Si discute molto di Latino, poco di Matematica

Tratto dal volume PRISTEM/Storia n. 32-33 tutto dedicato al cinquantesimo anniversario della riforma della scuola media inferiore (1962-2012), pubblichiamo il saggio di Angelo Guerraggio che ricostruisce il dibattito politico intorno alla Riforma.

 

1. La riforma che ha condotto all’istituzione della scuola media unica, con il provvedimento legislativo del 31.12.1962 e l’avvio dei nuovi corsi nel successivo anno scolastico, ha una lunga storia. Tristano Codignola – uno dei “padri” della riforma – parla di guerra dei trent’anni ma in realtà il periodo da prendere in considerazione è ancora più lungo.

Ha inizio addirittura con la legge Casati del 1859 che di scuola media, unica o meno, neanche parla ma fa da sfondo ai primi interventi che la propongono come riforma quanto mai opportuna. La grande inchiesta del 1862 sulla situazione dell’istruzione nel nostro Paese porta a una relazione finale che, affidata per l’istruzione secondaria a Giovanni Maria Bertini, membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, già avanza la proposta di una scuola media unica gratuita e senza lo studio del Latino per dare alle famiglie la possibilità di rinviare di qualche anno il momento della scelta praticamente irreversibile del corso di studi per i propri figli, che graverà poi su tutto il loro futuro. La stessa indicazione si trova negli anni ’70 nei progetti di riforma, rimasti comunque sulla carta, dei ministri Correnti e Coppino. Riemergerà ogniqualvolta si parlerà di scuola in termini di inchieste, progetti o commissioni parlamentari per la ristrutturazione del nostro sistema educativo.

Ad una scuola media unica si riferisce il ministro Leonardo Bianchi quando nel 1905 insedia, sulla base di un’analoga esperienza francese, la Commissione reale per un’indagine conoscitiva sulla scuola secondaria. La proposta non piace a tutti e, tra gli oppositori, troviamo una figura come quella di Gaetano Salvemini. Le motivazioni di “monisti” e “pluralisti” spaccano trasversalmente le diverse parti politiche e culturali.

I monisti sono in generale animati da una visione progressista della società: non accettano una separazione netta e statica tra la cultura umanistica e quella tecnico-scientifica, con l’implicito riconoscimento della superiorità della prima, e neppure accettano che la scuola contribuisca attraverso l’esasperazione delle sue articolazioni a sancire una divisione tra classi sociali che non preveda opportuni “ascensori” dall’una all’altra. I pluralisti temono invece tutte le riforme che mettono in discussione due capisaldi: il ruolo di quella letteraria-filosofica come unica vera cultura e il principio che non tutti sono nati per studiare. I loro esponenti più democratici – Salvemini, ad esempio – sviluppano quest’ultima argomentazione in modo meno sbrigativo: non possiamo nasconderci, sostengono, che la società sia divisa in classi ma lo sforzo per ridurre lo scarto che tra loro esiste non sarà certo coronato da successo se si procede con riforme radicali e “fughe in avanti” che rischiano di creare solo false illusioni e successive delusioni tra i ceti popolari, quando si accorgeranno che la scuola è troppo lontana dalla loro realtà e non dà loro gli auspicati vantaggi in termini occupazionali.

Il progetto di una media unica diventa concreto solo nel 1939 con Giuseppe Bottai, tristemente noto per il particolare zelo esibito nelle persecuzioni anti-ebraiche. Di mezzo c’era stata la presa del potere da parte di Mussolini e in particolare, per quanto riguarda la scuola, la riforma Gentile che aveva introdotto ufficialmente l’espressione scuola media e ribadito la precoce canalizzazione dei ragazzi: dopo cinque anni di scuola elementare si doveva scegliere tra istruzione classica e istruzione tecnica, con l’ulteriore possibilità dei tre anni della cosiddetta scuola complementare priva di ulteriori sbocchi se non quelli lavorativi. La Carta della Scuola di Bottai si pone l’obiettivo di riformare in modo organico il quadro predisposto da Gentile e prevede tra l’altro una media unica, con il Latino, per tutti i ragazzi che intendono poi proseguire gli studi nei Licei o negli Istituti tecnici. Promulgata nel ’40, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, la scuola media unica di Bottai rimane però anch’essa sulla carta.

Nell’immediato dopoguerra, il Paese sembra avere problemi più urgenti da superare e l’attenzione alla riforma del sistema scolastico e alla creazione di una media unica fatica a superare i confini del dibattito culturale. Sortite come quelle di Piero Calmandrei, che nel 1950 cerca di richiamare l’attenzione del Paese sull’importanza della scuola, rimangono una rara avis. Non sortisce grandi effetti neppure la “Commissione nazionale d’inchiesta per la riforma della scuola pubblica” nominata nel ’46 dal ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella. L’esponente democristiano rimarrà titolare del dicastero fino al ’51 e dall’inchiesta da lui promossa scaturirà nell’agosto del ’49 un progetto di riforma che prevede una scuola media suddivisa in tre orientamenti (classico, normale, tecnico) in ossequio al principio a tutti la scuola, ad ognuno la sua scuola. Nulla però si concretizzerà perché nel frattempo, durante il periodo del dicastero Gonella, cambia radicalmente il quadro politico: si rompe il clima di solidarietà nazionale dei primissimi anni del dopoguerra, le forze di sinistra scelgono di non inserire un chiaro disegno riformatore tra le loro priorità e lo stesso Gonella si mostra sempre più sensibile nei confronti delle sirene di chi ritiene di doversi anzitutto battere contro il monopolio dello Stato nel sistema educativo.

Piuttosto, è da notare come la discussione attorno a certi temi continui ad attraversare trasversalmente i vari schieramenti ideologici. È il caso dell’insegnamento del Latino e della sua eventuale soppressione in una nuova scuola media più democratica e più vicina alle esigenze popolari. Su Rinascita, settimanale politico-culturale del Partito Comunista Italiano, l’insigne latinista Concetto Marchesi sostiene che non c’è alcun nesso tra la presenza del Latino e il conclamato carattere di classe dell’apparato scolastico ereditato dal fascismo; anzi, l’insegnamento di quella che alcuni si ostinano a considerare solo una “lingua morta” darebbe a tutti – figli del popolo o delle classi più agiate – una maggiore padronanza dei propri ragionamenti e del modo di esprimerli. Sulle colonne della stessa rivista, questa posizione viene avversata dal matematico Lucio Lombardo Radice che si pronuncia per l’abolizione del Latino e il rafforzamento invece dell’asse scientifico-tecnologico. Nel dibattito le motivazioni “di sinistra”, che premono per una scuola più democratica che veda sui banchi anche i figli di operai e contadini, si trovano a spingere nella stessa direzione delle richieste che potremmo definire “modernizzanti” e che chiedono che i contributi dell’insegnamento si adeguino a un mondo che è cambiato ed esige la conoscenza di nuovi strumenti per poter essere capito (e magari modificato).

