gli illuminati dirigenti faranno posto ad altri.
Per un giovane, l’occasione di imparare e cambiare mentalità era grande. Ricordo il corso di addestramento, di qualche mese, condotto da un personaggio singolare che in seguito ho imparato ad apprezzare. Un matematico: Delfino Insolera. Gli argomenti erano nuovi e strani: la logica degli and e degli or, il calcolo binario, il calcolo delle proposizioni e dei predicati, rappresentazioni con mappe e diagrammi, le funzioni, gli insiemi.
E ricordo bene in seguito la “scintilla”, si può ben dire, scaturita dall’intuizione – poi divenuta comprensione –di come negli enormi fogli del progetto logico della Elea 6001 non ci fossero solo simboli astratti che indicavano contatti elettrici. Meravigliosamente, quei contatti che eseguivano operazioni binarie elementari– apertura e chiusura di porte, selezioni di registri di memoria o contatori, immissione di segnali in opportuni flip-flop – presi opportunamente in successione davano luogo a risultati concreti, operazioni aritmetiche, ma anche trasferimenti di dati, salti di sequenze logiche sotto condizioni ben controllate… insomma a tutto quell’apparato che, con la coscienza di oggi sappiamo dar vita a un algoritmo, ma che allora faceva apparire come misterioso l’effetto dell’elaboratore. Ecco lì la logica delle proposizioni, ecco il calcolo binario e tutto il resto saggiamente e pazientemente messi in opera.
Ed a poco a poco ci si abituava a leggere le condizioni di funzionamento in quello strano linguaggio elementare: quello delle microistruzioni che consentivano di aggregare unità superiori, le istruzioni di macchina, non più binarie ma espresse in linguaggio esadecimale, che a loro volta si univano a formare programmi, fra cui macroistruzioni e compilatori, che tendevano ad avvicinarsi al nostro linguaggio naturale.
L’Elea era quasi un compagno di lavoro. Quella del piano di sotto, la Uno T, ma anche la più ingombrante Uno V, alla quale si accedeva spesso e che riempiva un’enorme stanza al piano terreno di via Clerici. Il lavoro in macchina si svolgeva come insieme ad un collega. Ormai si era in grado di leggere controluce nei buchi delle bande perforate la successione dei caratteri esadecimali da immettere, si rimaneva affascinati delle luci della console che baluginavano veloci durante l’elaborazione, cercando di interpretare la configurazione di simboli dello stato finale come una risposta amichevole. Anche se spesso la risposta diceva che il nostro programma non andava bene, che ciclava implacabilmente, senza fine – e le luci della console vibravano velocemente – oppure si attestava su posizioni assurde. Qualche volta la macchina rivelava la propria sofferenza: un guasto, da segnalare nel registro per la manutenzione.
Un rapporto quasi normale, come con un vecchio amico, che però faceva 100 mila operazioni elementari al secondo, riusciva a immagazzinare 20 mila caratteri nella propria memoria a nuclei di ferrite – così bella a vedersi – e, se le si dava tempo, era capace di tirar fuori una quantità enorme di informazioni dai propri nastri magnetici, che si svolgevano e riavvolgevano più lentamente, con un ritmo indecifrabile, avanti e indietro, come in certi film di fantascienza. Ma, diciamo francamente quello che si pensava: chi potrà mai aver bisogno davvero di una memoria veloce con più di 20 mila caratteri? E dei milioni di informazioni che stanno in un disco?
Alla fine del ‘63, questo periodo “eroico” doveva scomparire oppure cambiare radicalmente con il nuovo assetto societario e la routine. Tutto si normalizza con il tempo. L’esperienza si era conclusa. Se non è risultata soddisfacente per qualcuno dal punto di vista professionale, per tutti è stata senz’altro un’esperienza esaltante di vita.