 

2. La svolta e l’irreversibile accelerazione verso la riforma avvengono negli anni del boom economico e dell’incubazione del centro-sinistra. Ci sono i soldi, risorse da spendere e da investire, in misura impensabile solo 10-15 anni prima; si comincia a parlare dell’ingresso dei socialisti nell’area governativa. È l’Italia che raddoppia il proprio reddito nazionale netto e che quasi dimezza il numero degli occupati in agricoltura. È l’Italia del frigorifero e della lavatrice nelle case, della Lambretta e della Seicento, di un’emigrazione di massa che già nella seconda metà degli anni ’40 aveva portato un milione (!) di italiani a lasciare le loro abitazioni per trasferirsi dal Sud (oltre che dal Veneto) nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova; un altro milione di “compaesani” li raggiungerà negli anni ’50. Ancora all’inizio del decennio successivo, su Scuola e Didattica troviamo nelle parole di un preside di una scuola media una descrizione di un paese della provincia di Taranto – Monteiasi – che non ha bisogno di ulteriori commenti: “Bassissimo è il tenore di vita degli abitanti: molti dei quali sono analfabeti. Solo in qualche casa si trova l’acqua corrente, mentre la grandissima maggioranza della popolazione fa uso di acqua piovana o di quella distribuita dalle fontane dislocate nella pubblica via (…) va sottolineato, poi, che in cento anni d’unità nazionale, nel campo delle professioni, Monteiasi ha dato alla società un medico, un ingegnere, due ragionieri, un geometra e cinque insegnanti elementari”.

Le parole del preside della scuola media di Monteiasi raccontano con grande dignità la situazione di arretratezza da cui vaste aree del Mezzogiorno non sembrano in grado di uscire. Nel suo complesso, con grandi squilibri, la società italiana sta però cambiando rapidamente. Personalità quali quelle di Adriano Olivetti, Enrico Mattei, Felice Ippolito, Giulio Natta – manager e uomini di scienza – fanno sperare in un futuro dove competenze scientifiche e audaci abilità gestionali riusciranno a incontrarsi, approfittando delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, per disegnare un solido progresso sociale ed economico. Film come “La dolce vita” (1960) e “Il sorpasso” (1962) registrano e accelerano il cambiamento dei costumi. Lo stesso mondo cattolico vive una primavera quanto mai vivace. Il pronunciamento del Sant’Uffizio, che nel ’59 aveva confermato la scomunica per i comunisti estendendola ai socialisti e a tutti quanti favorivano l’affermazione di un’ideologia atea, sembra quanto mai lontano quando tre anni dopo si apre il Concilio Vaticano II. L’enciclica Mater et Magistra è del ’62 e dell’anno successivo è la Pacem in Terris con l’appello agli uomini di buona volontà. Ecco l’affresco degli anni del “miracolo economico” ad opera di uno storico del centro-sinistra: “Il lungo boom ha mutato in profondità le strutture produttive, il volto delle città, la vita dei campi, i gusti e le esigenze di grandi masse di concittadini. Milioni di persone si trasferiscono da una zona all’altra, interi paesi si spopolano, le grandi città si gonfiano di immigrati e si dilatano a macchia d’olio. Milioni di cittadini cambiano mestiere, milioni di lavoratori, specie lavoratrici, entrano nel circuito produttivo, centinaia di migliaia di ragazzi possono andare a scuola o proseguire gli studi. Mutano qualitativamente i consumi di beni alimentari (meno cereali e più carne), e aumentano enormemente i consumi di beni durevoli” (G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Feltrinelli, Milano, 1971).

Da un punto di vista politico, è in due congressi dei partiti maggiormente interessati all’operazione che si cominciano a ravvisare i segnali del percorso che porterà all’esperienza del centro-sinistra: nel ’54, il Congresso di Napoli della DC vede il tramonto di De Gasperi e le prime aperture ai socialisti da parte di Gronchi (futuro Presidente della Repubblica); nel ’57 il Congresso di Venezia del PSI approva la svolta di Nenni che intende liberare il partito dal “soffocante” abbraccio con il PCI per ridargli piena autonomia nelle sue scelte strategiche.

Negli anni ’50 cambia anche la scuola, almeno nei suoi numeri. In un decennio, gli allievi della scuola media e dell’avviamento professionale passano dai 500.000 del ’47 ai 900.000 del ’55 e al milione e seicentomila del ’62 all’immediata vigilia della riforma della scuola media. I licenziati dalla scuola elementare che si iscrivono ai tre anni successivi, sempre nel ’62, raggiungono la percentuale del 78%. Cambia pure l’atteggiamento del maggior partito di opposizione. Il PCI apre una “commissione scuola”, all’interno di quella dedicata ai problemi della cultura, con una diversa attenzione che non sarà certo estranea alla nascita di una rivista quale Riforma della scuola, impegnata sullo specifico terreno scolastico. Nella riflessione del PCI, accanto ai temi più in linea con la tradizione di un partito proletario, quali la denuncia dell’analfabetismo e della disoccupazione cui andavano incontro alte percentuali di chi pure aveva terminato le scuole elementari, si inserisce una certa sensibilità verso la fascia medio-alta del sistema scolastico, il suo rinnovamento e la sua adeguatezza alle esigenze produttive del Paese. L’apertura del MEC (“Mercato Comune Europeo”) nel ’57-’58 avvia il confronto con le altre nazioni dell’Europa occidentale e favorisce la diffusione delle problematiche relative all’efficienza del sistema scolastico.

Dicevamo dei congressi della DC e del PSI in cui si leggono i primi segnali della futura esperienza del centro-sinistra. La formula parlamentare che vede l’ingresso dei socialisti nell’area governativa comincia a prendere forma nel luglio ’60, dopo i gravi fatti di Genova e la caduta del governo di centro-destra di Tambroni, con l’incarico ad Amintore Fanfani che costituisce il governo delle convergenze parallele con l’astensione dei socialisti. Il successivo governo Fanfani del febbraio ’62 si sposta più a sinistra, conservando l’astensione dei socialisti e incassando una diversa opposizione del PCI. A maggio, il ministro del bilancio Ugo La Malfa presenta la Nota sulla situazione economica del Paese che contiene la “filosofia” del centro-sinistra; a giugno il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge di nazionalizzazione dell’industria elettrica che rappresenterà, assieme a quello della scuola media unica, la riforma più importante operata dal centro-sinistra. Il primo governo organico ispirato a questa formula, con la presenza di 5 ministri socialisti, presieduto da Aldo Moro, è del dicembre ’63 dopo mesi di forti tensioni politiche e istituzionali seguite alle elezioni del 28 aprile. La definizione organica del progetto coincide quasi paradossalmente con l’esaurimento della sua fase più propulsiva. Presto arriveranno le dimissioni del governo Moro, mesi di convulse trattative, il “tintinnio di sciabole” legato a conati di colpi di Stato, la contestazione del ’68. Tanto rumore per nulla (o quasi), si potrebbe dire. Non bisogna comunque dimenticare che il centro-sinistra ha rappresentato una delle formule di governo più incisive dell’Italia unita, preceduta da un dibattito di notevole dignità culturale e progettata con una lungimiranza che non avrà molti altri esempi nelle successive vicende politiche della Repubblica.

Per quanto riguarda la scuola, la storia che porta all’introduzione della media unica si apre con il cosiddetto Piano Fanfani, il “Piano per lo sviluppo della scuola nel decennio dal 1959 al 1969”, presentato al Senato nel settembre ’58 e in precedenza al Consiglio dei ministri con parole cui non mancava certo un’adeguata enfasi: “Si tratta certamente dello sforzo più imponente che, dalla Liberazione in poi, è proposto al popolo italiano per il suo pieno sviluppo (…). Il Governo intende (…) mettere le Camere in condizione di procedere a determinazioni di importanza trascendente per le giovani generazioni e per l’avvenire della democrazia e della Nazione italiana”. Il Piano prevede investimenti massicci, borse di studio e varie agevolazioni per gli studenti e le famiglie economicamente più deboli, ma non riesce a decollare. Nonostante il suo aspetto modernizzante e le dichiarate intenzioni di venire incontro alle esigenze dei ceti popolari, a sinistra non piace. Ne viene criticata la struttura costituita da una serie di stanziamenti del tutto scollegati rispetto a un’organica riforma della scuola. Lucio Lombardo Radice se la prende con gli aspetti più aziendalistici e dichiara l’opposizione del PCI alla “scuola officina”; Tristano Codignola – che dal ’59 al ’76 sarà responsabile del settore scuola del PSI – conia l’efficace immagine di spese senza riforma, un progetto di investimenti che non ha alle spalle alcuna idea di riforma. Il ritiro del Piano decennale sarà una delle prime richieste avanzate dai socialisti per continuare il dialogo con la DC; il Piano sarà allora sostituito da un più modesto stralcio triennale consistente nell’aggiunta ai bilanci ordinari della Pubblica Istruzione, negli esercizi finanziari dal ’62 al ’65, di circa 430 miliardi di lire.

La seconda tappa della marcia di avvicinamento alla riforma è costituita dalla proposta comunista “Donini-Luporini”, dai nomi dei primi due senatori firmatari del disegno di legge presentato all’inizio del ’59. La proposta si muove nell’ottica di dare piena attuazione agli articoli 33 e 34 della Costituzione in tema di scuola pubblica e libertà di insegnamento e prevede in particolare l’istruzione obbligatoria fino ai 14 anni di età da realizzarsi attraverso i cinque anni delle elementari e i tre anni di una scuola media unica senza Latino. L’unità e l’organicità dell’istruzione, che deve fornire una scala ascendente di valori culturali dalla prima classe elementare alla terza classe della scuola media, sono viste come condizione essenziale per superare la tradizionale divisione classista della scuola di base, che finora aveva avuto il suo asse nella vecchia concezione di un umanesimo affidato soprattutto allo studio formale delle civiltà classiche. I diversi centri di interesse (storico-letterario, scientifico, artistico) troveranno invece equilibrio e saldatura nella comune ispirazione culturale e nel comune indirizzo pedagogico. La comprensione dello sviluppo storico della società, della cultura, della scienza da una parte e il riconoscimento del valore e della dignità del lavoro dell’uomo, dall’altra, saranno alla base di tutto l’insegnamento. Tra le maggiori perplessità suscitate dalla presentazione del disegno di legge c’è quella dell’abbassamento del livello degli studi, che sembrerebbe un’inevitabile conseguenza dell’apertura della scuola a nuovi ceti popolari. Su Rinascita, Dina Bertoni Jovine cerca di rassicurare chi teme un decadimento della scuola: “La cultura che quel programma propone per la scuola unica non è certamente di livello inferiore a quella della tradizionale scuola media: l’impegno che essa esige dagli insegnanti e dagli alunni è tale da garantire tutte le condizioni per un reale sviluppo culturale. A parte la consistenza dei programmi, si è detto che la trasformazione della scuola media inferiore da scuola di élite a scuola di massa, con l’ingresso di ragazzi appartenenti a famiglie prive di tradizioni di studio, porterà ad un livellamento nel quale saranno sacrificati i più dotati. Questa affermazione, che si ripete ad orecchio tutte le volte che si tenta di aprire un varco un poco più largo alla cultura del popolo, risente di superate concezioni aristocratiche della cultura e di principi psicologici antiquati (…). È anche vero che i doni dell’intelligenza non sono distribuiti a seconda dei ceti sociali; e che se l’intelligenza trova possibilità di sviluppo in tradizioni culturali familiari è da ritenere urgente che una tradizione di cultura debba iniziarsi, in un qualche momento della nostra storia, anche nelle famiglie più umili, per allargare la leva delle forze intellettuali e delle capacità. Basteranno due generazioni perché il costume del linguaggio più colto, il gusto di interessi più raffinati si formi in quelle categorie che sono state fino ad oggi estromesse dalla vita intellettuale”.

L’iniziativa comunista non avrà seguito ma ha l’indubbio merito di smuovere le acque, con l’innovativa articolazione culturale giocata sul rapporto tra storia e discipline scientifiche, e di costringere il partito di maggioranza ad uscire allo scoperto con una sua proposta che coinvolga anche i contenuti dell’insegnamento. La risposta della DC è affidata nel ’60 ad una proposta presentata dal Sen. Medici che regge il dicastero della Pubblica Istruzione nel gabinetto Segni. Nel suo disegno di legge, che segue da vicino le conclusioni a cui era pervenuta la Confindustria nel Convegno di Gardone dell’aprile ’59, la scuola media non è unica ma unitaria: a partire dal secondo anno, i ragazzi possono scegliere tra tre diversi indirizzi caratterizzati rispettivamente dal Latino, dalle Osservazioni scientifiche e le Applicazioni tecniche, dalle Attività artistiche; in ogni modo, chi non sceglie il Latino non potrà iscriversi all’Università. Comincia a questo punto, con la discussione di questa proposta e del primo timido passo in avanti che consente di intravvedere, la lunga e faticosa volata che porterà alla riforma e all’introduzione della scuola media unica.

L’opposizione dei socialisti – siamo di fatto agli esordi del centro-sinistra – suggerisce alla DC di avanzare nel ’61 una proposta più aperta che porta il nome del Sen. Giacinto Bosco; gli insegnamenti del Latino e delle Osservazioni scientifiche/Applicazioni tecniche non sono più in alternativa perché l’opzione riguarderebbe invece Latino e Lingua straniera. Nella primavera del ’62, il nuovo ministro Luigi Gui torna però ai contenuti del disegno di legge Medici. È il momento più duro dello scontro tra Gui e Codignola, in rappresentanza di DC e PSI. L’arrivo dell’estate è quanto mai opportuno: se ne riparlerà a settembre.

Il problema su cui ci si accapiglia è il Latino e la cosa non meraviglia, considerate le salde radici di tale questione nella storia scolastica italiana. Nei circoli più conservatori – culturali, religiosi, economici – quella del Latino sembra la difesa del Piave, l’ultimo baluardo che non si può abbandonare pena il crollo di tutto un sistema di valori. In questa difesa ad oltranza si distingue il Corriere della Sera. Anche dopo l’approvazione della legge, il quotidiano milanese continuerà a usare toni allarmistici e catastrofici: l’accordo rappresenterebbe un pericoloso salto nel buio e provocherebbe nel nostro sistema scolastico l’appiattimento verso il basso, scontando tra l’altro la mancanza di adeguati libri di testo e l’impreparazione degli insegnanti a svolgere i nuovi programmi. È comunque soprattutto nel ’62, mentre la discussione parlamentare registra i suoi toni più accesi, che la posizione del Corriere della Sera si fa più netta. Nell’editoriale del 14 settembre, Panfilo Gentile scrive: “La lunga e poco edificante storia del disegno di legge sulla scuola dell’obbligo sembra quasi una gara offerta alla nostra classe politica per dare prove sconcertanti del suo disorientamento (…). Dicono i socialisti che la presenza del latino come materia facoltativa creerà, inevitabilmente, una discriminazione classista tra i ragazzi (…). Questa critica socialista, nonostante che denunzi un inconveniente effettivo, è priva di logica (…). Evitata la discriminazione classista nei tre anni della scuola d’obbligo, essa si ripresenterà inesorabilmente quando si tratterà di accedere al corso ulteriore degli studi”. Il 28 settembre l’articolo che rende conto dei lavori parlamentari e dell’accordo che faticosamente si sta cercando parla di “scuola comunista”, di “carrozzone” e di una scuola media in cui il Latino sarà solo un intruso. Il titolo dell’analogo articolo del 30 ottobre suona quasi come una chiamata alle armi: “In difesa del latino riunioni in tutta Italia”.

Il clima che si respira nel dibattito tra le forze politiche non è molto più rilassato. Tra le “carte-Codignola”, conservate a Firenze presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, figura una relazione (inedita) che lo stesso esponente socialista aveva steso come un appunto personale sullo stato dei lavori nell’estate ’62, forse in preparazione di una lettera. Porta la data del 6 agosto. La pubblichiamo integralmente, nonostante la sua lunghezza, perché getta una luce molto chiara sull’asprezza del confronto.

Una decina di giorni fa, alla vigilia dell’inizio della discussione della “media” al Senato, convocazione improvvisa al Ministero: presenti, oltre me, Orlandi (PSDI), Tramarollo (PRI) e per la DC Gui, Scaglia e Macrì. Il Ministro annuncia che, conformemente all’impegno di governo, si appresta a presentare adeguati emendamenti al disegno di legge e conta sul nostro appoggio. I due laici se la fanno addosso. Io faccio presente che il PSI ha fatto, nei discorsi di Nenni e nelle trattative, ampia riserva sulla “particolare disciplina del latino”; comunque, è disposto a vedere gli emendamenti, che non accetta a scatola chiusa. Gui assicura che sono buoni buoni, ce li ha con sé, ma dice che li vedremo ormai stampati. Gli rispondo che vedrà stampati anche i nostri. Disgustata sorpresa generale: dicono che noi avremmo detto che si era d’accordo: solo “per conoscenza” Gui gradirebbe leggere i nostri. Replico che volentieri glieli manderò, ma purtroppo ne ho una copia sola…

Si accende la discussione: Scaglia difende con passione il latino come centro dell’humanitas; aggiunge con singolare calore – sostenuto da Macrì – che l’unico modo di trovare ancora insegnanti è quello di iniziare la loro carriera ad anni 11 e preannuncia una meravigliosa scoperta: per evitare ogni discriminazione, si farà in modo in avvenire che il liceo-ginnasio immetta solo a lettere, e lo scientifico a tutte le altre facoltà: così, ogni ragazzo potrà arrivare dove vuole solo attraverso lo scientifico,mentre i cultori delle lettere classiche, coloro che avranno scelto la missione dell’insegnamento ad anni 11, andranno diritti come fusi fino alla laurea in lettere. Cerco di trattenermi. Scaglia, alla mia subordinata sulla linea Visalberghi (latino per tutti in terza), contrappone un sistema ad incastro, per cui a 13 anni i ragazzi potrebbero finire la scuola media, ovvero frequentare il 1° anno di un liceo ginnasio su 9 anziché 8 anni. A questo punto, vedo che anche Tramarollo comincia a prendere coraggio. Io invece perdo la pazienza, e dico che ci rivedremo in Aula. Ci lasciamo così. Al Senato, Gui esprime tutta la sua preoccupazione ai nostri per la diabolica intenzione socialista di contrapporre al governo propri emendamenti. Alla osservazione di Caleffi che forse si potrebbe preventivamente discutere, Gui fa capire di non essere ostinato sui suoi, ma che la trattativa si farà meglio in commissione se non ci sono nostri emendamenti. Decidiamo di presentarli immediatamente ed essi vengono stampati contemporaneamente a quelli governativi e comunisti. Questi ultimi impazzano perché non si discute subito e non capiscono affatto che solo con un po’ di tempo davanti è possibile avviare una trattativa seria.

Gli emendamenti Gui fanno schifo. È un ritorno a Medici. Tre materie opzionali, anche se facoltative, che decidono tutto in seconda; un accenno evidente anche al mantenimento della post-elementare; un equivoco pericoloso fra scuola pubblica e privata; tutta l’assistenza addossata ai Patronati: un progetto pessimo. Ne preparo faticosamente una tavola sinottica (testo Commis – governo – PSI) da trasmettere subito a tutti voi. La Pace, tornata dalle ferie, esclude di poter fare un lavoro del genere, perché fa caldo. Lo faccio io con l’Angela ed affido alla Pace solo la copiatura sulle cere. Può darsi che oggi il documento parta. È importante, perché su di esso intendo convocare la nostra Giunta nazionale.

Al partito e al gruppo sono tutti pazzi per l’elettrica e per il caldo: parlare di scuola appare provocatorio. Se Dio vuole, c’è una buona occasione: il sig. Presidente chiede la designazione di un nostro deputato per la Commissione d’indagine. Faccio sapere a Ferri che, data l’incertezza della situazione e dell’atteggiamento del partito, preferisco non farne parte: designamo collettivamente Franco. La cosa appare strana.

 Gui parla alla TV. Preparo per l’Avanti alcune domande, ma vengono tutte bruciate da altri giornalisti. Alcune dichiarazioni sono gravi. Ci riuniamo fra deputati della VIII e decidiamo di promuovere un passo presso Nenni, per fargli sapere che non c’è solo quel rompiscatole di Codignola a respingere questa politica. De Martino cade dalle nuvole, non sapeva che le cose andassero male, suggerisce il nome di Sansone per la commissione d’inchiesta (!?). Nenni si mostra più preoccupato.

Decido due iniziative giornalistiche: un fondo sull’Avanti (che avrai veduto) e una paginona dedicata ai problemi più scottanti della scuola (dovrebbe uscire domani). Nonostante i 37 gradi, Santoni, Franco, la Gorda ed io stendiamo i vari pezzi. È una circostanziata requisitoria in difesa di una svolta democratica per media, materna, stati giuridici, università calabrese.

Improvvisamente, venerdì, De Martino mi telefona di aver preso contatto con la Presidenza per un incontro nostro con Fanfani,Moro e Gui. Su che cosa ? gli chiedo. Su tutto, mi risponde. Pare che andremo solo De Martino ed io. Domattina, con Santoni e Franco, gli andremo a dire che occorre tener duro, non fare concessioni inutili, e soprattutto non dimostrare che l’unico a rompere le scatole nel partito su queste cose è Codignola, se no siamo fritti.

Questo è tutto: molto come vedi, sufficiente per rovinarmi definitivamente le vacanze. Ho la vaga impressione che il tentativo sarà quello di mettere tutto sul tavolo e di dare qualcosa per ottenere altro (forse la scuola materna?). Non sarà facile. Ma per lo meno qualche cosa si sbloccherà. Qual è il tuo parere circa l’opportunità d’una mia partecipazione alla Commissione d’indagine? Notare che dovrò seguire molto da vicino gli adempimenti programmatici, che mi porterà via tutto il tempo. D’altra parte, anche in Commissione bisognerà essere guardinghi.

Su di me, puoi contare. Ma sul partito? Questo è il grande enigma. Fino a quando riusciremo in pochi, e con peso politico scarso, a mandare avanti questa difficile battaglia? Qualche volta, c’è da sentirsi angosciati; in altri momenti, ci si ricarica, nonostante il caldo.

Il compromesso matura in autunno complici – come dirà il ministro Gui alla Camera dei Deputati in occasione della votazione finale – l’urgenza di dare il via ai successivi adempimenti amministrativi da parte degli organi del Ministero (se si voleva che la legge entrasse effettivamente in vigore con l’anno scolastico ’63-’64) e la necessità di non ritardare oltre una tale scadenza, visto che circa 300 classi di scuola media stavano ultimando la loro sperimentazione e arrivando al compimento del terzo anno: “cosicché o la nuova disciplina interviene entro breve termine di tempo, o sarà ben presto inutile che i colleghi si preoccupino delle sorti del latino. Il fatto compiuto dell’accesso alle scuole medie superiori di secondo grado di qualunque tipo, senza lo studio preliminare o l’esame di latino, sarà realizzato indipendentemente dalle nostre polemiche, ed il nodo gordiano sarà presto tagliato”.

Arriviamo così a quello che i suoi detrattori hanno chiamato il pasticciaccio, frutto di un lungo e faticoso compromesso che comunque rimane una delle riforme più gravide di conseguenze per i futuri assetti della nostra società, una delle pagine migliori scritte finora dalla Repubblica italiana. In un discorso pronunciato in occasione dell’apertura del primo anno scolastico della nuova scuola media, il ministro Gui non parlerà naturalmente di pasticciaccio ma le sue parole lasciano lo stesso trasparire la fatica costata per arrivare all’accordo finale: “È noto il travaglio, starei per dire la tormentata gestazione, attraverso cui si è venuta realizzando la trasformazione dell’ordinamento scolastico”. Per i socialisti la conclusione dell’iter parlamentare rappresenta il riconoscimento dello sforzo riformatore messo in campo in tema di politica scolastica. Lo stesso impegno porterà poco dopo all’istituzione di una Commissione di indagine sulla scuola italiana, formata da parlamentari e tecnici e suddivisa in otto gruppi di studio, che opererà tra il ’62 e il ’63 concludendo i suoi lavori con una lunga relazione contenuta in due ponderosi tomi.

La legge che istituisce la nuova scuola media unica viene approvata in via definitiva dai deputati il 31 dicembre 1962, dopo che i senatori avevano adottato analogo provvedimento legislativo il 2 ottobre. I suoi caratteri principali sono l’obbligatorietà e la gratuità. La fisionomia è data da un piano di studi che comprende gli insegnamenti di Religione, Italiano, Storia ed Educazione civica, Geografia, Matematica, Osservazione ed Elementi di Scienze naturali, Lingua straniera, Educazione artistica, Educazione fisica. In prima, sono obbligatorie anche le Applicazioni tecniche e l’Educazione musicale che diventano poi facoltative. Nella seconda classe, l’insegnamento dell’Italiano è integrato da elementari conoscenze di Latino per dare all’alunno una prima idea delle affinità e delle differenze tra le due lingue; come materia autonoma, ma facoltativa, l’insegnamento del Latino ha inizio solo in terza. È quello che i suoi critici chiamano ironicamente compromesso “partorito dalla democrazia, ma da una democrazia che parrebbe divenuta la caricatura di se stessa. (…) verrebbe fatto di paragonare l’accaduto a una disputa fra due medici, ciascuno dei quali sostenesse una diagnosi diversa e proponesse una cura diversa: immaginiamo che per contentare i due medici si applichi una parte di ambedue le cure, anche se queste cure combinate siano tali da avvelenare il malato” (A. La Penna, “Le forche latine”, Belfagor, 1962).

Nasce con questa legge, per il nostro Paese, la scolarizzazione di massa non più temuta o sopportata. La scuola media cambia la sua funzione e, da anello essenziale per la selezione della classe dirigente e dei quadri intermedi, si trasforma in strumento di orientamento. Dopo i suoi tre anni, gli studenti possono proseguire gli studi in ogni direzione (anche se inizialmente era previsto un esame obbligatorio di Latino per chi avesse voluto iscriversi al Liceo classico). In una forma assolutamente non perfetta – il “pasticciaccio” di cui parlano i critici – la legge del ’62 realizza compiutamente il dettato costituzionale che voleva un’istruzione obbligatoria e gratuita, impartita per almeno otto anni a tutti i cittadini italiani. Fornisce ai settori produttivi un’estesa e più qualificata manodopera, con un tassello essenziale per colmare il ritardo della nostra capacità competitiva rispetto a tutti gli altri Paesi industrializzati.

Assorbe la nuova coscienza sociale che non riesce più ad accettare la precoce bipartizione, a 11 anni, tra i ragazzi destinati al lavoro e quelli che invece continueranno gli studi. Introduce nel Paese una maggiore giustizia sociale, con otto anni di scuola pubblica che dovrebbero servire a individuare i “veri” meritevoli attenuando privilegi e graduatorie basati invece sul censo e la provenienza familiare.


3. Come abbiamo visto ricostruendo le principali fasi delle discussioni che hanno portato alla riforma, la questione del Latino monopolizza il dibattito. Oggi, a distanza di 50 anni, questa centralità sembra francamente esagerata. Da mezzo secolo viviamo senza l’insegnamento di tale lingua nella scuola media e non sembra che la sua abolizione abbia procurato danni gravi e irreparabili alla nostra società. Neppure si comprende fino in fondo perché su tale questione si sia esercitato il maggior impegno dei fautori di una scuola media democratica e aperta alle masse popolari. Forse perché rappresentava una materia difficile, uno strumento di selezione che di fatto obbligava a ricorrere alle lezioni private e dunque violava il principio della gratuità della scuola? Forse perché esprimeva una cultura lontana dalla realtà sociale da cui provenivano i “nuovi” studenti? In realtà, molte di queste perplessità avrebbero potuto coinvolgere anche l’insegnamento della Matematica; eppure l’attenzione si è concentrata in maniera quasi esclusiva sul Latino.

Per comprendere questa dinamica, occorre affiancare alla discussione sul maggiore o minore valore educativo del suo insegnamento il ricordo della dimensione simbolica che aveva conservato nella realtà del secondo dopoguerra, ereditata da tutta la storia della scuola italiana. Scrive M. A. Manacorda su Riforma della scuola del ’63, nell’articolo “Battaglia di retroguardia”: “Non siamo lieti che la battaglia di retroguardia, per liberarci del vecchio, ci abbia distolto anche troppo dalla più attenta definizione del nuovo”. Il “vecchio” era il carattere catechistico dell’insegnamento, il suo immutabile fondarsi sul principio d’autorità, l’acritica ricezione di atteggiamenti mentali e morali storicamente remoti. Commenta L. Besana, nel saggio dedicato al Latino nel terzo volume degli Annali della Storia d’Italia (1980): “Si tratta ancora di una disciplina, il latino, ma l’oggetto del contendere non è la disciplina in quanto tale, l’insieme dei suoi contributi e dei suoi metodi di insegnamento, ma è quello che si ritiene stia dietro quella disciplina, ne costituisca, per così dire, il sostegno e l’ispirazione di fondo. In una parola si tratta di discutere del principio educativo (…). È l’occasione per puntare a una riforma complessiva dell’assetto scolastico, che faccia coincidere il momento di ingresso di masse nuove nella scuola media con l’oscuramento e il superamento del concetto di cultura tradizionale della scuola italiana (…). È il segno di una scuola discriminante e in esso si coagula, di fronte all’invadenza organizzativa e ideologica della Chiesa cattolica, l’antica battaglia per la laicità della scuola, per un impegno diretto e sistematico dello Stato”.

Di contenuti e metodi dell’insegnamento si parla poco. L’osservazione vale per il Latino (da abolire o da conservare, ma in ogni modo non da discutere) e a maggior ragione per la didattica delle altre discipline. La Matematica meriterà un’attenzione maggiore solo quando presenterà la novità dell’abbinamento con le “Osservazioni scientifiche”. Come è facile immaginare, quotidiani e settimanali di informazione le dedicano uno spazio davvero esiguo e riservato per di più a qualche intervento estemporaneo. È il caso de L’Espresso del 20 maggio ’62, che approfitta del fatto che matematico – docente di Geometria all’Università di Genova – è il fratello di Togliatti (segretario del PCI). Dalla sua intervista emerge uno spaccato della fase che sta attraversando il pensiero matematico e che avremo modo di riprendere: “Si debbono sfoltire i programmi attuali che non sono né formativi né istruttivi e applicare, sia pure con prudenza, i nuovi programmi proposti dall’OECE. Essi prospettano agli studenti la nuova unità di pensiero che regna nella matematica moderna e la sua rigorosa struttura teoretica logico-deduttiva; sviluppano la teoria degli “insiemi” e delle applicazioni tra insiemi, adottano un nuovo linguaggio e nuovi simboli, e danno anche nozioni di calcolo delle probabilità e di statistica”. L’occasione per intervistare Eugenio Togliatti è data dalla sua partecipazione al Convegno “Insegnamenti scientifici e insegnamenti umanistici nella funzione formativa della scuola secondaria” organizzato dall’Accademia dei Lincei nel maggio ’62. Le conclusioni dei lavori vanno a intaccare con decisione quello che si pensava fosse l’appoggio dell’“alta cultura” a favore della serietà, del rigore e dell’organicità della scuola gentiliana. Il Convegno dei Lincei si schiera con risolutezza a favore di una scuola media unica obbligatoria in cui l’insegnamento del Latino sia abolito per dare più spazio invece allo studio dell’Italiano e delle materie scientifiche. Chiede poi una scuola generalista e meno professionalizzante: più cultura e formazione nelle scuole professionali (evitando però quelle incrostazioni formalistiche che appesantiscono gli insegnamenti umanistici) e più ore nei Licei per le materie scientifiche che dovranno saper approfittare di questi ulteriori spazi per togliersi di dosso la nomea che le riduce a un arido insieme di formule e per contribuire invece in modo essenziale alla formazione dei futuri cittadini.

L’incontro del maggio ’62 è seguito da un altro Convegno linceo, nel dicembre ’63, dedicato al problema della formazione dei docenti. Interviene di nuovo Eugenio Togliatti che ribadisce la posizione della comunità matematica italiana decisamente favorevole alla separazione dell’insegnamento della Matematica da quello delle altre Scienze, in quanto non si può non riconoscere “la profonda diversità concettuale fra le due materie, affidandole a insegnanti diversi, ciascuno specificamente qualificato”. Anche su questo problema avremo modo di tornare. Per ora osserviamo come, accennando alla sua relazione, l’Unità del 13 dicembre scrive che “il prof. Togliatti ha giustamente ribadito la necessità di sdoppiare…” dove non si sa se l’avverbio che accompagna il commento sia dovuto al fatto che “un Togliatti” non può che ribadire giustamente oppure ad una precisa scelta del partito sulla questione.

A dire il vero non pare, anche se i comunisti sono tra i pochi ad entrare nel merito – metodi e contenuti dell’insegnamento – delle questioni sollevate dalla riforma. Nel gennaio ’62, quando ancora la situazione è molto fluida e la riforma estremamente incerta nei suoi contenuti, l’Istituto “Gramsci” organizza il Convegno su “Strutture, contenuti e metodi per la scuola obbligatoria”. L’anno successivo, nel mese di marzo, lo stesso “Gramsci” focalizza il suo interesse su “L’insegnamento scientifico nella scuola obbligatoria”. La relazione introduttiva è tenuta da Lucio Lombardo Radice, che abbiamo già incontrato negli anni dell’immediato dopoguerra nello scambio di opinioni con Concetto Marchesi sull’insegnamento del Latino e che è il vero ispiratore di tutte le posizioni assunte dal PCI e dal “Gramsci” in tema di insegnamento scientifico (oltre ad esercitare una notevole influenza sul partito sui più generali temi di politica scolastica).

Per capire le sue posizioni, è opportuno ricordare che nei primi anni ’60 siamo nel pieno della cosiddetta rivoluzione insiemistica propugnata dalla Matematica moderna. Anche in Italia, il bourbakismo entra nelle aule scolastiche con la famosa invettiva di Jean Dieudonné che in un dibattito del ’59 sui problemi dell’insegnamento aveva gridato: Abbasso Euclide! Basta con le figure! Basta con l’insegnamento tradizionale basato su triangoli, bisettrici ecc. che obbligano i ragazzi a ripercorrere quello che è stato il tragitto del pensiero matematico, dal particolare al generale. Possiamo partire, pure con gli studenti più giovani, subito dal generale e questo in accordo con le teorie psicologiche di Jean Piaget che nega che il bambino cominci i suoi ragionamenti con la considerazione di elementi particolari per pervenire solo in seguito a concepire la totalità. La Matematica è lo studio degli insiemi e delle strutture che in essi si possono definire – in particolare le strutture algebrica, d’ordine e topologica – a prescindere dalla specifica natura degli elementi che costituiscono l’insieme. Per i bourbakisti la nuova mentalità algebrica che manipola simboli privi di contenuto, riferibili e applicabili quindi a ogni specifico insieme che possa essere inquadrato in quella data struttura, significa una notevole economia di pensiero: basta dimostrare un teorema per avere immediatamente l’opportunità di molteplici e svariate applicazioni. Significa anche – e questo è altrettanto chiaro – un ridimensionamento dei contenuti, rispetto alla sempre maggiore centralità assunta dal momento deduttivo.

Studioso di Algebra, Lucio Lombardo Radice si sente perfettamente in linea con la nuova sensibilità insiemistica-strutturale-algebrica. Sui temi dell’insegnamento inaugura un dibattito sulla rivista Cultura e scuola del ’62 chiedendo che si insegni molta più Matematica, soprattutto nei Licei classici davanti a quegli studenti che con tutta probabilità non si iscriveranno ad alcuna Facoltà scientifica e che hanno bisogno della Matematica quale “condizione necessaria per comprendere il discorso filosofico”. La prospettiva è quella già delineata da Enriques di una “sintesi organica del pensiero filosofico e storia del pensiero matematico”, nella speranza che le riforme ministeriali recepiscano prima o poi le indicazioni provenienti da “scuola e cultura militante”. L’auspicio vale anche per i programmi della futura scuola media unificata dove il riferimento all’innovazione si traduce in un esplicito appoggio all’impostazione bourbakista attraverso una citazione del belga W. Servais: “C’est donner une vue étriquée et déformée de l’algèbre que de la présenter comme une généralisation de l’arithmétique. L’arithmétique est affaire de calculus numériques et de propriétés des ensembles de nombres: l’algèbre est l’étude des structures opératoires indépendamment de la nature des objets sur lesquels portent ces opèrations”. Ancora più esplicito Lombardo Radice è nel simposio internazionale sull’insegnamento superiore che si svolge a Mosca nel settembre ’62, dove coraggiosamente accenna alle “tendenze dogmatiche in certi pensatori dei paesi di democrazia nuova e dell’URSS, in rapporto allo sviluppo del pensiero scientifico (…): se si pretende di giudicare le idee nuove della scienza a priori, confrontandole in modo meccanico con qualche frase, staccata dal contesto, dei classici del marxismo, si corre il rischio, in questo caso, di criticare come scienze “idealiste” e “borghesi” la cibernetica o la genetica o la meccanica ondulatoria e di ricevere subito dopo la smentita dei fatti”. Su che cosa significhi una didattica della Matematica efficace e al passo dei tempi non ha dubbi: “Come algebrista, darò l’esempio dell’algebra. Si può cominciare l’insegnamento del secondo ciclo (dagli 11 ai 14 anni) con le idee dell’algebra generale e astratta che dominano le matematiche contemporanee (insiemi, operazioni, gruppi ecc.)”.

Per gli innovatori degli anni ’60 la prospettiva da perseguire è dunque quella della “Matematica moderna”. Non sono preoccupati del fatto che insiemi, gruppi, spazi vettoriali, insiemi quoziente, trasformazioni ecc. vadano spiegati a studenti che nella maggior parte dei casi non hanno alle spalle famiglie che li possono seguire e aiutare, quegli stessi studenti per cui magari è stato abolito il Latino in modo che non dovessero affrontare difficoltà che li avrebbero portati inevitabilmente a ricorrere al mercato delle lezioni private. Non lo sono, preoccupati, perché ritengono che lo studente troverà più semplice il percorso che va dal generale al particolare. Pensano che tale percorso sia anche più democratico perché alla nuova Matematica non interessa il precedente apprendimento di Aritmetica e Geometria; pone tutti i ragazzi su uno stesso piano e non li discrimina in funzione della maggiore o minore conoscenza delle “tabelline”. Un ulteriore elemento di equilibrio è poi trovato con la particolare via italiana al bourbakismo per cui l’astrazione in cui vivono insiemi e strutture viene raggiunta e costruita partendo dal reale, dal concreto, da modelli ed esperienze effettive dove gli assiomi trovano le loro radici naturali.

È una posizione illustrata più volte da Emma Castelnuovo – ad esempio nella seconda puntata del dibattito su Cultura e scuola, quando presenta la sua metodologia per l’insegnamento della Geometria intuitiva – molto attiva in quegli anni anche a livello editoriale con la pubblicazione di alcuni volumi (in collaborazione con Luigi Campedelli e la casa editrice La Nuova Italia) che offrono al lettore italiano la possibilità di accostarsi ai nuovi orientamenti emergenti in campo didattico. Contribuiscono a definire la sua peculiare sensibilità la tradizione matematica italiana, acquisita direttamente in famiglia, e l’esperienza professionale che la vede insegnare alla scuola media “Tasso” di Roma. Dopo il suo intervento, il dibattito su Cultura e scuola prosegue con gli interventi di Mario Baldassarri e di Angelo Pescarini. Il primo ribadisce come, per la presentazione della nozione di insieme ai ragazzi tra gli 11 e i 14 anni, sia “importante fondarsi sulla vita pratica” ma che d’altra parte l’approccio insiemistico è troppo significativo per essere rinviato a meno che non si vogliano ignorare le “scoperte matematiche degli ultimi cinquant’anni (…) forse pari a tutto quanto era stato fatto prima in matematica”! Pure per il secondo “l’insegnamento dell’aritmetica e quindi dell’algebra può e deve oggi essere favorito da una pratica operativa sul concreto e dalla conseguente presa di coscienza delle strutture formali del calcolo” dove il concreto “perde l’alone di feticcio empirico e resta come momento di un processo dinamico su cui si fondano le attitudini costruttive dell’astrazione e della ricerca”. In ogni modo – siamo nell’autunno ’62 – il senso da attribuire all’esercitazione su materiale concreto non può mai portare a confondere e a unificare l’insegnamento di Matematica e Fisica e, nel caso della scuola media, di Matematica e Osservazioni scientifiche.

Non è un atteggiamento che caratterizza solo gli “innovatori”. Nei primissimi anni Sessanta, l’attenzione di tutta la comunità matematica – quando riflette sui problemi dell’insegnamento – è concentrata sulle nuove prospettive aperte dall’“insiemistica”. I matematici appaiono abbacinati dalla luce di un’esplosione di cui hanno preso da poco coscienza e credono che questa sia la questione centrale di cui occuparsi, dalla quale dipenderanno tutte le altre scelte: riformare contenuti e metodi didattici in linea con quello che abbiamo sommariamente indicato come progetto bourbakista. Della scuola media e dei suoi programmi parlano poco. Di fatto valutano che la riforma, che con molta fatica sta arrivando al suo compromesso parlamentare, non cambierà molto l’insegnamento della Matematica. Le priorità e le nuove centralità sono altre. Insorgono solo quando, per risolvere il problema della mancanza dei professori richiesti da una scuola obbligatoria per tutti, si profila la proposta (poi rientrata) di utilizzare i maestri elementari in esubero per le cattedre matematiche. L’UMI esprime poi tutte le sue perplessità su quanto si sta sperimentando nelle classi-pilota dove l’insegnamento di Matematica è stato abbinato a quello di Osservazioni scientifiche e affidato ad un unico professore, in contrasto con la tendenza universitaria dove invece era stata appena abolita la laurea mista in Matematica e Fisica.

Le eccezioni a questo interesse… non proprio esagerato sono poche. Tra queste spicca la figura di Lombardo Radice che non perde occasione per sottolineare la necessità di un aggiornamento culturale degli insegnanti dato che “la maggior parte degli insegnanti di matematica laureati da dieci, o anche da meno anni, non ha seguito un corso istituzionale né di algebra astratta né di topologia”. Nell’insegnamento è utile partire dalla concretezza, basandosi sull’intuizione e la verifica pratica, ma non si può con questo eludere il momento dell’organizzazione delle conoscenze così acquisite e del passaggio al ragionamento logico sui simboli. Sono considerazioni che Lombardo Radice estende alle Osservazioni scientifiche e all’insegnamento dei primi elementi di Scienze naturali. La loro introduzione viene valutata come un fatto indubbiamente positivo: è l’esito di una lunga battaglia sostenuta dal pensiero laico e non idealista (in accordo con le trasformazioni avvenute nella società e nella cultura italiana) che ha imposto il principio che alle Scienze naturali debba essere dato un posto nell’educazione di base. Adesso il problema cui sono chiamati non solo i comunisti ma tutti i “democratici avanzati” è quello di non attardarsi in una battaglia per la presenza dell’insegnamento scientifico nella scuola obbligatoria ma di cominciare a vedere di quale scienza si tratta e del modo con cui sarà insegnata. Bene, dunque, l’introduzione delle Osservazioni scientifiche purché non vengano insegnate in modo puramente empirico, episodico, rapsodico, caratterizzato dalla puerilità dei metodi proposti e da una sconcertante povertà di contenuti. Non si può accettare la riproposizione della “vecchia posizione classista, della scissione tra umanesimo e scienza che riduce quest’ultima a una descrizione empirica della natura, ad una “osservazione” neutrale dei fenomeni, in chiara contrapposizione e polemica con il principio di una formazione scientifica che sia conoscenza e interpretazione razionale e organica della realtà” (Rinascita, 25 maggio 1963). Sull’Unità, sempre della stessa primavera scrive: “Educare allo spirito scientifico significa, perciò, abituare a riflettere, a escogitare ipotesi e a controllarle rigorosamente con l’uso accurato di strumenti, in generale di strumenti che vedono ciò che ai sensi sfugge e che misurano quantitativamente ciò che i sensi valutano tutt’al più in modo grossolano (…): i programmi restano invece chiusi nella descrizione elementare e superficiale dei fenomeni naturali – macroscopici – e parlano quasi esclusivamente di osservazione di piante e animali nel loro ambiente naturale. Un siffatto naturalismo descrittivo può andare bene (sì e no) per le prime cinque classi elementari, dagli 11 ai 14 anni ci deve essere qualcosa di più e di diverso: l’uso dello strumento scientifico, la prima strutturazione mentale dei concetti fisici e il loro controllo sperimentale”. Sullo stesso quotidiano, il 1° novembre ’63, aggiunge: “Di particolare attualità è la polemica contro il mito empiristico del valore dell’osservazione in sé per sé. L’osservazione di fatti e cose così come si producono in natura è solo il primo, primissimo passo: il passo decisivo è la sperimentazione, ossia il produrre fenomeni in condizioni determinate, onde si possano stabilire relazioni di cause ed effetti”.

L’atteggiamento di UMI e Mathesis cambierà nella primavera-estate ’63 quando, a pochi mesi dall’apertura del nuovo anno scolastico, il problema del reperimento degli insegnanti per la scuola media obbligatoria per tutti si prospetta in tutta la sua urgenza. Le conclusioni a cui perviene la Commissione per il reperimento degli insegnanti secondari di Matematica, costituita dall’UMI, non lasciano adito a dubbi. Davanti alle varie soluzioni proposte (insegnamento affidato in via transitoria ai maestri in eccedenza oppure agli studenti di Matematica o Fisica del secondo biennio), il ministro sceglie di continuare l’esperienza delle classi-pilota unificando l’insegnamento di Matematica e Osservazioni scientifiche, che diventa “Matematica, Osservazioni ed Elementi di Scienze naturali”, e consentendone l’affidamento ai laureati di numerosi corsi di laurea. Pochissimi sono i matematici favorevoli alla decisione ministeriale, intravvedendo un nuovo canale di dialogo con le altre discipline scientifiche; pochi sono anche quelli che registrano delle ragioni sia a favore che contro, di carattere didattico e amministrativo. La maggior parte protesta vivacemente con quelle argomentazioni che abbiamo già incontrato citando Eugenio Togliatti e Angelo Pescarini. Sulla stampa, Lombardo Radice preferisce affidarsi all’ironia: “Gli insegnanti di matematica, laureati in matematica, vincitori di concorsi in matematica sono stati costretti – dall’oggi al domani – ad improvvisarsi “osservatori scientifici” in senso naturalistico. Siamo alla tragi-commedia: “Signora professoressa, posso portarle domani certe pietre curiose, che non so che cosa siano?” – “No, ragazzo mio, aspettiamo la primavera, per ora sto studiando la botanica”” (L’Unità, 25 ottobre 1963).